L'Irpinia di Franco Arminio, trent'anni dopo

26 Novembre 2010   10:06  

Uno straordinario articolo dello scrittore e paesologo Franco Arminio, sull'Irpinia trent'anni dopo il terremoto. In queste parole c'è anche un futuro possibile del cratere sismico aquilano.

''Ho una fortissima nostalgia dell’Irpinia prima del terremoto. Allora non giravo per i paesi, non facevo il paesologo. Scrivevo da fermo e da dentro, non mi guardavo intorno, ancora non avevo capito che il mondo è fuori, che noi siamo un’interruzione, un equivoco della natura. Certi pomeriggi mi basta andare in un paese vicino per scollarmi di dosso la smania che mi prende a commerciare con le ombre dentro il computer. La mia terra è una terracarne che mi strazia ma che pure mi affascina e mi ammalia.

Qui c’è ancora spazio vuoto tra un paese e l’altro. E la notte è ben chiaro lo spettacolo delle stelle. L’Italia dei capannoni e delle officine non è ancora arrivata nella parte più orientale della provincia. Qui c’è un’Italia che ha ancora un’aura, in cui puoi ancora passare qualche ora senza istigarti nel gioco del consumare e produrre.

Prima del terremoto c’era un’Irpinia che viveva di agricoltura, delle rimesse degli emigrati e dell’assistenzialismo democristiano: bidelli, portieri, applicati di segreteria, impiegati vari. I paesi non erano belli. I centri antichi non erano particolarmente curati e le case nuove sorgevano senza alcun disegno urbanistico.

Eppure, a vedere adesso, se immagini di quell’Irpinia ti viene una dolorosa nostalgia, come se si volesse riacciuffarla quell’aria mitemente sgraziata, come se si volesse passeggiare nelle piazze con quella gente magra, ossuta.

Prima del terremoto non era il Paradiso, eppure vengono le lacrime agli occhi a vedere com’erano una volta Conza della Campania o San Mango. Tornano alla mente storie di emigrazione, l’adiacenza tra la vecchia civiltà contadina e l’avvento della civiltà dei consumi: la fornacella e il cestino con la frutta di plastica sul tavolino.

I ragazzi che andavano all’università e i muli che andavano in campagna. Allora non esisteva la parola comunità, non la pronunciava nessuno. Però c’era il senso che le cose stavano insieme, come se il paese fosse tutto un’unica scena, e tutti stessero dentro la stessa cornice. Allora non esisteva neppure l’Irpinia, esistevano i paesi, le strade.

Per alcuni il mondo finiva dietro una curva. Sto indugiando a parlare dell’Irpinia prima del terremoto perché quella che è venuta dopo, quella che c’è adesso, è una terra stuprata in molti punti, una terra che a viverci dentro ogni giorno ti dà tanto dolore ma pure un soffio incerto di lietezza.

Non starò a dire ancora una volta degli errori e degli orrori della ricostruzione. Il grande abbaglio di portare le industrie in montagna, l’illusione che fare tante case avrebbe dato più vita ai paesi.

Come se le maniglie delle porte, le finestre, i marciapiede potessero ricreare la vita, come se al posto del cuore avessimo un deposito di materiale edile.

Le colpe delle classi dirigenti di allora, che poi sono le stesse di adesso, sono evidenti. Non si possono tacere, tuttavia, anche le colpe di gran parte della popolazione, che fu tanto ansiosa allora di partecipare alla spartizione del bottino. La ricostruzione post-terremoto ha accentuato quel processo di rottamazione della civiltà contadina già in corso negli anni precedenti, ma non è riuscita a portarci un’Irpinia veramente nuova.

Nuovi sono gli intonaci, le vernici, ma il malanimo di questa terra è ancora qui, la diffidenza e il rancore restano il nostro marchio di fabbrica, unitamente al vittimismo e all’accidia. Abbiamo importato mattoni, continuiamo a esportare persone.

