Montereale: il paese delle 400 scosse

09 Settembre 2010   23:12  

Un reportage di Marco Imarisio sul Corriere Della Sera

Montereale: il paese delle 400 scosse

Montereale (Aq). La vita capovolta comincia sotto la doccia. Federico De Santis sta di guardia come un carabiniere. Nel corridoio tra la porta d'ingresso e il bagno, con entrambe le porte spalancate, guarda sua moglie che si lava, e intanto urla. «Fulvia, fa in fretta, muoviti». Lei esce di corsa. Scalza, ancora con i capelli sgocciolanti, fasciata solo da un asciugamano. «Arrivo, arrivo». In pochi secondi sono entrambi sul marciapiede, finalmente fuori di casa. Fulvia si cambia in macchina, e poi apparecchia per cena. La tavola è una delle poche panchine che adornano i marciapiedi di via Nazionale.

C'è un paese che sembra alla fine del mondo ma dista soltanto 130 chilometri da Roma. E' un paese dove si vive all'incontrario. Dove i cani vogliono dormire al chiuso, rintanati sotto i tavoli, e gli esseri umani nelle loro cucce, in giardino. Dove le porte di casa sono tutte spalancate, come se fossero una via di fuga, e le finestre perennemente chiuse. Dove nessuno fa più la spesa. Anche oggi il lattaio è andato via a mani vuote, il banco della macelleria è sgombro come una piazza d'Armi, nessuno compra più merce deperibile. Gli abitanti si nutrono solo di pizza, focaccia e pollo allo spiedo, mangiano yogurt, tutto in scatola, pronto all'uso, buono per essere consumato in strada, in auto, nel container.

Il paese si chiama Montereale, 938 metri d'altezza, 350 abitanti più altri 1300 sparsi per le 37 frazioni che visti dall'alto sembrano puntini persi in un mare di verde. E' il posto per il quale si accapigliano da settimane Enzo Boschi, Guido Bertolaso, più o meno uniti contro il tecnico Giampaolo Giuliani, l'uomo che predisse il terremoto dell'Aquila, e altri esperti definiti «profeti di sventura». Perché qui la terra ha tremato 336 volte nel mese di agosto, e altre 55 fino ad oggi. C'è uno sciame sismico in corso, e Montereale ha la sfortuna di poggiare sulla faglia al confine tra le provincie di L'Aquila e Rieti. Ognuno dice la sua, lontano da qui.

Ma basta entrare nel negozio di parrucchiere di Maria Antonietta Verzulli per capire le discussioni accademiche sulla prevedibilità di un terremoto al momento interessano poco. Dentro, le luci sono spente. Non c'è nessuno. Soltanto lei, la titolare. Gli occhi cerchiati da occhiaie gonfie e nere, una donna che si sforza di non piangere mentre parla. «Sono andati via tutti», dice. «Siamo rimasti soli». Ai piedi ha scarpe da tennis, sotto a un lungo golfino nero indossa una felpa e pantaloni a fiori. A Montereale girano quasi tutti così, a ogni ora del giorno. Tute sportive e pigiama. «Se arriva mentre dormiamo, non dobbiamo vestirci per scappare, siamo già pronti». La paura non fa notizia. La paura non si misura. Inutile chiedere cosa può arrivare, è sottinteso. «La scorsa notte 3.31, l'abbiamo sentita bene». «Quando è 2.2 te ne accorgi anche se stai fuori». «No, fino a 3 solo se stai al primo piano». I ragazzi che - da fuori - guardano la partita di calcio trasmessa dal televisore all'interno del bar Reale, ne parlano come di una cosa viva. Lei, la scossa, la botta. Non la nominano mai. Come fosse un parente strano, uno zio matto che vive con te e ogni volta speri che non faccia troppi danni. «Hai sentito alle cinque? 2.7, accidenti».

