Enrico Trubiano, nella letteratura del mito in terra abruzzese

12 Dicembre 2013   10:48  

Scrittore e ricercatore, nato a Torre de’ Passeri (PE) nel gennaio 1954 si laurea in Giurisprudenza e per circa dodici anni ricopre il ruolo di segretario comunale in diversi centri abruzzesi. Attualmente è alle dipendenze di un ente pubblico. Dal 2000 vive a Silvi (Te), dove si dedica alla ricerca storiografica e alla scrittura di saggi e testi storico-culturali.

Nel luglio 2011 è finalista della XIV edizione del Premio nazionale di Letteratura naturalistica Parco Majella Abbateggio (Pe), nella Sezione Articoli Giornalistici, con la pubblicazione: “L’antico culto della Dea Pomona”, nel luglio 2012 è di nuovo finalista della XV edizione del Premio nazionale di Letteratura Parco Majella, nella Sezione Saggistica, con la pubblicazione: “Abruzzo in Festa” e nella Sezione Articoli Giornalistici, con la pubblicazione: “Il prode Don Chisciotte amò Dulcinea sulla spiaggia di Silvi”.

OPERE

Nel novembre 2005 ha dato alle stampe, per le edizioni Menabò di Pescara, la ricerca documentale “La Diocesi di Atri”, non solo una porzione territoriale, bensì un comprensorio particolarmente ricco di arte, storia e cultura. Nel maggio 2007 ha pubblicato per Edizioni Zona Franca di Silvi, la ricerca storica “Silvi la bellissima”, che ricostruisce, con dovizia di particolari, dalle origini, le vicende più importanti, di questo vivace centro rivierasco, ottenendo un diffuso interesse e numerose recensioni.

Il terzo libro “Atri tra storia e arte” ( Cassandra Ed.) tra gli argomenti trattati, pone l’accento sulla figura di Andrea De Litio, maggior pittore del Quattrocento abruzzese per le opere realizzate nel coro dei canonici della cattedrale. Il saggio “Abruzzo in Festa”. Miti eventi ed antichi sapori” Ferri Editore (novembre 2011) tratta di una serie di viaggi fatti nella regione alla ricerca di feste popolari, riti religiosi contadini, intesi come eventi antropologici e identitari preziosi che diventano il mezzo per un indagine che mira ad accertare quello che resta della forte devozione popolare che caratterizzava questi eventi nel secolo scorso. Il testo è arricchito dalle splendide fotografie di Gino Di Paolo. Altre interessanti pubblicazioni sono: “I colori della Cattedrale” saggio sulle meravigliose pitture esistenti nel tempio di Atri corredato da un approfondimento sul loro autore: Andrea De litio, il maggiore artista del Rinascimento abruzzese, “L’antico culto della Dea Pomona”, “I Santi Sposi” , “San Valentino: il Santo dell’amore”, “La trave infuocata (di Santa Margherita)”, “Dietro al palio delle botti tanta storia antica” Corropoli (Te) , A Roseto per il premio “Pasquale Celommi”, ha concorso con “Don Chisciotte amò Dulcinea sulla spiaggia di Silvi”.

 

TROVATA LA TOMBA DI DON CHISCIOTTE di ENRICO TRUBIANO

Dulcinea e l’hidalgo si amarono a Silvi?

La spiaggia di Silvi, teatro della storia d’amore tra Don Chisciotte e Dulcinea a cura di Enrico Trubiano. Una ricerca su Cervantes collocherebbe questa porzione dell’Abruzzo tra le mete più ambite dagli innamorati di tutto il mondo. Il famoso scrittore spagnolo Miguel Cervantes de Saavedra (1547-I616), autore del romanzo per eccellenza “Don Chisciotte della Mancia”, attesta il legame con la famiglia Acquaviva nel dramma pastorale “Galatea”, che risale al suo periodo giovanile. Infatti, nella dedica indirizzata ”Ad Illustrissimo Senor Ascanio Colona, abbad de Santa Sofia”, egli si qualifica come “camerero” Acquaviva in Roma, precisamente al servizio del cardinale Giulio (Atri 1546 - Roma 1574).

Un altro legame tra Cervantes e la nobile famiglia napoletana nasce dal fatto che è lui a combattere al fianco del decimo duca di Atri, Giovanni Giacomo a Lepanto nel 1571. La famiglia Acquaviva dunque, i feudatari del ramo di Atri con diciassette duchi dal 1393 fino al 1760 sono i signori per cui Cervantes vive l’avventura italiana. Queste annotazioni sembrano supportare una ricerca che, partendo da un ambito territoriale ben definito, risulti idonea a rintracciare una possibile origine dei nomi di Don Chisciotte e Dulcinea, che l’autore sceglie per i due principali interpreti della sua storia, le cui vicende sono cosi vicine a quelle di tutti gli uomini e donne del pianeta.

