Domenico e Francesco potevano salvarsi, la morte sul lavoro non arriva per "fatalità"

La sicurezza sul lavoro non è una priorità

02 Novembre 2013   11:44  

La provincia aquilana negli ultimi giorni è stata protagonista di due infortuni mortali sul lavoro. Il 27 ottobre Domenico Libertini, 49 anni, è morto sotto il peso di un muro di contenimento crollato nella frazione di Forme, nel comune di Massa d’Albe. L’uomo stava utilizzato un martello pneumatico per realizzare la coibentazione di una parete esterna dell’abitazione. Ma il muro, a confine della strada, non ha retto alle vibrazioni dello strumento utilizzato dall’operaio. E i rilievi sulla stabilità del muro? E la sicurezza sul lavoro? L’uomo lascia il fratello Celestino, la madre Vittoria e il padre Fernando.

Il 31 ottobre Francesco Trabalsi, 39 anni, operaio di Pescina ha fatto un volo di 20 metri: era salito sul tetto del capannone della ditta per la quale lavorava, doveva riparare un pannello che, però, non ha retto il peso dell’operaio. E l’imbracatura? Chi ha mandato Francesco sul tetto? E la sicurezza sul lavoro? L’uomo lascia la moglie Pina e una figlia di 13 anni.
In entrambi gli episodi la sicurezza sul luogo di lavoro viene sottovalutata e ci si affida alla propria esperienza, ma una morte sul lavoro non avviene mai per fatalità.

Troppo spesso l’urgenza, la fretta, la superficialità nel pensare che non possa accadere nulla, fanno sottovalutare le misure di prevenzione. Domenico e Francesco potevano salvarsi. Il dolore resta delle famiglie, la società viene coinvolta nell’immediato, ma poi le morti vengono dimenticate.

Ci saranno dei processi da affrontare e l’esperienza di chi c’è passato, in Italia ogni anno più di mille lavoratori perdono la vita, testimonia che le pene per chi omette le misure di sicurezza non sono mai esemplari.

Ci sono figli che non potranno mai più abbracciare i loro genitori e ci sono genitori che non potranno più baciare i loro figli.
La caduta dall’alto è una delle cause di morte più frequente nell’edilizia e Lisa, 31 anni, è morta a Tricase, anche lei mandata sul tetto di un capannone. Una morte così violenta, soprattutto per una madre, non può esser colmata con nulla, nemmeno se i responsabili venissero condannati.

La madre di Lisa ha scritto in una lettera tutto il suo dolore:

“e urlo, urlo, urlo come una pazza … perfino i morti, che mi guardano dalle loro gelide fotografie di ceramica sulle tombe, credo siano terrorizzati dal mio quotidiano appuntamento nella loro dimora e si domandino con quale diritto vengo a violare in quel modo il loro diritto alla quiete eterna. e, forse, anche tu, amore mio, temi che possa disturbare le anime, sei un po’ preoccupata della mia irruenza, del mio non essere capace di un comportamento silente e pacato, del mio metterci l’anima in tutto quello che dico e che faccio, rispondendo a un moto che non so controllare… come quando assistevo alle tue partite di pallavolo e discutevo con veemenza con il pubblico avversario, o quando inveivo contro gli arbitri, e tu, dal campo di gioco, con lo sguardo e un dito sulla bocca, mi imploravi “mamma, stai zitta”… questa mamma, così presente, così poco incline al quieto vivere, così insofferente… così uguale a te nei tratti fisici e nell’anima, ma così diversa da te nei suoi comportamenti.
Sono fatta così, lo sai, l’hai sempre detto tu che sono iperbolica, che ho reazioni sempre esagerate, nel bene e nel male. Non posso certo cambiare adesso, ora che ho una ragione più forte per gridare al mondo la mia disperazione, con la violenza di un corpo e di una mente che si ribellano a un sopruso del destino, che va ben oltre la loro possibilità di accettarlo.
E, intanto, continuo a chiedermi, a chiederti, come hai potuto farmi questo … abbandonarmi così, all’improvviso, rispondendo a chissà quale ordine, di chissà quale padrone e svuotando la mia vita di ogni senso per riempirla di angoscia, di sgomento, di niente.
Sì che ce l’ho il diritto per fare tutto questo… ho il diritto di chi non ha perso una cosa qualunque, ma ha perso se stessa e non sa più ritrovarsi nello spazio vitale, ogni giorno più angusto, dentro il quale si muove…
il diritto di chi è stato privato dei colori dell’arcobaleno e non può più dipingere sogni, speranze, futuro…
il diritto di chi non potrà mai accarezzare biondi capelli di teneri Amori, con gli occhi più azzurri del più azzurro dei cieli…
il diritto di un sangue che non scorre più nelle vene, un sangue buono e generoso, tante volte donato, che urla il suo sdegno nel più assordante silenzio, lasciato per terra sul grigio, desolante cemento di un capannone vestito di morte… un sangue che esce dai muri bianchi di Puglia e lascia il colore su leggi violate, coscienze assopite e increduli cuori …
era il tuo sangue, il mio sangue …
Ho un diritto che non si trova tra le pagine di un Codice, è un diritto che vive, non scritto, tra le pieghe del cuore …
sei tu il mio diritto, il mio diritto di Amore”

 

Samanta Di Persio


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