Centro storico, il dolce far niente negli spazi democratici

04 Febbraio 2011   08:10  

Tempo fa mi sono imbattuta in una riflessione scritta dall'antropologo e architetto Franco La Cecla, a margine di una radicale trasformazione che aveva interessato la stazione ferroviaria di Milano. Lo lessi con interesse perché conosco Milano e ho molto amato la città e la sua stazione dei treni. Leggendo, mi sono ritrovata nella Milano conosciuta anni fa, in quella atmosfera cupa e austera, ma profondamente affascinante, che mi trasmetteva la stazione ogni volta che ci mettevo piede, e sempre leggendo, cercavo di capirne la trasformazione, con la speranza di potermi recare di persona a vederne le caratteristiche. Ad un certo punto però, la mia lettura mi ha portato a pensare ad altro, la mia città, L'Aquila, e come, pur non avendone mai avuto le intenzioni, avesse subito la radicale trasformazione di cui La Cecla parla nel suo articolo.

L'Aquila si era trasformata proprio come le grandi città metropolitane che La Cecla cita. Hong Kong, come Milano, come New York, dove si tenta di trasformare ampi spazi in luoghi di commercio, spinti in tutto e per tutto all'unico obiettivo dell'acquisto. Scelte urbanistiche e architettoniche ben precise di città ultramoderne ed economicamente all'avanguardia. L'Aquila non ha nulla che vedere con queste città, ma sta subendo le deteriori conseguenze di un fenomeno, in realtà, mai abbracciato con consapevolezza. A L'Aquila, lo ricordiamo tutti, i centri commerciali hanno sempre fatto fatica a funzionare, e mai, sostanzialmente, erano riusciti a trasformarsi in un punto di attrazione.

Perché L'Aquila viveva profondamente delle caratteristiche delle città italiane: la strada, la piazza, la fontana, l'angolo. A l'Aquila si facevano "le vasche". Che sono? Avete presente quando andate in piscina e nuotate per ore, avanti e indietro nella vasca, senza un apparente perché? Ecco, così si faceva, sotto o fuori i portici dell'Aquila. Le vasche in piscina, molti le considerano noiose, le vasche in centro molti le consideravano sciocche, una sorta di inutile perdita di tempo. Per molti aquilani trasferitisi a Roma o a Milano tornare a fare le vasche in centro era irritante "un inutile passeggiare senza fare niente altro: comprare, correre, andare a lavoro etc..." per altri invece era un privilegio raro "che meraviglia tornare qui e poter camminare senza stress."

Comunque la si sia pensata, oggi tutti sognano di tornare a fare quelle vasche, a incontrarsi per caso nelle vie del centro storico. Leggendo l'articolo di Franco La Cecla ho trovato la mia risposta al "perché si ha tanta voglia del centro"?

Così leggendo La Cecla, ho riflettutto anche io e l'invito è ad ulteriori e più approfondite riflessioni, su ciò che abbiamo, ciò che abbiamo perso, e come ottenerlo di nuovo.

Il passaggio centrale della sua riflessione, che ho sentito parte della mia, è questo. "L'idea che lo spazio pubblico è quello costituito dalla gente per andare a zonzo, per passeggiare, per il dolce far niente per cui l'Italia è amata nel mondo. Il fine dello spazio pubblico è di essere indefinito, ma ricreato di volta in volta dalla creatività e dalla noia delle persone che lo usano per fermarsi, parlare, discutere animatamente di calcio, sonnecchiare, ammazzare il tempo, osservare ed essere osservati...... la piazza, che è un'invenzione italiana, è qualcosa di straordinario perché può contenere qualunque funzione o nessuna. In un recente studio americano si afferma che quando piazze e marciapiedi diventano oggetto di progettazione bisogna preoccuparsi, perché queste sono le roccaforti della democrazia, i  luoghi in cui la gente può ancora manifestare il proprio dissenso."