Il triangolo di terra, già sede di diocesi, che oggi comprende Atri, Pineto e Silvi nella provincia di Teramo, offre vari spunti per un’ indagine che pone l’attenzione sui sette anni meravigliosi, che vedono Cervantes protagonista incontrastato della vita colta nella penisola, a cui partecipa con frequenti spostamenti, quando non prende parte alle varie spedizioni militari. Ufficialmente nomi di fantasia Don Chisciotte e Dulcinea, potrebbero essere i personaggi che hanno animato i fatti di quel periodo denso di avvenimenti e la loro storia d’amore, diventata emblematica, potrebbe essere nata sulla spiaggia in passato di Atri, oggi Silvi.

A sostegno di quando affermato, si propone la conoscenza di avvenimenti, confronti di date e qualche ipotesi. Per la figura di Don Chisciotte, ogni dubbio svanisce e il discorso si chiude, quando si accerta che a ispirare Cervantes sia stato Giovanni Francesco Acquaviva d’Aragona. Quest’ultimo per la sua notorietà è stato ritratto (1551, olio su tela 230x153 centimetri) da Tiziano Vecellio (1488-1576) a Kassel, uggiosa città tedesca, con l’alabarda, il cane da caccia, l’armatura e le chisciotte, la caratteristica calzamaglia spagnola rigonfiata ai fianchi. Giovanni Francesco è, infatti, il figlio primogenito di Andrea Matteo Acquaviva III d’Aragona, (1455 circa-1529), figlio di Giulio Antonio, VIII Duca d'Atri, il valoroso condottiero, di animo signorile, unico della sua famiglia a ornare la cattedrale atriana.

E’ lui, che assicura il dovuto sostegno al maggior pittore del Quattrocento abruzzese, Andrea De Litio da Lecce dei Marsi (Aq), impegnato a realizzare il suo ciclo di affreschi del coro. Andrea Matteo III, da politico lungimirante e raffinato stratega, nell’autunno 1511, ordina a Giovanni Francesco ed i suoi uomini da egli stesso stipendiati, di dar man forte al viceré di Napoli, Don Raimondo di Cardona, che si muove il 2 novembre alla testa delle milizie spagnole-napoletane per porsi a capo di quelle di tutta la lega, promossa dal belligero pontefice Giulio II Della Rovere, fra sé, il re cattolico ed i veneziani per scacciare i francesi della Lombardia. Nella disfatta delle armi collegate, presso Ravenna, il giorno 11 aprile 1512, Giovanni Francesco è ferito gravemente ed è fatto prigioniero dai francesi, insieme con i maggiori capi dell’esercito della lega, tra cui il cardinale legato Giovanni dei Medici, poi papa Leone X, Pietro Navarra, generale spagnolo e Ferdinando D’Avalos, marchese di Pescara.

Delle curiose vicende capitate a Giovanni Francesco, è il panegirista Storace, storiografo della famiglia Acquaviva, a riferire. La sua opera, molto apprezzata, “Istoria della Famiglia Acquaviva”, stampata a Roma, è del 1738. E’ certo che Giovanni Francesco prima della campagna, abbia ricevuto una provvigione di 10 mila ducati dal re cattolico. Quanto al comportamento in battaglia, che sistematosi nelle prime file sia caduto quasi morto per molte ferite, delle quali la più grave alla testa (che teneva scoperta) quasi fino al cervello. Si racconta ancora che, in virtù del suo alto lignaggio, il re per onorarlo abbia ingiunto al viceré Cardona di andarlo a visitare a suo nome e il papa Giulio II gli abbia permesso di coprirsi in chiesa e inibito il suono delle campane nella sua dimora. Un’altra prova che getta nel ridicolo l’Acquaviva è quella del 24 febbraio 1525, quando a seguito della terribile sconfitta dei francesi inflitta dagli imperiali, sotto le mura di Pavia, che determina la prigionia del re Francesco, pur appartenendo a un esercito, pienamente trionfante, si fa catturare di nuovo.

