Il muro di L'Aquila, due anni dopo

di Danilo Fucsiaman Verticelli

29 Settembre 2010   12:40  

Sono tornato a L'Aquila dopo due anni.

Nel mezzo l'Inferno o semplicemente l'esistere in questo mondo, che a volte è peggio di ogni Inferno, se mai esistesse. Vi ero stato nel marzo 2008, periodo di Pasqua. Una città viva, comunque attiva. Mia sorella recitava la sera nel Teatro Comunale. Faceva fresco. Sole e pioggia. Una giornata di cui conservo alcuni flash seduto su una delle fontane di Piazza Duomo o alloggiato in uno dei palchetti laterali del teatro. Un panino qua, un caffè là. Una giornata che sarebbe stata come molte altre se non fosse stata l'ultima della mia vita in cui avrei visto L'Aquila nella sua normale esistenza. Ma non lo sapevo. Come in ogni occasione, lasciamo al dopo la certezza o lo sconcerto di ciò che si sta perdendo ogni volta che viviamo momenti che consideriamo normali, senza sapere fino a che punto lo saranno. Dopo.

Il 6 Aprile 2009 ho sentito fin qui il brivido rumoroso di ogni vibrazione eccessiva che ha reso L'Aquila una città senza anime. Il resto è noto. Fin troppo. O non del tutto.

Sono tornato a L'Aquila dopo due anni. O forse meno. il 30 agosto 2010. Sedici mesi dopo. Ho parcheggiato subito fuori il centro, sotto il Forte. Cercavo un parchimetro funzionante. Una signora gentile mi ha detto che non si pagava. Tutto gratis. In quel momento ho realizzato quale dramma coinvolgesse l'insieme della "polis", la Struttura e i Cittadini, per dover rinunciare ad ogni normale introito pur di ricondurre qualcuno alla Città, alla dolorosa Via Crucis che significa il percorrere Corso Vittorio Emanuele e Corso Federico II, due regnanti di carattere che stranamente incontrano le proprie ere nella Piazza del Duomo, luogo più di mercato che di religione. Una Via Crucis di fatto, una ruga che si insinua nei quartieri chiusi, luoghi di silenzio e cielo, inaccessibili come ogni mela proibita, come ogni strumento di conoscenza negato da chi possiede il potere.

Non ho nessuno a L'Aquila. Non ho tradizioni lì. Ma non ho potuto fare a meno di provare a reprimere il senso del pianto che cercava uno sfogo dietro gli occhialoni gialli, salvifico schermo di occasioni tragiche o gioiose. Non c'era ricordo preciso. Non c'era racconto da narrare. Non vi era nulla che mi consentisse di piangere, togliendo tale privilegio sofferto a coloro che invece di ragioni ne avevano avute ed ancora ne avevano. Non era giusto che piangessi. Non l'ho fatto. Ho percorso la ruga come si percorre un luogo sacro. Qualunque religione gli appartenga.

Una ruga fatta di facciate sprangate, mutilate, accarezzate da legni e acciai, forse utili o forse solo paradigma di una sicurezza che l'Uomo in fondo non potrà mai avere. Il suo "peccato originale" è l'esistere e la morte è condizione necessaria alla Vita. Ma quelle facciate, come antichi visi di donne attempate, provavano nonostante tutto a sorridere, sotto il sole basso del primo Settembre, e ad imbellettarsi perché ogni senso di colpa e di sofferenza non ricadesse sul fatto di essere lì, da "fuori", tornando poi al "fuori", voltando le spalle a ciò che invece è radicato nelle fondazioni di roccia e mattoni. Quelle facciate sorridevano al passante provando esse stesse a rincuorarlo, nonostante tutto. Nonostante il "Muro".

Mi sono interessato di Berlino e di Gerusalemme. Ho visitato di persona Nicosia. Ho visto i "muri" dal vivo o in filmati e fotografie. Bernauer Strasse a Berlino. La Green Zone a Nicosia. Zone del niente e del nessuno. Zone controllate da militari e soggette a restrizioni. Zone una volte vive e abitate, poi costrette al silenzio ed alla cecità dalla follia dell'umano. Finestre sbarrate, confinate da legni, portoni inaccessi, reti e transenne che identificano ancora di più l'unica via che ogni viandante può percorrere, la Via Crucis fiancheggiata da reti. Un altro Muro, oltre il quale non c'è vita ma solo uno still frame di ciò che era. Un Muro non fisico, immateriale, che non puoi scavalcare perché vi cammini dentro. Il Muro de L'Aquila.

Dov'era però la "follia" in tutto ciò? Quanto c'è di umano e quanto di naturale in quello che stavo vivendo? L'Aquila oggi è una città "forata". Una vita che cerca di riprendere nei quartieri esterni perimetrali, un buco nero il Centro, un buco nero che ha assorbito ogni azione e volontà, ogni soldo e ogni Legge, ogni proclama ed ogni fatto. Un foro che assorbe e non inghiotte. Perché ciò che inghiotte poi in fondo da qualche parte espelle. Ciò che assorbe invece trattiene. E non rilascia. Non rilascia profumi né reflui.