Cristina Giovannelli, la titolare di un negozio di abbigliamento, vede i visitatori venuti da fuori e li accoglie tenendo per mano Michela, 9 anni. «Non succederà, vero? Non può succedere ». La bambina rimprovera la mamma. «Non devi scendere nel magazzino, e se succede mentre sei giù?». Federico, il figlio più grande cerca risposte che non può avere. «Perché nessuno ci spiega come stanno davvero le cose?» Al bar raccontano che ogni tanto passa un'auto della Protezione civile. Chiedono se tutti stanno bene, se serve qualcosa, e poi vanno via. All'ingresso del paese, sulla via Nazionale che lo attraversa dal basso all'alto, ci sono una decina di cani assopiti sul marciapiede. Appena una persona si avvicina, fuggono spaventati. I cartelli che annunciano la sagra dello spiedino per il 21 agosto sono già ingrigiti dal tempo. Non c'era nessuno, a quella festa d'estate. I romani che vengono qui a prendere il fresco sono scappati di corsa. Adesso che sta per arrivare la sera, quelli che restano hanno un solo argomento di discussione, in costante aggiornamento. «Non ve ne siete accorti? Sarà stata 2.2, come minimo».

Quella delle 18.40 la sentiamo anche noi. Maria Luisa Grante indica la gola sulla quale si affaccia la sua casa, in piazza Belvedere. Carte geologiche alla mano, la faglia passa sotto questo canalone ricoperto di vegetazione. In lontananza, dall'altra parte della valle, c'è una costruzione di vetro. È l'ospizio. Nel cortile sono montate una decina di tende da campo, per accogliere gli anziani, in caso di panico. Sono le stesse che si vedevano nei campi dell'Aquila. «L'anno scorso abbiamo avuto anche un 4.5, qui». Poi, dalla gola arrivano i latrati dei cani.

Maria Luisa dice di stare zitti, e aspettare. Come un tonfo, e poi la sensazione che mentre cammini qualcuno abbia acceso a tua insaputa un invisibile tapis roulant. Dura poco, un niente. Ma qui succede dieci volte al giorno, quando va bene. «In casa non ci sto mai - dice Maria Luisa -. Ogni volta mi prende sempre che sono al secondo piano». Apre la porta del suo rifugio per la notte. È una cuccia, una casina nell'orto, destinata al suo cane. La branda per lei e suo marito occupa ogni centimetro di spazio disponibile. «Però c'è la televisione».

I segni del terremoto dello scorso aprile sono ancora ben visibili, nelle cose e nelle anime delle persone. Nei vicoli intorno a via Nazionale ci sono case pericolanti, le due chiese vengono chiuse e riaperte, dipende dall'intensità delle scosse. In cima al paese, nella parte vecchia, c'è piazza Plebiscito, il luogo dove ci si trova a sera. L'unico segno di vita arriva da una roulotte, parcheggiata nell'angolo più lontano dagli edifici. Da un finestrino aperto si snoda un filo lungo almeno trenta metri, che fissato ad un palo della luce entra al piano superiore di una villetta per pescare energia elettrica. «Così posso scaldare il biberon senza entrare in casa», spiega Valentina Cavallari, mentre culla il suo bimbo di due anni. Lei e suomarito hanno comprato la roulotte dopo il terremoto. Usata, 2.000 euro.

La notte è scesa da qualche ora, ma la gente passeggia sul marciapiede di via Nazionale, per ritardare il momento. Quando si ritroveranno soli, ognuno nell'abitacolo della sua auto, o nella roulotte, oppure in un container. In questi giorni vengono da Roma per venderli. Fermano la gente per strada, «signora, è per il suo bene». Angelo D'Alessandro litiga con la moglie. «Ieri m'ha scaricato la batteria della Punto, adesso tocca dormire al freddo». La piazza del Belvedere si è riempita di roulotte. Michela spunta dall'oscurità a cavallo di una bicicletta. «Vi faccio vedere dove sto io». Mamma e papà sono nella Toyota grande, hanno tolto i sedili dietro e portato dentro un materasso da una piazza e mezzo. Salutano con la mano. «Non può succedere, vero?» Michela raggiunge Federico nell'utilitaria, una Aego. Le macchine sono parcheggiate una di fronte all'altro, attaccate per il muso, i genitori non vogliono perdere di vista i loro ragazzi. All'improvviso, mancano venti minuti alle due, i cani cominciano ad abbaiare. Le portiere delle auto parcheggiate sulla via Nazionale si aprono. «Hai sentito? Sarà stata 2.5».

Un cenno di assenso, poi tutti si richiudono dentro. I genitori di Michela ci guardano dal finestrino chiuso. Sono spaventati. Nell'Aego, Federico è ancora sveglio. Ci saluta con il pollice alzato, va tutto bene, va tutto bene, che possiamo farci? Michela invece non si è accorta di nulla. Dorme abbracciata al fratello. Sembra che sorrida. Non succederà. Non deve succedere.

Marco Imarisio

 


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