 

Giovanni Francesco Acquaviva, marchese di Bitonto, muore di peste in Atri il 6 ottobre 1527, assistito dal suo medico Forcella che, contratto il morbo mortale, alla fine dei suoi giorni è sepolto da Andrea Matteo III insieme all’amato figlio. Il corpo di Giovanni Francesco riposa nel monastero di S. Chiara. Diversa spiegazione trova invece la possibile adozione da parte di Cervantes del nome Dulcinèa, o Dùlcinea del Toboso, per l’ispiratrice delle imprese donchisciottesche, in ricordo di una storia d’amore nata sulle spiagge del Mar d’Atri, oggi Silvi. E’ a sostegno di tale ipotesi la considerazione che, durante il periodo italiano, pare possibile l’avverarsi di una simile situazione, quando il celebre scudiero avrebbe potuto conoscere le splendide Dulcinèe, o Dùlcinee di Silvi, presenti nel territorio, fin dalla fine del ‘400.

In questi anni, numerose famiglie slave, provenienti da Dulcigno, attuale Ulcini, piccola città marina del Montenegro, ubicata ai confini dell’Albania, raggiungono la costa adriatica, accolte dal re Ferdinando di Napoli, che obbliga la popolazione di Silvi, notevolmente ridotta da varie guerre, ad ospitarle. I “Dulcignotti”, di indole tranquilla e laboriosa, e le loro donne, le splendide Dulcinee, avrebbero potuto stregare l’autore de “il Cavaliere dalla Trista Figura”. Del resto l’ipotesi di due dulcinèe o dùlcinee, è rintracciabile nello stesso romanzo, formulata da Don Chisciotte in uno degli ultimi incontri con Sancho Panza, uno spassoso personaggio popolare.

Questi propone all’immaginoso cavaliere una Dulcinèa o Dùlcinea di pelle ambrata, la contadina Aldonzo Lorenza; a catturare i pensieri di Don Chisciotte, invece, è l’altra Dulcinèa o Dùlcinea, una giovane donna innamorata conosciuta sulle spiagge un tempo controllate da Atri, oggi Silvi, di sicuro seducente come le donne slave di fiera e rara bellezza sanno essere.

 

Il ciclo degli affreschi del coro della cattedrale di Atri

Di Enrico Trubiano

Il coro della cattedrale di Atri, trattato come una cappella a sé stante ed interamente ricoperta di affreschi alla maniera rinascimentale, è opera di Andrea de Litio. E’ commissionata dal vescovo Antonio Probi, colto prelato ma anche ambasciatore per conto della città di Atri e poi consigliere del re di Napoli Ferrante I d’Aragona.

Ad incuriosire il visitatore attento sono gli stralci di vita cittadina, gli interni di abitazioni popolate da figure talvolta appesantite, le scene di quotidianità rappresentate da tipi e personaggi locali. Il pittore, in uno dei pennacchi degli archi tondi, lascia il dipinto di Andrea Matteo Acquaviva III d’Aragona (1455 circa-29 gennaio 1529), che al tempo del suo ducato fa eseguire le opere di abbellimento della cattedrale. Tratti del viso, spigolosi e taglienti del valoroso condottiero e dalla sua figura, che sembra tagliare lo spazio in diagonale, ricca di tensioni, accentuate dal rigonfiamento del busto e dal lungo braccio poggiato, costituiscono lo scenario, dove l’autore, dotato di capacità spesso discorde e varia, sa anche lasciare opere di elevato livello.

La scuola a cui si forma il giovane De Litio è quella del gotico internazionale che, distinguendosi dalla filosofia e teologia medioevale, ha iniziato lo studio dei tratti individuali delle figure per separare l’unicità e la irripetibilità nell’uomo, oltre a portare nelle proprie raffigurazioni la natura, non solo nei suoi aspetti simbolici ma come nuova fonte di studio e di interesse. Un’esperienza nello spirito del gotico internazionale è confermata da un documento datato 1442 che lo vede al lavoro a Norcia nella chiesa di S. Agostino, chiamato dal falegname Bartolomeo di Tommaso e dal senese Niccolò di Ulisse con altri due artisti, Luca Laurenzi di Alemania, un tedesco, e Giambono di Corradi di Ragusa.

Un suo probabile maestro di precedente generazione, è Simone Martini, famoso per la sua “Annunciazione”, con la quale egli condivide non solo lo sguardo dagli occhi sottili che guardano in basso, o l’arco sopraciliare ben definito, ma anche il manto blu profilato in oro. Personalità complessa, il De Litio alterna parti di più elevata nobiltà espressiva con quelle più vivacemente e gustosamente popolaresche, il tutto grazie all’uniformità del colore.

