Recupero di Porta Barete, la Soprintendenza: ''Prima del vincolo servono verifiche''

26 Settembre 2013   13:00  

L'ipotesi cadeggiata dal Comune di riportare alla luce ciò che resta di Porta Barete, distrutta dal sisma del 1703, e poi seppellita dal terremoto palazzinaro e cementificatore del dopoguerra,  passa anche per la Soprintendenza in quanto un vicolo posto sull'area impedirebbe la ricostruzione della palazzina che insiste proprio sull'area in questione. Evitando contenziosi con i residenti che potrebbero rifiutare l'offerta di spostarsi di qualche decina di metri in una casa più grande, come proposto dal Comune.

Sulla vicenda oggi interviene proprio la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Abruzzo che con il direttore magani precisa quanto segue:

''E' costante il legame e il confronto con il comune e gli altri attori della ricostruzione, chiamati ogni giorno a riflettere sul futuro dell’Aquila che non può prescindere dal patrimonio artistico e monumentale di una città, che è città d’arte.

Per quanto riguarda il tema del recupero della cinta muraria e dell’area di Porta Barete, quest’ultimo emerso solo ora all’attenzione dei media, si rammenta che, con un protocollo d’intesa sottoscritto con il Comune dell’Aquila nel mese di giugno 2012, si sono avviate le procedure per il restauro e la valorizzazione di un bene monumentale identitario per la città.

Concluso da tempo il recupero del tratto di mura di Porta Rivera sono attivi altri cantieri e, per quel che concerne nello specifico l’area di Porta Barete, si sta procedendo ad indagini e verifiche realizzate dalle Soprindendenze ai beni Architettonici ed Archeologici che assisteranno anche i lavori di demolizione dei fabbricati che insistono nell’area.

Queste attività sono propedeutiche ed indispensabili per poter valutare in futuro quale strada intraprendere su questo tratto di mura, per il momento non sono state apportate modifiche al regime vincolistico preesistente”.

Registriamo sul tema anche l'interessante intervento dell'architetto Giancarlo De Amicis, dell'associazione Policentrica Onlus.  

“Il corpo è mio e lo gestisco io, così come la famiglia, gli affari, la politica, l’amministrare le cose pubbliche”.

Queste affermazioni sono un compendio di molti comportamenti del nostro tempo che inducono quasi ad un “autismo generalizzato”, dove ognuno è con il proprio sé, il proprio cellulare, il proprio godimento, le proprie connessioni, però fuori connessione con l’Altro.

Neanche la ricostruzione del paesaggio urbano sfugge a questa dispotica modalità di pensiero che, ben lungi dal concepire la città come “sistema di  luoghi”, continua imperterrita ad operare seguendo l’ottica dei “singoli manufatti edilizi”. In questo tempo molto sembra essere governato dal senso di possesso, dall’interesse privato e dalla “coscienza individuale”.

Noi viviamo in un “tempo di atomizzazione” del corpo sociale e tutto questo è dovuto in gran parte alla crisi della politica. Senza sogno, senza utopia, senza desiderio, la politica non è una grande politica e conseguentemente non ha futuro. La politica è l’arte che rende possibile lo stare insieme con pari dignità, che rende accettabile la vita della città.

Ciò implica la consapevole analisi di vari linguaggi che il politico dovrebbe saper tradurre e ricomporli in un insieme organico. Quella del politico infatti è l’arte sottile della “traduzione”.

Oggi invece è diventata un’arte autoreferenziale. Il politico presume di conoscere autonomamente le esigenze e i desideri del cittadino. Per questo non meravigliano più i fantasmagorici sfaldamenti delle maggioranze nelle pubbliche amministrazioni, i proclami di rottamazione delle usuali rotte politiche, le reiterate impasse in cui gli enti pubblici vengono a trovarsi. Non meravigliano neanche gli estemporanei progetti che sotto il segno della bellezza, della storia e della cultura, vengono decisi dall’oggi al domani, senza il conforto di una visione di questioni strategiche, di uno scenario sistemico della città in trasformazione.

A L’Aquila, gli  interventi relativi alla riapertura di porta Barete, alla realizzazione del Parco di piazza d’Armi, e alla esecuzione dell’auditorio del parco del Castello - per quanto esempi meritori e funzionali - si rappresentano come espressioni di un protagonismo perdurante, che mette in luce un reiterato distacco dal “corpo sociale” aquilano: l’amministratore e “le autorità” decidono imponendo la propria visione, fuori da ogni connessione con l’Altro. Si, l’Altro! Un Altro rappresentato da una “collettività parallela” che spesso soggiace all’auto-isolamento di facebook, ancorata al godimento momentaneo di uno scarno “mi piace”, piuttosto che nutrita da un dialogo orientato al progetto, al brainstorming di idee, a quel desiderio partecipativo alla cui concretizzazione la città aspira da tempo e che potrebbe creare le premesse per un “Urban Center”.

Il desiderio creativo che la catastrofe del sisma ha depositato nel fondo dell’animo degli aquilani non può fermarsi allo scarno “mi piace”, arricchito da qualche commento, oppure seguito da un evento culturale, o addirittura annegato in un criticismo improduttivo.  Ogni desiderio di cambiamento non vissuto con decisione non si rappresenta come vero desiderio.

Quando esso appare realmente, si mostra come una forza che spalanca gli orizzonti; mentre quando appassisce subentra il disorientamento collettivo, il panico a cui finora la politica non ha saputo dare soluzioni. Come far rinascere la forza del desiderio? Ogni città dovrebbe essere nutrita dalla “politica del sogno”.

Progetti Urbani e Nuovo Piano possono andare in parallelo e reciprocamente integrarsi, in sostituzione della attuale frammentazione degli interventi. Questo significa comporre la città. Quello che si dovrebbe fare per non sostituire un approccio retorico con un altro, è essere in grado di “porre bene i problemi” da risolvere nel progetto Urbano. Le collaborazioni dell’Università, dell’Accademia B.B.A.A. e degli Ordini, sono senza dubbio utilissime a tale scopo; ma solo dopo che sono state ascoltate le varie voci del “corpo sociale della città” e sono stati tradotti in una composizione strategica gli svariati interessi discordanti.

È necessario creare le premesse per una connessione con l’Altro, per ricomporre una “comunità dialogante”, per realizzare quel rapporto di prossimità fisica e varietà sociale che costituisce l’essenza stessa del “fare città”.

 


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