Nell'archivio di Stato di Aquila le carte processuali del Vajont

Restituire la memoria

31 Marzo 2008   18:28  
I testi d'archivio, per chi sa leggerli non sono freddi e polverosi faldoni, perchè in essi sono conservate testimonianze della vita passata e insegnamenti per quella a venire. E particolarmente vero per gli atti processuali del disastro del Vajont, che si celebrò a L'Aquila dal 1968 al 1971. Ieri, alla presenza dei sindaci di Longarone e Castellavazzo è stata celebrata la consegna dell'imponente documentazione dal Tribunale all'archivio di stato di l'Aquila. Verbali delle udienze, perizie e diari, planimetrie e materiale fotografico saranno così finalmente a disposizione degli storici e degli studiosi.

La documentazione racconta minuziosamente ciò che accade quel maledetto 9 ottobre del 1963 in Friuli: una frana si staccò dal monte Toc, precipitò nel bacino artificiale della diga del Vajont, un'onda immane scavalcò la diga e travolse i paesi della valle e i morti furono quasi 2mila. I verbali delle udienze e le perizie fanno luce sulle responsabilità pesantissime dei progettisti e dei gestori della diga. Le sentenze sono però per i parenti delle vittime una ferita ancora aperta, perchè a pagare per quel disastro furono in pochi e con pene non certo proporzionali al disastro causato.

FT

 

Il disastro del Vajont è il peggior disastro ambientale mai accaduto nel mondo (Documento ONU illustrato alla presentazione del «2008 Anno internazionale del pianeta Terra») Avvenne il 9 ottobre 1963 alle ore 22.39. Fu causato da una frana staccatasi dal monte Toc e precipitata nel bacino artificiale creato dalla diga del Vajont, provocando un'onda che scavalcò la diga e travolse distruggendolo il paese di Longarone; 1917 le vittime di cui 1450 a Longarone, 109 a Codissago e Castellavazzo, 158 a Erto e Casso e 200 originarie di altri comuni; vennero inoltre danneggiati dall'inondazione gli abitati di Pirago, Faè e Rivalta.

Alle 22:39 del 9 ottobre 1963 si staccò dalla costa del Monte Toc (che in friulano, contrazione di "patoc", significa "marcio", mentre in veneto significa "pezzo") una frana lunga 2 km di oltre 270 milioni di metri cubi di rocce e terra. La frana arrivò a valle, generando una scossa sismica e riempiendo il bacino artificiale. L'impatto con l'acqua causò due ondate: la prima si schiantò contro la montagna, la seconda (di circa 50 milioni di metri cubi di acqua, di cui 25 milioni scavalcarono la diga) scavalcò la diga (che rimase pressoche' intatta) precipitando verso la valle e travolgendo Longarone e altri paesi limitrofi, causando la completa distruzione della città e la morte di più di 2000 persone (dati ufficiali parlano di 2018 vittime, ma non è possibile determinare con certezza il numero). Alle ore 05.30 di mattina del 10 ottobre 1963 i militari italiani arrivarono sul luogo per portar soccorso e recuperare i morti, non tutti i cadaveri furono recuperabili. Il Ministero dei Lavori Pubblici avviò immediatamente un'inchiesta per individuare le cause della catastrofe.

Iniziano le operazioni di messa in sicurezza della valle. L'Enel installa una stazione di pompaggio per mantenere il livello del lago residuo entro limiti di sicurezza (essendo quest'ultimo rimasto senza emissario il suo livello sarebbe diventato altrimenti incontrollabile e avrebbe sommerso Erto) e contemporaneamente vengono avviati i lavori di ripristino e prolungamento oltre lo sbarramento della galleria di bypass costruita prima del disastro (e che tuttora assicura il deflusso delle acque oltre la diga). Nonostante le rassicurazioni dei geologi si decide però di trasferire la popolazione di Erto. Da notare come i vecchi abitanti siano oggi rientrati nelle case e le abbiano ristrutturate.
Vengono fatti tutta una serie di lavori di dubbia utilità come ad esempio l'impermeabilizzazione del passo di S.Osvaldo (punta Ovest) con uno schermo di cemento profondo 80m (rimosso nel 1998) noto come il Muro della Vergogna, o del Pianto.

Il 20 di febbraio 1968 il Giudice istruttore di Belluno, Mario Fabbri, deposita la sentenza del procedimento penale contro Alberico Biadene, Mario Pancini, Pietro Frosini, Francesco Sensidoni, Curzio Batini, Francesco Penta, Luigi Greco, Almo Violin, Dino Tonini, Roberto Marin e Augusto Ghetti. Due di questi, Penta e Greco, nel frattempo muoiono, mentre Pancini si toglie la vita il 28 novembre di quell'anno.
Il giorno dopo inizia il Processo di Primo Grado, che si tiene a L'Aquila, e che si conclude il 17 dicembre del 1969. L'accusa chiede 21 anni per tutti gli imputati (eccetto Violin, per il quale ne vengono richiesti 9) per disastro colposo di frana e disastro colposo d'inondazione, aggravati dalla previsione dell'evento e omicidi colposo plurimi aggravati. Biadene, Batini e Violin vengono condannati a sei anni, di cui due condonati, di reclusione per omicidio colposo, colpevoli di non aver avvertito e di non avere messo in moto lo sgombero; assolti tutti gli altri. La prevedibilità della frana non viene riconosciuta.

Dal 15 al 25 marzo del 1971 a Roma si svolge il processo di Cassazione, dove viene confermato il verdetto del processo di secondo grado, ma vengono ridotte le pene a Biadene e a Sensidoni: il primo è condannato a due anni di reclusione, il secondo a dieci mesi.

Nel 1997 la Montedison (che aveva acquisito la SADE) fu condannata a risarcire i comuni colpiti dalla catastrofe. La vicenda si concluse nel 2000 con un accordo per la ripartizione degli oneri di risarcimento danni tra ENEL, Montedison e Stato Italiano al 33,3% ciascuno.

 


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