Caprafico: viaggio nel tempo, a due passi da Guardiagrele

04 Giugno 2012   12:22  

Arrivare sull’altopiano di Caprafico, in agro di Guardiagrele, è come viaggiare con la macchina del tempo.

Lasciata la Statale 81 a pochi km da Casoli, di colpo il paesaggio si fa solitario e la strada si inerpica tra gli olivi ordinati verso i contrafforti della Majella. Agli ultimi tornanti, nel pietrisco di una parete a strapiombo si nascondono, ma non tanto, resti fossili di conchiglie e pesci.

E quando il pianoro si allarga di fronte alla montagna, ci si accorge di essere su quello che era il fondo di un lago o del mare che milioni di anni fa ricopriva tutto (Majella compresa) e che ora è il sedimento di pietruzze, fossili e limo che rende fertile questa terra.

Qui oggi coltiva il farro Giacomo Santoleri, l’ingegnere nato a Roma da famiglia guardiese e tornato negli anni ’80 nella sua terra, alle sue radici. L’altopiano di Caprafico (da una parte la Majella, dall’altra il mare all’orizzonte) è raggiunto dalla brezza dell’Adriatico poco lontano che crea un microclima unico per i cereali minori, i legumi e gli olivi (farro, orzo mondo, lenticchie, ceci) che l’ingegnere coltiva con successo e per scelta di vita.

“Il mio progetto era realizzare un’attività di agricoltura compatibile in questo ambiente incontaminato – spiega Giacomo Santoleri, accarezzando con gli occhi il farro che sta nascendo e che qualche inesperto potrebbe confondere con il grano – certo mi ha aiutato la natura del territorio vocato per i cereali che non hanno bisogno di chimica, proprio come il farro che è il più selvatico.Pochi lo sanno, ma io ho recuperato una memoria storica: questo cereale si coltivava nell’alta Valle del Sangro a pochi km da qui.”

Nascosto tra libri di agricoltura biologica e faldoni di fatture, spunta a sorpresa un quadretto con una stampa del ‘900: è la copertina dell’Illustrazione abruzzese firmata Basilio Cascella che ritrae una donna alle prese con una piccola macina in pietra per decorticare il farro. In realtà la passione di Santoleri per l’agricoltura tradizionale di qualità e per l’innovazione non dipende solo dai suoi studi di ingegneria: nasce direttamente in famiglia, dal padre Giovanni, che è stato un illustre uomo politico liberale ed un proprietario terriero illuminato.

Le sue idee di progresso e le iniziative anticipatrici in agricoltura hanno lasciato un segno ancora oggi visibile nel territorio pedemontano di Guardiagrele, sul versante di Crognaleto che declina dolcemente verso il mare. Non siamo nelle Langhe, ma alla fine degli anni ‘60 la sua intuizione di piantare su queste colline 22 ettari di Montepulciano d’Abruzzo e 2 di Trebbiano ha anticipato l’esplosione successiva e recente dei vini Doc abruzzesi nel panorama vinicolo italiano. L’interesse di Santoleri junior si è invece rivolto ai cereali minori e all’olivo, nelle sue cultivar locali: la Gentile di Chieti – che sta prendendo il sopravvento sul Leccino, che è di “importazione” toscana - e l’Intosso, una varietà autoctona da frutta che il mercato richiede sempre più anche come oliva da olio per i profumi che sviluppa.

“È una lotta continua con le mode del mercato. Spesso vengono imposte scelte non legate alle qualità organolettiche dell’olio per le quali mi sono sempre battuto – racconta Santoleri – io insisto con la Gentile di Chieti che è una varietà tardiva, mediamente profumata, ma anche un pò amara e che “pizzica” in gola. Segno della presenza di polifenoli che sono l’oro dell’olio, il valore aggiunto, la qualità che nessun altro prodotto industriale può vantare.”

E non è un caso che quest’olio, spremuto a Caprafico da olive sane appena raccolte, non solo è stato uno dei primi ad essere imbottigliato, ma oggi sta mietendo successi nel mercato degli intenditori. “La stessa eccellenza la cerco nelle lenticchie piccolissime che produco su questo terreno alluvionale ed il cui sapore è nascosto nella buccia - continua Santoleri - oppure nei ceci di una varietà antica e recuperata, che sono più “duri”, ma solo perché mantengono la cottura, ed infine nel farro e nell’orzo che sono la mia produzione di punta.”

E forse è stata proprio “l’integralità” del farro a farlo diventare la passione segreta di Santoleri, la traduzione in agricoltura di una visione filosofica del mondo. “Il farro è da sempre un alimento perfetto e soprattutto buono, visto che è un cereale integrale naturale, con una crusca equilibrata che ne addolcisce il sapore. È un alimento che serve a vivere bene proprio per le sue caratteristiche nutrizionali, ci sono minerali importanti ed un amido che nell’intestino ha effetti probiotici, come sostengono alcuni studi.”

La stessa passione per la qualità Giacomo Santoleri la cerca nella trasformazione dei suoi prodotti affidata ad artigiani scelti con cura. Così nascono le sue paste di farro, di farro ed orzo e di semola ed orzo (“mi raccomando sempre di scolarle molto al dente” aggiunge), ma anche l’orzo mondo tostato per il caffè e quello “corretto” all’anice che ricorda antiche consuetudini contadine. Fuori, nel campo che ha come sfondo naturale la Majella ancora innevata, stanno nascendo le prime pianticelle di lenticchia. Santoleri le sfiora: “Si, questa primavera piove, ma non quanto si crede. Per fortuna questa terra è fresca naturalmente.” Un sole pallido annuncia una primavera un pò tardiva. È ora di tornare nel tempo. La strada che scende verso la Statale 81 stavolta è un’altra ed è poco più di una mulattiera, tra passaggi in frana e siepi di rosmarino. La presenza di resti romani nella zona spiega meglio di tante altre leggende che anche anticamente questo isolamento era ricercato ed apprezzato.

Ne resta traccia nel toponimo Caprafico, che alcuni fanno risalire ai riti della fertilità, quando a Roma, sotto la grotta del Palatino, le vergini venivano battute con pelli di capra durante i riti Lupercali. O forse il nome di questa località rimanda all’impollinazione del fico selvatico, un’etimologia che Santoleri preferisce nella sua visione dell’agricoltura e dell’alimentazione con i prodotti naturali della terra.

Per lui anche il mito di Romolo e Remo che preferisce è quello che li vede nutriti con il latte del fico selvatico piuttosto che dalla lupa capitolina. Dunque una leggenda pacifista, che rimanda alla natura ed alla frugalità degli Etruschi e non alla Roma imperialista. Resta comunque il fatto che gli antichi romani sapevano scegliere bene i posti dove godersi la vita. Anche con un’agricoltura filosofica. Sebastiano Calella


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