Villavallelonga e dintorni: dall'orso Sandrino ai profumi dell'Aceretta

29 Febbraio 2012   12:07  

La curiosità di noi turisti aggrappati alla rete si fa ad un tratto vibrante eccitazione. Tra i ginepri e le roverelle, Sandrino, professione orso sotto tutela, sale il dosso. Goffo ma imponente. Getta uno sguardo annoiato al suo pubblico entusiasta, e scompare dietro un masso mostrando le terga, immortalate dai frenetici click dei telefonini.

Nessuno di noi conosce l’antica lingua Anishabie, con cui gli indiani Pueblos parlavano agli orsi per avere lumi sul futuro. Gli animali non hanno l'anima, asseriscono molti filosofi e gli imprenditori della carne, però sarebbe utile sapere cosa pensano di noi. E chissà se Sandrino e Yoga, compagna di cattività di Sandrino, sognano un altro recinto, pieno di succulente galline da inseguire e sbranare, come l’istinto gli suggerisce.

Ci troviamo nel Centro orso di Villavallelonga, nel Parco Nazionale di Abruzzo, Lazio e Molise. Nello spazio museale, attraverso pannelli, bacheche e diorami viene illustrato tutto ciò che utile e interessante sapere sul plantigrado.

Ai più piccoli è dedicato un punto di interpretazione della natura, propedeutico ad escursioni organizzate dal centro che seguono percorsi olfattivi, visivi e tattili attraverso il circostante regno dell’orso. Capiamo anche perchè Yoga e Sandrino sono chiusi nel recinto: sono ormai troppo abituati all'uomo e reduci da diverse incursioni all'interno dei paesi del Parco.

Anche a loro la libertà potrebbe costargli cara. Come è accaduto a Bernardo, la sua compagna e il suo cucciolo, uccisi da un vile banchetto di polpette avvelenate. Un’insistente pioggia autunnale sottolinea la malinconia che pervade in questi giorni il Parco, allontanando in compenso la minaccia degli incendi.

L’orso conferisce a questi luoghi un senso ed un’identità. La sua effige appare sui gadget, sulle insegne di bar e negozi, sulle confezioni dei prodotti tipici. Un tempo nei campi di granoturco spuntavano invece gli spaventosi “mammuocchie”: pupazzoni dalle fattezze umane, veri e propri spaventa-orsi, che servivano a proteggere il raccolto dalla ghiottoneria dei plantigradi.

E se ciò non bastava c’era il piombo: un documento del 1881 tesse le lodi di tal Cirillo Cocuzza, “famoso abbattitore di orsi, coi quali viene senza paura alle prese”. Non ebbe invece il coraggio di premere il grilletto il re Vittorio Emanuele III, durante una battuta di caccia qui a Villavallelonga, perché ammirato dall’eleganza dell’animale, e perché, non campando di polenta, non aveva certo bisogno di difendere i campi di granoturco con le unghie.

Questi ed altri preziosi indizi sono incisi su targhe di pietra gettate all’ortica lungo l’ormai dismesso percorso museale all’aperto " Storie di piante, pastori, streghe e briganti ", intorno al belvedere del paese. Anche le taglie - una di 40 mila euro pende sulla testa dell’uccisore di Bernardo - non sono una novità. Il prefetto Bosi, si legge infatti in un bando sgrugnato dalla pioggia, offriva 12.000 lire per la cattura del brigante Domenico Fuoco e 3.000 lire per la pelle, evidentemente meno pregiata, del brigante Crocitto.

Ricomponendo i cocci del bel museo che fu, si scopre anche che i gatti che osservano immobili dai davanzali di Villavallelonga sono streghe in fuga dal marito e di notte vanno a “sugare” il sangue dei preti, in questo caso più simili al raro pipistrello barbastello che popola l’oscurità dei monti circostanti.

Villavallelonga è una delle porte del Parco, impossibile però raggiungere in automobile la capitale Pescasseroli: la strada finisce nella fiabesca valle dell’Aceretta, e per entrare nel cuore dell’area protetta, bisogna proseguire a piedi, o immaginare con la fantasia i luoghi oltre Monte Schiena Cavallo.

D’inverno lo sterminato bosco di faggi, aceri e querce, caro a papa Wojtyla, è una sinfonia di colori, a primavera trionfa il viola delle orchidee. Jean Baptiste, nel romanzo “Il profumo”, in fuga dai miasmi infetti di Parigi, si perse nella follia per voler catturare l’essenza profumata dell’universo.

Più facile sedersi sotto una quercia e annusare senza pretese la polluzione umida dei profumi nell’inafferrabile istante del loro manifestarsi. Il profumo, come i boschi, come la vita di un orso, non ci appartengono, eppure sono tra le cose più preziose che abbiamo. Proprio all’imbocco della valle che porta all’Aceretta ci si imbatte nell’osteria della signora Francesca.

I sinceri mattoni di cemento a vista hanno il merito di tenere lontani i Degustatori di professione del Gambero rosso e della Guida Michelin. Se si è fortunati si possono assaggiare i “frascarejje”, pietanza sacra a sant’Antonio abate: scaglie di acqua e farina, detti “grattoni”, cucinati a mo’ di morbida polenta, condita con fumante sugo di pecora. “Niente uova nell’impasto - si raccomanda la signora Francesca - è un piatto povero!”. E al primo boccone ci si sente un po’ più ricchi. (Filippo Tronca)


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