I rischi della petrolizzazione dell’Abruzzo. Le argomentazioni di Teramo 3.0

03 Dicembre 2013   11:58  

Riceviamo dall'associazione Teramo 3.0 e pubblichiamo. 

''L'associazione Teramo 3.0 esprime  preoccupazione per il futuro dell’Abruzzo, minacciato da interessi economici così potenti da introdursi nelle Istituzioni repubblicane, fino al rischio che maturino decisioni pubbliche in aperto contrasto con gli interessi della comunità regionale (interessi che le Istituzioni stesse dovrebbero tutelare, ma che in una eterogenesi dei fini potrebbero finire per sacrificare, con danni irreparabili per le future generazioni).

Nel corso dell’ultimo anno sono suonati molti campanelli d’allarme, ma le iniziative di associazioni, comitati e movimenti devono moltiplicarsi per rendere intellegibili a tutta la popolazione gli scenari ai quali stiamo andando incontro, e i connessi rischi che potrebbero comportare.

La scrivente associazione, dal proprio osservatorio sull’opinione pubblica, ritiene necessario lanciare un allarme sulla sottovalutazione diffusa del problema della petrolizzazione dell’Abruzzo, situazione che viene troppo spesso presa sottogamba ma che nasconde pericoli immensi.

Solo per limitarci ad un esempio, paradigmatico della naturalezza con la quale si misconosce il problema, citiamo una intervista al dott. Puccioni, presidente di Federchimica con fabbrica a Vasto, pubblicata sul quotidiano Il Centro lo scorso venerdì 29 novembre con il titolo: “Ci salvano solo l’export e la ricerca. E dico sì a Ombrina”.

Sebbene, in tale intervista, le argomentazioni relative alla necessità di tutelare e promuovere le attività industriali in Abruzzo siano in larga parte condivisibili (le multinazionali fuggono dalla nostra Regione perché “abbiamo un costo dell’energia che è il 30% più alto dei nostri concorrenti, i tassi sono tre volte quelli tedeschi, la giustizia ha tempi biblici e per di più fare impresa continua a essere osteggiato”) e sebbene le critiche alla cronica incapacità della politica siano sacrosante (Puccioni lamenta che “nonostante la crisi e la disoccupazione, non mi sembra che ci sia la voglia di difendere l’industria”), l’inquietudine sale quando – alla domanda: “La Confindustria di Chieti pressa per realizzare una grande piattaforma petrolifera davanti a San Vito, Ombrina Due: lei è d’accordo?” – il dott. Puccioni risponde così: “D’accordissimo. Scusi, proviamo a riflettere: siamo un Paese che dipende dal gas russo, dobbiamo sperare che continuino a volerci bene, ma sappiamo di essere ricattabilissimi. E noi che facciamo, quel poco di petrolio e di gas che abbiamo lo lasciamo sottoterra? Ci rendiamo conto che gli Stati Uniti, usandolo shale gas (la tecnica di estrarre idrocarburi dalle rocce n.d.r.) hanno il petrolio a un costo che è un terzo del nostro?”.

Tali affermazioni sono rischiosissime e del tutto false.

Nessuno pensi che l’Italia sia uguale ai Paesi arabi che fondano la loro ricchezza sul petrolio. E nessuno creda che il petrolio sia fonte di ricchezza per il nostro territorio, perché è vero l’esatto contrario, come cercheremo di sintetizzare.

1) In primo luogo, devesi sottolineare che il petrolio eventualmente da estrarsi in Abruzzo sulla scorta dei permessi di ricerca per terra e per mare non sarà né dei cittadini né della Regione e neppure dello Stato, bensì dei privati titolari di una concessione di estrazione; ragione per cui la retorica dell’autosufficienza energetica derivante dalla estrazione di idrocarburi in Abruzzo è un attentato alla verità da stigmatizzare in ogni sede.

