A L'Aquila è Scoppiata la Bolla...

14 Giugno 2016   07:40  

Era il 3 febbraio del 1637 e in Olanda i bulbi di tulipano valevano quanto fattorie. Si registravano addirittura casi di vendite allo scoperto, come diremmo ora: le chiamavano “commercio del vento”. Per tutti ora sono i futures. In sostanza erano già venduti bulbi appena piantati, altre volte ancora da piantare, azzardando delle ipotesi. Questa pratica venne addirittura vietata, con un editto statale del 1610, ma senza successo. Molti realizzarono enormi profitti, impegnando senza indugio anche degli immobili, pur di garantirsi la liquidità necessaria per poter investire. Ma poi giunse, appunto, il 3 febbraio: convinti di non poter spuntare prezzi maggiori, i commercianti di bulbi iniziarono a vendere, facendo crollare i prezzi. Molti si ritrovarono con in mano merce pagata dieci volte tanto, ora senza alcun valore. Altri, peggio, solo con promesse di forniture, ma già profumatamente pagate. Era appena scoppiata la prima bolla speculativa della storia.

Questa è la caratteristica delle bolle speculative: guadagni non in linea con le condizioni reali, quindi gonfiati da situazioni aleatorie, che da uno o più elementi concomitanti, che possono essere anch’essi di natura aleatoria o più semplicemente presentarsi come un ripristino della normalità, vengono bruscamente interrotti. Con logiche conseguenze.

In seguito questa situazione, con prodotti differenti, si è ripresentata più e più volte. Alcune bolle speculative sono famose, come la crisi dei mutui subprime del 2007, altre meno, come la Bolla della South Sea Company, che ebbe tra le “vittime” illustri Isaac Newton.

Non tutti si sono accorti che anche L’Aquila ha vissuto una situazione del genere.

Torniamo indietro.
All’indomani del terremoto la situazione era la seguente: forze dell’ordine, volontari, vigili del fuoco, e subito dopo le prime ditte, per la messa in sicurezza e la costruzione dei progetti CASE e dei MAP, erano presenti in città. Dormivano in alloggi forniti dallo stato, container messi in loco dalle ditte, appartamenti agibili. C’erano pochi aquilani in giro, ma era questo gran numero di individui i quali spendevano in città, a colmare il vuoto.

Di contro la città aveva un numero di attività commerciali decisamente ridotto, attività che faticavano a far fronte alle esigenze di tutti. Intanto i primi aquilani si riavvicinavano alla città, per motivi di lavoro o di studio, facendo crescere la domanda di abitazioni in fitto, con una scarsa offerta. Le bollette non arrivavano e molti potevano usufruire delle deroghe sull’IRPEF, con conseguenti aumenti sugli stipendi, e del pagamento dell’autonoma sistemazione, nonché nella sospensione dei mutui.

In sostanza ognuno beneficiava di qualcosa. In conclusione ogni aquilano aveva una maggiore disponibilità economica. Il tessuto economico viaggiava a gonfie vele, bastava aprire un piccolo locale e vendere panini per guadagnare bene.

Ma.
Tutto questo era un evidente “sistema dopato”, alimentato in parte da basi non economiche (aiuti statali), in parte da proventi non ciclici (soldi della ricostruzione). I pagamenti da parte della pubblica amministrazione erano puntuali, perché sostenuti dalla Cassa Depositi e Prestiti, quindi dalle banche.
Ma tutto ciò si configurava, è evidente, come una bolla. Ed era solo questione di tempo prima che esplodesse.

Non è una data precisa, qui non si parla di borsa, ma una serie di circostanze. La prima avvisaglia venne lanciata dalle banche, le quali pretesero la restituzione degli interessi passivi sui mutui sospesi. In poche parole: aumento delle rate per un congruo numero di mesi, con diversi casi di creditori costretti a chiedere rifinanziamenti. Poi intervennero i gestori di utenze, i quali richiesero i pagamenti per quanto erogato, con tanto di interessi per i ritardi concessi. Terminarono gli sgravi fiscali contestualmente iniziò la restituzione di quanto non esatto in precedenza. Tutto questo in unione alla crisi nazionale che già era in atto da tempo ma che, essendo la città all’interno di una bolla, non era ravvisata da alcuno.

Ma quali sono state le conseguenze di tutto questo? Un dato statistico risulta evidente: ben oltre la metà di quelle attività che hanno potuto ripartire nell’immediato dopo sisma hanno chiuso.

Sembra assurdo, vita la mole di lavoro che hanno svolto e i conseguenti guadagni registrati, eppure c’è l’evidenza dei fatti. In particolare il settore del food and beverage ha sofferto per questa brusca frenata, ma anche l’edilizia, in particolar modo le piccole e medie imprese. Nel primo caso ha influito il calo improvviso delle presenze, nel secondo la lentezza dei pagamenti e, conseguentemente, l’indebitamento, a seguito del quale le aziende (beffa delle beffe) non potevano produrre un DURC, necessario allo sbloccamento dei seppur lenti pagamenti.

Un meccanismo perverso che porta la già citata piccola e media impresa a versare in condizioni di grande difficoltà, le banche a rendere l’accesso al credito sempre più complesso, i posti di lavoro a diminuire in maniera impressionante.

Alla fine il refrain è sempre il medesimo: chiedere risposte alla politica. Ma è quella stessa politica che fin ad ora ha fatto semplicemente da spettatrice in questo teatro che è L’Aquila.

Massimiliano Laurenzi
Twitter: @max_laurenzi


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