L’artista si accosta alla nuova visione rinascimentale, recando con se certi interessi per un particolarismo caratterizzato di sapore paesano, che non riesce interamente a sottomettere. Accogliendo la concezione prospettica e luminosa dello stile figurativo rinascimentale, non come una conquista alla quale si deve attivamente partecipare, ma solo come un risultato, così che resta sempre un certo senso di approssimazione e un’imitazione attenta e ripetuta dei risultati altrui, non si può negare al De Litio la qualifica di pittore rinascimentale.

Alla nuova visione è ispirata l’impalcatura costruttiva delle sue composizioni, anche se non è l’unica componente predominante. Si tratta di un dato di cultura posseduto, ma non conquistato, accolto ma non personalmente elaborato, persuasivo, ma non assoluto. Il nuovo mondo pittorico resta un fatto che aderisce al temperamento del pittore, ma non lo penetra fino ad un totale possesso. Il pittore conserva le sue preferenze e concentra i suoi sforzi alla riproduzione di ciò che è consentito, non rinunciando a quei modi popolareschi affrescati con un compiacimento mal celato.

A questo aggiunge un interesse per i temi secondari tratti dall’osservazione del mondo che lo circonda. Il De Litio, pur mostrando una limitata capacità di sintesi nel legare al motivo principale i vari motivi aneddotici ed ottenere da ciò un potenziamento del primo, sceglie di diluire il proprio discorso in un racconto piacevole ed a volte anche spiritoso, perché quel suo discendere nel mondo di tutti i giorni si arricchisce di concretezza e di credibilità. Battendo questa via, egli forza questa discesa della narrazione sacra nella vita quotidiana, imprimendole una caratterizzazione decisa.

Ad esempio nella “Cacciata di Gioacchino dal tempio“ non la si rileva nel gruppo delle due dame nell’elegante abbigliamento, brano desunto dai modelli fiorentini, ma piuttosto nella violenza popolaresca con la quale Gioacchino viene allontanato ed ancor più nel gioco fanciullesco del “Tiro alla carrettella “ con i due ragazzini tarchiati, dai lineamenti duri e paesani.

Una nota curiosa della pittura del De Litio è rappresentata dalla decorazione a tasselli, che ricorre con intenzionalità prospettica nei pavimenti, ma spesso riveste fondi fra risalti o risvolti di parete. E’ un motivo ornamentale di tipo geometrico nel quale entrano quadrati, rombi e più raramente triangoli; l’effetto dipende e si fonda sul contrasto del bianco e del nero.

L’autore si serve di linee diagonali con intenzionalità prospettiche, come Paolo Uccello, ad esempio nella predella con il “Miracolo dell’Ostia” ad Urbino, rivelando così le stesse intenzioni come nel pavimento delle vele con evangelisti e dottori della chiesa nella cattedrale; quando però il tassellato riveste muri, il fine è solamente ornamentale.

La fonte di ispirazione del De Litio di questa sorta di mosaico geometrico può essere ricercata nella decorazione di tipo cosmatesco, piuttosto rara nella regione abruzzese, ma rintracciabile a Rocca di Botte e a San Pietro di Massa d’Albe, dove è concentrata proprio una produzione strettamente legata per stile e per autori, alle coeve opere romane.

L’artista, con ogni probabilità nativo di Lecce dei Marsi, proprio ai confini della regione va a cercare un aspetto decorativo di importazione, collegando forse a qualche gita ad Albe il giovanile ricordo dei mosaici cosmateschi di S. Pietro, come certi dipinti dello stesso Paolo Uccello e taluni brani di Piero della Francesca, quale la “ Flagellazione” di Urbino.

Del resto il miglior De Litio, quello di cui la cultura pittorica italiana conserva il ricordo fecondo, non di rado fa ricorso a quelle apposizioni di colore chiaro e scuro, per ottenere un’ efficace diversificazione di piani. Brani come “Incontro alla Porta Aurea“, “Natività di Maria” o “Annuncio della morte” sono sotto tale aspetto particolarmente significativi. Il pittore abruzzese ha contatti con l’ambiente ferrarese.

E’ un rapporto che non si concreta mediante una ripresa puntuale di elementi o motivi pittorici, ma che investe più la maniera di concepire un episodio che la sua precisa costruzione. La luminosità alta e chiara di molte storie del ciclo atriano discende da Piero della Francesca, ma forse mediamente attraverso il Cossa o i suoi equivalenti. In ogni caso la soggezione ai ferraresi non è lunga, anche se in un certo senso decisiva. L’ opera del De Litio, pur con i suoi limiti, nella cattedrale di Atri, resta il prodotto più autentico della pittura rinascimentale del Quattrocento in terra d’ Abruzzo.

A cura di Elisabetta Mancinelli 

 


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Enrico Trubiano
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