2) In secondo luogo, le società petrolifere autorizzate a ricercare e coltivare idrocarburi nel nostro territorio non sono di proprietà pubblica, e potrebbero finanche essere sin da oggi di proprietà russa o comunque straniera, per cui ventilare una perniciosa dipendenza italiana dal gas russo (o comunque dall’energia acquistata dall’estero) non vale in alcun modo a giustificare l’assenso alla estrazione di idrocarburi nel nostro sottosuolo (tanto più che le società private concessionarie, ove non fossero già in mani straniere, ben potrebbero vendere i prodotti dell’estrazione direttamente all’estero, con la beffa che potremmo ritrovarci a comprare a caro prezzo gli idrocarburi estratti nel nostro sottosuolo).

3) In terzo luogo, è centrale in tale materia la elementare considerazione che la legislazione italiana prevede una contropartita ridicola al rilascio dei permessi di ricerca e coltivazione, sia perché esiste una franchigia di molte tonnellate di idrocarburi che viene regalata senza contropartite alle società estrattrici, sia perché su tutto il resto degli idrocarburi estratti si applicano delle royalties corrispondenti al 7% (per le attività in mare) e al 10% (per quelle in terraferma). Di questa percentuale solo il 55% ci viene restituito dallo Stato ed esso è così ulteriormente ripartito: alla Regione il 40% e ai Comuni (interessati dalla petrolizzazione) il 15%. Ne deriva che della ricchezza economica ed energetica estratta dal sottosuolo regionale tornerebbe alla comunità abruzzese un misero 3,5%–5,5%. Cioè le briciole.

4) In quarto luogo, la favola dei posti di lavoro che si verrebbero a creare nell’industria estrattiva è stata già spacciata alla comunità lucana; infatti la Basilicata è stata stuprata da molto tempo dalle industrie petrolifere. Alle poche decine di posti di lavoro creati ha fatto da contraltare la perdita di centinaia di posti in agricoltura, nell’allevamento, nel turismo e nell’enogastronomia, con danni incommensurabili non solo al paesaggio, ma all’economia della intera Regione.

5) In quinto luogo, non deve sfuggire a nessuno l’allarme sui contenuti della Strategia Energetica Nazionale (SEN) formalmente approvata dal governo italiano nel 2013, in base alla quale l’Abruzzo dovrebbe divenire un distretto minerario a tutti gli effetti (unitamente ad altre 4 Regioni), e nella specie una sorta di polo tecnologico e logistico, con la costruzione di raffinerie. Ovvio che in tale contesto, nessun abruzzese può né deve sentirsi tranquillo, perché il problema non si limita ad Ombrina Mare, né è circoscritto ai permessi di ricerca ricadenti in molti Comuni del teramano e delle altre province, ma si estende alle conseguenze pratiche che potrebbero derivarne e al rischio che riemerga l’ipotesi del Centro Oli di Ortona – collegato ad un titolo minerario tuttora vigente – come di ulteriori raffinerie.

6) Fino a quando non sarà chiaro a tutti che l’Italia e l’Abruzzo non sono il deserto arabo dove non cresce un filo d’erba, ma sono un immenso tesoro naturalistico e storico sul quale si fonda la nostra ricchezza, e che le trivelle non solo non portano soldi ed energia, ma impoveriscono l’economia esistente e tolgono posti di lavoro, fino ad allora tutti i cittadini dovranno tenere alta la guardia e monitorare le Istituzioni repubblicane affinché non commettano le imprudenze che fino ad oggi hanno commesso ai danni della comunità.

La rilevanza dei mass media in questa battaglia è cruciale, per questo siamo convinti della consapevolezza che tutti i giornalisti e gli operatori della comunicazione hanno maturato sulla questione, e confidiamo che tutti possano con coscienza e lealtà – in ogni sede e ad ogni livello – riconoscere e stigmatizzare le finzioni e le mistificazioni che circolano sull’argomento, fuorviando i cittadini e danneggiando il progresso e il futuro della nostra Regione: dal petrolio non deriva né lavoro, né ricchezza, né autosufficienza energetica, bensì solo declino dell’agricoltura, dell’enogastronomia, dell’occupazione, del turismo, della tutela del paesaggio e delle bellezze naturalistiche dell’Abruzzo.

 


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