Alla ricerca delle 99 Cannelle

Io, la mia ombra, due gatti ed un operaio romeno

04 Novembre 2009   11:05  

Ci voleva una tenera giornata di fine ottobre per farmi riconciliare con una piccolissima parte del corpo martoriato della mia città.

C’è voluto un pizzico di fortuna, per indurmi ad oltrepassare, in perfetta buona fede, il varco incustodito che dalla Villa Comunale immette dritto dritto in Via XX Settembre: qui a suo tempo ho abitato, appena sposato, al n. civico 29 dove sono nate e cresciute le mie tre figliole.

Ci voleva un cielo azzurrino, leggermente striato, per alleviare lo sguardo ferito da quelle familiarissime case bombardate, da quelle serrande sghembe, da quei fiori appassiti su balconi squinternati, scrutati al rallentatore.

Non ci volevano, ma tant’è, le lacrime venute giù senza alcun preavviso, all’incrocio con Via Campo di Fossa e di fronte alla Casa dello studente: adesso, il cuore avrebbe voluto arrestarsi per condividere al meglio, in un perfetto, trascendentale silenzio, il dolore dei parenti ed amici di quei condómini e giovani universitari morti per una malvagia, non perdonabile, colpa altrui.

C’è voluto uno sforzo immane per staccarsi dalle macerie insanguinate e proseguire fino alla Chiesa di S. Chiara, anch’essa devastata dal sisma insieme al convento, dove nel corso degli anni più di un frate mi ha accolto, con braccia aperte, nei silenziosi spazi della nutrita biblioteca.

Poi a capofitto giù, nella ripida scalinata incrociante, sulla sua sinistra, le due vie intitolate all’“epico cantore” Cola da Borbona (sec. XV) e all’ “orafo” Nicola da Guardiagrele (a dir fino in fondo la verità, la qualifica di “orafo” sta un po’stretta ad uno tra i più insigni Maestri del tardomedioevo abruzzese, e perché no, italiano ed europeo).

Come al solito, ogni volta che mi ri/trovo nell’interdetta zona rossa del Centro Storico, è solamente la mia ombra a farmi compagnia. Anzi no. Questa volta due gatti, uno tigrato, l’altro bianco e nero, miagolano affamati. Mi limito a fotografarli con il cellulare, se non altro per portarmi dietro, una volta rientrato nella costa, il pungente ricordo della loro solitudine.

Già: la solitudine dei gatti. E quella prevedibile degli aquilani via via stipati nei ghetti-dormitorio delle 19 little-towns, o recentemente deportati, senza alcun riguardo per le loro effettive esigenze, dalle tendopoli agli alberghi più sperduti della provincia aquilana?

Come non riandare polemicamente a quei giorni di inizio settembre, allorché un cartello contestatario dei giovani antagonisti recitava grosso modo: “Il capolavoro della Protezione Civile? Sei mesi nelle tende”. E, la loro derisione da parte del dr. Bertolaso, il quale ci teneva puntigliosamente a precisare che i mesi trascorsi erano solo cinque. E adesso? Stiamo entrando nell’ottavo e galoppiamo verso il nono, giusto il tempo per sentire il vagito di nuovo aquilano concepito dopo il sisma nell’amore rubato dai frastornati genitori tra i contigui letti di estranei diventati conviventi coatti, ammucchiati a caso negli angusti spazi dei centri di accoglienza provvisori: provvisori un c….!, egregio sig. b.

Meglio non chiamarla in causa, altrimenti il sangue mi monta sulla testa! Ma, mi chiedo e Le chiedo, dove nascerà, dove abiterà (indubbiamente saranno molte le chances del nuovo venuto: container, camper, roulotte, casetta in legno, appartamentino-c.a.s.e.), dove crescerà il mio sfortunato concittadino? Se dovesse andargli bene, lo vedremo sgambettare tra le metalliche colonne delle c.a.s.e.tte o giocare a pallone sui verdastri slarghi cementificati?

Prendendo per buone le ultime esternazioni del Suo saldissimo governo cloroformizzante il Parlamento a suon di decreti legge e di voti di fiducia, dovrebbe avere circa dieci anni prima di poter rivedere la sua mirabile città con gli stessi occhi sgranati dei genitori al cospetto di quella stratosferica Bellezza di Piazze, Fontane, Chiese, Monumenti, Vicoli, ritessuti con orgoglio dagli avi dopo il devastante sisma del 1703.

Per questo nascituro terremotato e per la superficialità con cui Ella, da buon dilettante e dilettantesco urbanista da strapazzo ha sinora finto di affrontare l’immane tragedia aquilana, riuscendo persino ad inventare, da collaudato piazzista e per i Suoi cinici fini propagandistici, la “consegna rateale” delle casettine-c.a.s.e., che m’indigno! Nemmeno durante il Fascismo s’era visto il “Duce costruttore” delle Città-littorio inaugurare cento volte lo stesso plesso.

E poi, anziché continuare ad imbattermi tra un affastellato pensiero e l’altro con la sua mendace faccia impiastricciata, preferisco proseguire il mio surreale pellegrinaggio tra le case dirute di Borgo Rivera, dove incontro una gorgogliante fontana. La freschissima acqua mi gela i denti, allo stesso modo di quand’ero bambino; proprio da questo punto correvo felice per rivedere, con rinnovata meraviglia, quei mascheroni dalle mille e mille misterioso sembianze: leoni, caproni, cavalli, fauni, cavalli e cavalieri avevano animato, infatti, le mie prime, avventurose fantasticherie. Quell’acqua miracolosa, riesce finalmente a scongelarmi l’anima, prima sconvolta, quindi imbalsamata dopo la terrifica notte del 6 aprile.