Il centro de L'Aquila è una grande carta assorbente e vischiosa che trattiene le energie di chi vorrebbe ricominciare e i sentimenti di chi, nonostante tutto, vorrebbe ritornare. Una carta assorbente posata lì da un "potere" cieco. Anzi no. Assolutamente abile alle diottrie di interessi diversi. Alieni all'interesse della città in sé. Ma ben presente a ciò che la città potesse essere utile in quel dramma.

Una carta assorbente guardata a vista da giovani in divisa mimetica che hanno l'ordine di spendere le proprie vite agli angoli delle strade chiuse, badando che i ladri, ladri di cosa ormai?, non entrino nelle case lesionate dove forse gli abitanti stessi avrebbero voluto rientrare per fare la valigia di ciò che era avanzato.

Una carta assorbente recintata da reti strette tra loro. Oltre le quali il niente o qualche muratore si aggira nel silenzio più ingiusto che un luogo possa avere. Il silenzio della desertificazione umana. Ho pensato alle rovine romane, ai luoghi del passato ed a come essi siano oggi più vivi e frequentati di quanto non lo fossero stati all'epoca. Ho pensato a queste rovine ed a quanto tempo le separa ancora da un guaito di cane, da un pianto di bambino, da uno stereo acceso, da una coppia di amanti che gridano alla notte la loro gioia. Un nulla sospeso tra crocicchi di travi di legno e cerchiature di fasce gialle di nylon e carbonio.

Una carta assorbente che sta rendendo aride le aspettative di chi ha vissuto il dramma direttamente, ignorato da qualsiasi ragione di Stato che non vuole trovare l'economia possibile, ma doverosa, per ricostruire non le assurde e inutile palazzine lontane che sono state lo strumento di propaganda dei politici e dei professori universitari che hanno sperimentato le loro aspettative sulle cavie umane costrette alla diaspora, non i quartieri "modello" costati quanto si vende invece al privato un metro quadrato di palazzina nuova in ogni dove provinciale d'Italia, ma la Città. L'unica vera essenza dell'esistere che ha determinato la Civiltà dell'Uomo nell'aggregazione e nello scambio solidale. La Città, che nasce come fenomeno urbanistico dopo il Medio Evo, che quindi si configura come luogo sociale e di sviluppo.

Questa città rimane confinata da reti e regolamenti. L'inaccessibilità de L'Aquila è l'inaccessibilità dello Stato. E la ricostruzione della prima può avvenire solo ricostruendo il secondo.

E gli animali.

Ho notato le api. Non so se ve ne erano prima, ma adesso L'Aquila è popolata da api. Seduto ad uno dei due bar di Corso Vittorio Emanuele, mi ronzavano intorno, ignare e gioviali, e in piedi ad uno dei due bar aperti di Piazza Duomo ancora delle api intorno al mio caffè. Le api, come segno di rinascita. Le api decideranno il momento della fine di questa fase terrestre. Le api de L'Aquila sono l'inizio di una nuova era, inevitabile, sofferta.

Ho notato i cani. Sono i cani rimasti orfani. Stazionano accasciati vicino alla tenda dei Vigili del Fuoco, in Piazza Duomo, davanti alla porta aperta della Chiesa di Santa Maria del Suffragio. Immobili, dormienti. Avulsi ormai dall'affetto rimasto sepolto dietro le reti, avulsi dai loro luoghi abituali, confinati dalle reti. Quei cani non mi hanno guardato. Non si sono mossi quando li ho fotografati rendendoli immortali. Ormai consunti e abbandonati non dall'Uomo, ma dalla consapevolezza di una vita che non è più come prima. Uno di essi, l'unico, mi ha guardato. Ha sollevato la testa, aveva gli occhi arrossati da una congiuntivite che non saprò se gli verrà curata. Poi si è reclinato, avvezzo ad ogni dramma, ed ha ricominciato a dormire.

Le api e i cani e qualche uomo che non ho visto ma che sono sicuro che c'è.

 

E se mai ho cercato di reprimere ogni mia commozione ieri, non vi riesco adesso in cui la consapevolezza di ciò che ho visto supera l'emotivo stupore della prima volta.

L'Aquila ce la farà. Non con questo Stato, ma ce la farà.

Adesso io sono "fuori" quella realtà che immagino ripetuta ogni giorno come un flashback grippato. Non c'è nulla che cambi tra quelle reti, se non ci sarà qualcuno che lo farà cambiare. Il mio omaggio piccolo e parziale a tutti coloro che vivono la "vita" che non volevano.

DV

 


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