Un altro passaggio che non può lasciare indifferenti gli aquilani è questo "Un sito bolognese riporta la quantità di umarell rimasti, quei passanti curiosi, per lo più pensionati, che passano il tempo ad osservare i lavori stradali, un incidente, o semplicemente la folla. La loro scomparsa, come le trote in un fiume, segna un livello di inquinamento pericoloso: la perdita del senso dello spazio come qualcosa  di magnificamente a disposizione di chiunque.".
Questi umarell, (termine bolognese per definire in modo simpatico  una persona non più giovanissima ma con ancora dello spirito giovanile, letteralmente si potrebbe tradurre in “omino” o “ometto”), a L'Aquila soffrono, molti tentano di fare le loro passeggiate nelle strade riaperte e puntellate del centro storico, ma lì, si sa, lo spirito non si rallegra, non si alleggerisce, ma si rattrista e sospira.


Qui di sotto è riportato l'intero articolo di Franco La Cecla apparso su Il Venerdì di Repubblica n. 1180, 29 ottobre 2010

Dagli spazi pubblici ai labirinti del consumo
"In buona parte delle città del mondo, in quelle che si considerano città di paesi progrediti, è in atto una guerra all'ultimo centimetro tra due idee opposte di spazio pubblico. Da un lato tende a prevalere la scelta di concepire come pubblico tutto ciò che sta nel dominio dello shopping (è stato l'architetto Rem Koohlas a sostenere che lo shopping è l'unica vera forma di democrazia rimasta). Secondo questa concezione i cittadini sono utenti e clienti e i loro movimenti nella città devono essere diretti, incanalati e sorvegliati. Se qualcuno deve prendere un treno, allora bisogna che passi per una lunga serie di corridoi e rampe fitte di vetrine. A Hong Kong come a Milano non è la socialità libera ed informale ad interessare agenzie di sviluppi immobiliare e amministratori, ma come spremere al meglio il bisogno di socialità che rimane nella gente.
A Hong Kong grandi rampe sospese consentono lo shopping tra un grattacielo e l'altro, ma guai se ci si volesse sedere o fermare, interviene la polizia e comunque non ci sono panchine. (La soluzione applicata alla stazione centrale di Milano di sostituire rampe alla scale mobili è una imitazione del pensiero degli shopping mall dove è importante, ed è frutto di un design preciso, che l'utente non trovi subito la rampa per continuare a salire e non trovi soprattutto la rampa d'uscita.) A New York i pochi spazi informali che erano rimasti tra i grattacieli vengono sempre più erosi da un controllo sistematico da parte di negozi, banche, polizia. E Londra è divenuta celebre per aver trasformato buona parte degli spazi pubblici in spazi continuamente monitorati da telecamere. In Francia ipocritamente, quando entrate in un passaggio pedonale trovate una scritta che dice «Sorridete, siete sorvegliati».
L'altra concezione è quella che nonostante tutto resiste, l'idea che lo spazio pubblico è quello costituito dalla gente per andare a zonzo, per passeggiare, per il dolce far niente per cui l'Italia è amata nel mondo. Il fine dello spazio pubblico  è di essere indefinito, ma ricreato di volta in volta dalla creatività e dalla noia delle persone che lo usano per fermarsi, parlare, discutere animatamente di calcio, sonnecchiare, ammazzare il tempo, osservare ed essere osservati. Un sito bolognese riporta la quantità di umarell rimasti, quei passanti curiosi, per lo più pensionati, che passano il tempo ad osservare i lavori stradali, un incidente, o semplicemente la folla. La loro scomparsa, come le trote in un fiume, segna un livello di inquinamento pericoloso: la perdita del senso dello spazio come qualcosa di magnificamente a disposizione di chiunque. D'altro canto la piazza, che è un'invenzione italiana, è qualcosa di straordinario perché può contenere qualunque funzione o nessuna. In un recente studio americano si afferma che quando piazze e marciapiedi diventano oggetto di progettazione bisogna preoccuparsi, perché queste sono le roccaforti della democrazia, i luoghi in cui la gente può ancora manifestare il proprio dissenso."

Barbara Bologna 


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