A vedere le vicine, antiche concerie accartocciate, implose in una manciata di secondi dopo secoli di ostentata solidità, ti chiedi quali saranno le strategie migliori della futuribile ricostruzione per riannodare i fili di una memoria non solo spezzata, ma, forse, definitivamente abrasa.

A scacciare le nuvole nere di un montante pessimismo, ci pensano, mentre il profilo incappucciato con un telo di plastica della sventrata Chiesa di S. Vito ti viene incontro come fosse un fantasma, le concertanti note acquatiche provenienti dalle 99 Cannelle. Allora, era proprio vero! A parte qualche danno, come avevo letto ed intravisto in televisione, uno dei più celebri e celebrati monumenti aquilani, aveva resistito da par suo, alla traditrice aggressione delle 3.32.

Vado così incontro, con un forsennato batticuore che fa da basso continuo alla scrosciante sinfonia, a quello che non è più un evanescente miraggio, ma una struggente realtà: l’abbraccio circolare con la delicata bicromia biancorosata di quelle pietre immortali protette dalla cancellata in ferro emigrata nella notte dei tempi dalla Chiesa di S. Maria di Collemaggio, è un tutt’uno.

Come avevo già fatto tante altre volte e come avevo insegnato a più di un amico, mi sono messo al centro del “trilatero” volgendo le spalle all’iscrizione lapidaria voluta dal progettista Tancredi da Pentima nel 1272. Ho chiuso gli occhi per ascoltare con la massima concentrazione quelle coralline voci stereofoniche provenienti dalle stesse viscere di una terra non più maledetta, ma benigna.

La magia di una laicizzata rinascita battesimale, dell’innocenza riconquistata (la mia e quella riconquistabile dai miei concittadini invitati perciò ad affluirvi in massa, appena l’avvenuta messa in sicurezza di Borgo Rivera lo consentirà), la stessa, se vogliamo, delle donne che nell’immediato dopoguerra qui lavavano e qui stendevano le loro candide lenzuola.

Più di uno studioso ha messo in luce la matrice esoterica di questo intrigante iperspazio architettonico ch’è dentro sì la primeva storia della fondazione della città, ma ne è contemporaneamente al di fuori, essendo proiettato con i suoi taglienti getti delle “improbabili” 99 cannelle, tra gli interconnessi tempi-spazi del mistero esistenziale. (Provate a contarle e ricontarle: il risultato non sarà mai lo stesso, anche se il simbolico numero è stato così ottenuto in progress dai pragmatici aquilani, tra un restauro e l’altro succedutisi nel corso dei secoli: 2 ai lati dell’ingresso, 22 nella facciata nord, 38 in quella est, 29 in quella sud, altri 2 agli angoli tra le due facciate; da aggiungere poi, le 6 cannelle senza mascheroni).

Allorché riapro gli occhi, scorgo un uomo in tuta con il casco giallo: beve direttamente, da una delle cannelle quell’acqua santa con cui poi riempirà una bottiglia di plastica. Gli chiedo chi sia: “Sono un operaio romeno, sto lavorando come muratore in quella casa messa abbastanza male”. “Posso fotografarti?” Acconsente. Gli suggerisco di riversare l’acqua nel pilone e di riempirla nuovamente. Tende il braccio, volgendomi le spalle e girandosi poi di scatto per fissare l’obiettivo del mio cellulare: possa quella bocca rinfrescata e quel sorriso rigeneratore essere di buon auspicio per l’effettiva rinascenza della mia (nostra) amatissima città.

Allora, “Che fare”? si chiedevano i siloniani cafoni fontamaresi, e, continuano a chiedersi gli esiliati (tali sono anche nelle little towns) concittadini aquilani. Una bruciante risposta? Eccola: riappropriarsi, simbolicamente e visivamente, della città morta. In che modo? Il 6 aprile del 2010 ri/cominciando, magari, da questo spazio imbevuto di una sacrale magicità, la loro risalita verso il Centro antico. Andando a zig zag e non in processione. Seguendo anarchicamente i richiami ancestrali della deriva psicogeografica dei Situazionisti. Spostandosi a caso, per l’intera giornata, liberamente, senza cibo e senza meta, dentro le protettrici mura uterine della loro città fondata sull’acqua (Acquila è una delle etimologie più accreditate) ed innalzata con le pietre. Adesso sbriciolate, metamorfizzate in tonnellate e tonnellate di macerie indecorosamente ammucchiate, quasi fossero un puzzolente sterco e non già schegge impazzite d’una fragrante memoria sfregiata.

Nell’invocato rito di purificazione, si sorseggi ogni tanto l’acqua delle 99 Cannelle “raccolta” nelle borracce, inseparabili compagne di strada dei camminatori di montagna. Guardando in alto per scorgere l’avvento ed assecondare il primaverile volteggio di un’aquila regale. Fermandosi per riprendere fiato. Perdendosi, ritrovandosi e abbracciandosi: nonostante tutto.

 

Di Antonio Gasbarrini - Critico d’arte - Art Director del Centro Documentazione Artepoesia Contemporanea Angelus Novus, fondato nel 1988 (L’Aquila, Via Sassa 15, ZONA ROSSA).

Attualmente “naufrago” sulla costa teramana. antonio.gasbarrini@gmail.com

 


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