L'Università aquilana e la tragedia del terremoto

lettera di Alessandro De Risio

13 Aprile 2009   10:36  

Nella lunga sequela di dichiarazioni dopo la tragedia dello scorso 6 Aprile non potevano mancare quelle del magnifico rettore dell’Università degli Studi dell’Aquila, professor Ferdinando Di Orio, rese mediante interviste su “Il Messaggero” del 7 e su “Televideo” dell’8 di Aprile, che possono essere riassunte in questo modo: il terremoto ha inflitto un colpo durissimo all’economia della città, già duramente provata dalle ristrutturazioni dell’apparato industriale degli anni novanta e dall’attuale crisi economica e ridottasi a vivere sull’indotto dell’università, ovvero sugli affitti pagati dagli studenti fuorisede. Per quanto riguarda il crollo della Casa dello Studente, il magnifico rettore ha precisato che, pur essendo cosa deplorevole il decesso di alcuni studenti, l’università nulla ha a che vedere su eventuali responsabilità, essendo stata la costruzione della struttura di pertinenza della regione e dell’azienda per il diritto allo studio – sempre di proprietà della Regione.

Sono nato e vissuto all’Aquila e mi sono laureato all’Università degli Studi dell’Aquila e la vicenda del terremoto mi ha profondamente scosso ed impressionato, ma non mi ha personalmente arrecato danni se non quelli collaterali dello shock indotto dalle scosse su parenti ed amici. Infatti, da più di cinque anni vivo e lavoro in una regione diversa dall’Abruzzo.

Quando incominciai a lavorare, mi resi conto che, tra corso di laurea e scuola di specializzazione, avevo trascorso un terzo della mia vita dentro l’Università degli Studi dell’Aquila. Per la mia storia di vita, ho conosciuto bene l’ambiente di questo ateneo. Ho provato un grande sconcerto nella lettura delle dichiarazioni del rettore. In esse non vi è stata una ferma condanna dell’accaduto e da esse neppure traspariva la solidarietà agli studenti morti nel crollo del loro dormitorio. Si evidenziava invece la necessità di gestire gli eventi, con la consapevolezza sottintesa che mai le cose torneranno come prima e che il terremoto del 6 Aprile ha effettivamente segnato uno spartiacque tra un passato strutturato in una modalità disfunzionale ed un futuro che potrebbe essere totalmente diverso.

In passato, all’Aquila l’università non è mai stata “degli studenti”. Sorta negli anni sessanta per arginare la loro dispersione verso gli atenei di altre regioni, nel corso dei decenni successivi si è trasformata in una dipendenza periferica della Sapienza di Roma, concepita per favorire le progressioni di carriera dei docenti bisognosi di ottenere la cattedra per fare poi ritorno nella capitale. Il clima emotivo che vi si respirava era pesantemente condizionato da questa situazione: ad eccezione di pochi, eroici, cattedratici saldamente inseriti nel territorio, la maggior parte dei docenti non investiva su L’Aquila e la sua università, centellinando le lezioni e le opportunità di contatto e confronto con gli studenti – ricordo le ore di lezione concentrate nei giorni di martedì e giovedì e gli esami sempre a ridosso di ponti e festività – mentre l’applicazione pratica dei contenuti teorici appresi dalle lezioni veniva poco incentivata (spesso sfruttata dagli studenti con iniziative autonome) pur avendo a disposizione adeguati strumenti ed opportunità didattico-formative che mai si trovano con tale facilità nei grandi atenei, spesso mal organizzati e dispersivi.
Purtroppo “quei docenti”, desiderosi soltanto di fare ritorno al più presto nella sede di origine, mascheravano l’incapacità di sfruttare le potenzialità a disposizione dell’Università dell’Aquila con l’idea che i mezzi migliori erano sempre reperibili soltanto negli istituti di atenei più attrezzati, una vera bugia.
Questo atteggiamento mentale finiva per sminuire il valore di risorse ed attrezzature didattico-formative effettivamente presenti e si traduceva nella scarsa propensione ad investire sul territorio. Neppure si era riusciti ad inserire le offerte formative dell’università in sinergia con il mercato del lavoro del territorio: lo scrivente, al termine di un percorso formativo di dieci anni in questo ateneo si è dovuto rimboccare da sé le maniche per trovare un posto di lavoro corrispondente alla propria qualifica professionale, finendo per stabilirsi nel Nord-Est, a seicentoventi chilometri di distanza dall’Aquila. Dei suoi compagni di corso, gli occupati stabilmente sono residenti nella stessa area geografica. In Abruzzo sono rimasti i precari.

Se dal cumulo di rovine lasciate dal terremoto si riuscirà – com’è grandemente auspicabile – a rifondare anche l’università degli studi, questa dovrà essere ricostruita con caratteristiche del tutto differenti ed in primo luogo dovrà essere stabilmente ancorata al territorio nella costruzione e nella progettazione dei suoi percorsi formativi. Per esemplificare, piuttosto che mantenere in piedi il corso di laurea in psicologia per consentire di ottenere la cattedra allo psicologo di turno senza che vi sia la speranza di trovare un impiego ai numerosi psicologi laureati e specializzati in quell’università, potrebbe essere più vantaggioso destinare risorse a quello di ingegneria meccanica, se nel territorio aquilano dovessero in futuro svilupparsi attività economiche che renderebbero compatibile la richiesta di specialisti con quella qualifica.

Un simile risultato potrebbe invertire un ciclo negativo sorto fin dal sessantotto, attraverso il quale gli organici delle università si sono via via gonfiati con la moltiplicazione delle cattedre fino alla caratterizzazione dell’università come “istituzione totale”, ovvero istituzione che esiste per automantenersi e nella quale la frequenza degli studenti appare effettivamente funzionale all’esistenza delle cattedre dei professori, poco importa se poi, al termine degli studi le conoscenze impartite potessero effettivamente essere di aiuto al miglioramento delle condizioni economiche del territorio in cui l’università è inserita. Persistendo questa condizione negativa, è chiaro che l’università esiste solo per chi vi insegna ed il suo indotto si identifica in chi affitta la casa agli studenti per trarvi profitto ed è un’autentica tragedia se un cataclisma distrugge tutto.

I morti della Casa dello Studente sono i più poveri fra gli studenti, ossia coloro che, per via del reddito più basso rispetto agli altri non potevano permettersi di affittare un posto letto privato venendo ospitati in quella residenza. Non serve semplicemente, professor Di Orio, deplorare la loro tragica scomparsa, ma occorrerebbe adoperarsi in ogni modo perché una tragedia come questa mai possa più ripetersi, lavorando affinché gli atenei divengano istituzioni che garantiscano – in piena sicurezza – l’attuazione dell’articolo 34 della Costituzione, permettendo ai capaci ed ai meritevoli, ancorché privi di mezzi, di accedere ai più alti gradi dell’istruzione, in modo da migliorare le proprie condizioni socioeconomiche e di fornire nuove operatività all’intero paese.


Alessandro De Risio
Viale Trieste 26/C, int. 10
30026 Portogruaro VE


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