Oggi l’Irpinia è una provincia che non garantisce a nessuno dei suoi giovani un lavoro decente. Una volta bisognava decidere tra l’emigrazione e le fatiche dei campi. Adesso il dubbio non si pone neppure, si parte e basta. Si parte e non si torna. Adesso ci sono più case che abitanti. Da qui l’aria di desolazione che avvolge i paesi. Hanno il buco al centro.

La gente vive in grandi case costruite dopo il terremoto sparse nelle campagne. Sono i disertori sociali, gli epigoni locali che ingrossano le schiere di quell’autismo corale che domina in tutto l’occidente.

Un evento locale, il fallimento della ricostruzione, si incrocia con i guasti che derivano dal fallimento del modello capitalistico, un fallimento tanto grande da impedire perfino l’immaginazione di un altro modello.

L’Irpinia di oggi è un perfetto esempio di disastro glocale. Non si leggono libri, ma ci sono macchine costose. A farne le spese sono le volpi, i cani, i gatti uccisi sulle strade.

Non si vede più tanta gente seduta sulle panchine. Anche qui il tempo libero è fagocitato dai centri commerciali. Gli ammalati non hanno ospedali in grado di assisterli e non hanno neppure quella rete di assistenza che una volta era assicurata dai vicini di casa.

È una terra di anziani sempre più soli, ma con facce bellissime, dignitose e innocenti. L’abitante tipico dei centri storici irpini è la vedova col figlio emigrato a Torino e il marito al cimitero.

Qui la vita sociale si rianima solo nel periodo elettorale. Allora sembra che questi paesi interessino ancora a qualcuno. Passate le elezioni restano poche persone a fingere di occuparsi del bene comune. Il modello dominante è quello di sempre: piccoli paesi, piccole cose, piccola vita.

Si spendono soldi per realizzare piazze e piazzette. Si fanno anfiteatri che vengono usati una volta l’anno. Si restaurano fontane che non sputeranno mai acqua e che non saranno mai pulite. I ragazzi non si interessano dei loro paesi.

Molti bevono e consumano anche altre droghe, stanno davanti al bar come avveniva anche prima del terremoto, ma ora ci stanno senza speranza, con un’indolenza acida, incapace di cogliere quel poco di buono che ancora qui resta.

Basti pensare al paesaggio, alla sua bellezza in molti tratti non guastati dagli scempi post-terremoto. Tanta bellezza avrebbe bisogno di riguardi e prima ancora di sguardi. Non ha senso stare qui senza andare in autunno nei boschi di castagni o a giugno nei campi di grano. Il valzer delle betoniere nulla ha potuto contro quell’orografia accidentata che ha salvato molti luoghi.

L’Irpinia c’è ancora, ma bisogna andare a cercarla negli angoli, nelle pieghe più nascoste di una terra che già di suo non è particolarmente esposta. E se in questi luoghi più sperduti e affranti viene fuori un senso di agonia, si tratta pur sempre di un’agonia commossa.

Prendo a prestito questa immagine da mio fraterno amico Andrea Di Consoli, un’immagine che si contrappone all’agonia ciarliera di cui ho parlato in un mio recente libro. Ecco i poli di oscillazione: comunità e autismo corale, agonia commossa e agonia ciarliera. In ogni caso siamo fuori dalla lietezza e siamo fuori anche dall’ordinata ma anemica civiltà del nord Europa.

L’Irpinia che c’è adesso è per molti aspetti un manicomio all’aria aperta, abitato da gente incapace di amare, incapace di lanciarsi verso il futuro. Anche lo sguardo verso il passato è uno sguardo finto: si guarda indietro, si rimpiange come eravamo una volta, ma poi nessuno si cura di rimettere in circolo le abilità perdute, potare un albero o fare un caciocavallo.

Una provincia così può solo istigare i nervi dei più sensibili, può solo rovinare la vita a chi dalla vita si aspetta qualcosa di grande.''

(da www.carta.org)




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