Lampedusa, la psicologa dei rifugiati: "Tre giorni senza cibo né acqua, a parte quella del mare"

07 Ottobre 2013   16:02  

Trois jours, three days oppure tre giorni, perché a dirtelo in italiano imparano presto. A volte ti fanno anche segno con le dita, per essere sicuri che tu lo capisca bene, anche se c’è il mediatore culturale che ci aiuta nelle traduzioni. Tre giorni, tanto dura la traversata in mare dalla Libia a Lampedusa. Io ormai lo so ma glielo chiedo lo stesso, mi sembra di dare a quei tre giorni almeno un po’ di dignità nominandoli e facendoglieli nominare. Se non lo facessi, darei per scontato ciò che scontato non deve essere mai, anche se le storie troppo spesso si assomigliano e ti sembra di averle già ascoltate.

Tre giorni sono lunghi. Vuol dire tre albe e tre tramonti, settantadue ore, quattromilatrecentoventi minuti, duecentocinquantanovemiladuecento secondi.

Tre giorni senza cibo, a volte senza neppure acqua da bere, a parte quella del mare che ti circonda e che immagini debba far venire ancor più sete, in una sorta di contrappasso dantesco che lascia ignari di quale sia la colpa da scontare. Qualcuno quell’acqua la beve lo stesso, pur sapendo che poi starà male. Qualcun altro resiste più che può, fino allo stremo delle forze. E quando ci si sta per abbandonare, quando ormai ci si figura la morte, che non è così difficile da immaginare quando hai già visto morire sulla tua stessa imbarcazione uno come te, se sei “fortunato” i soccorsi arrivano".

Sono queste le parole della dottoressa Ilaria Carosi, psicologa Progetto Sprar (Sistema di Protezione per richiedenti asilo e rifugiati) – Arci L’Aquila a margine della tragedia di Lampedusa.

"Qualcuno -prosegue la Carosi- riconosce la bandiera italiana sulle navi della nostra marina, altri non sanno neppure di essere arrivati in Italia e restano giorni senza capirlo, almeno finché nessuno glielo spiega o non gli fa osservare una cartina geografica, indicando il punto con le dita.

La sensazione di smarrimento a volte persiste per giorni o mesi, te ne accorgi quando li guardi negli occhi e li vedi vuoti. Dietro le spalle hanno lasciato conflitti, lutti per familiari trucidati, fame, umiliazioni, giorni di carcere spesso ingiustificato, l’attraversamento del deserto prima ancora che del mare. Le cicatrici sul corpo te le mostrano con facilità, anche se tu non glielo hai chiesto. Tuttavia, sono quelle che non si vedono a far più male e a richiedere maggiore fiducia per essere raccontate.

Spesso chi arriva non sa cosa significhi violazione dei diritti umani e i dettagli di una prigionia glieli devi chiedere, altrimenti non li racconterebbe: le celle di un metro per due in cinque, l’impossibilità di lavarsi, il cibo una sola volta al giorno, il buco -quando va bene- oppure un secchio per fare i bisogni, chiaramente di fronte agli altri detenuti, sono la norma.

Il mio lavoro è anche questo - prosegue la psicologa- farglielo raccontare.

Intanto, perché lo Stato ha bisogno di conoscere i dettagli, per arrivare a concedere o meno lo status di Rifugiato. Inoltre, e soprattutto, perché questo è l’unico modo possibile per restituire un senso, ricostruirsi, rimettere insieme i pezzi, per dare un ordine mentale a quello che è successo prima e a quello che è successo dopo, per tornare ad essere persone.

Non sempre è un percorso facile ma sono le piccole cose a fare la differenza, come il possesso della carta di identità fatta in Italia che orgogliosi ti mostrano, per alcuni il primo documento di tutta la loro vita. Una certificazione di identità, un modo per dire che esisti, perché prima di allora nessuno ti ha riconosciuto nemmeno questo.

Faccio fatica quando li guardo negli occhi a immaginarli sul molo di Lampedusa, a credere che siano le stesse persone che la televisione mostra come individui soltanto se muoiono. Solo allora te ne racconta la storia o te ne mostra le fotografie. Prima te li mette in gruppo, sono i clandestini, non i singoli con un nome di battesimo, un volto, un vissuto.

E allora, anche se lo so, chiedo a ciascuno di loro quanto è durata la traversata in mare e, mentre lo faccio, spero sempre che qualcuno mi risponda che i giorni non sono stati tre ma due”.

 


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