Passeggiare è un po' abitare

Domeniche aquilane

07 Giugno 2010   17:13  

'Che domenica, quatrà... prima deju tarramuto, ecco non ce stea n'anima la domenica...''. Ha ragione Minestrina, attento e poliedrico osservatore delle vicende post-sismiche.

Domenica 6 giugno a L'Aquila sembrava festa nazionale. E infatti c'erano molti giornalisti nazionali. ''...Una città che torna a vivere...ritorno alla normalità... ...pensare positivo...l'impegno del governo...clima festoso...ricominciare......ricostruzione...tenaci... forti...gentili...entusiasmo...'': ad intercettare e trascrivere i brandelli sonori dei loro stand up, si paventava il rischio che i telespettatori comincino a pensare che per gli aquiliani il terremoto è stata una gran bella botta di fortuna, e la ricostruzione una grande festa. Ergo: cosa hanno da lamentarsi, che se tornino a casa loro, basta con stò terremoto, paghino le tasse come tutti gli italiani onesti, una minoranza.

In effetti in magri tempi di politica della lesina, quale altra cittadina dello stivale può permettersi di essere teatro in un giorno solo delle selezioni dello Zecchino d'oro con il mitico coro dell'Antoniano e il sindaco di Roma Alemanno, di un raduno di macchine d'epoca e di una rombante parata di Harley Davison. Della finale del Superbowl allo stadio Fattori, di escursioni con gli asini per i più piccini, del raduno nazionale degli sbandieratori e dei falconieri, di saggi di danza davanti al Forte spagnolo. Di lezioni di golf, di karate e di judo. Dell'esibizione del piccolo Enes, di soli otto anni, capace di giocare a dama e battere due adulti, di un raduno dei boy-scout, e di una sfilata di antichi e bellissimi trattori d'epoca. Infine concerti, messe solenni e coreografiche, processione del Corpus domini guidata dal vescovo.

Era bella davvero comunque L'Aquila finalmente piena di gente, di famiglie e di bambini. E vanno dunque ringraziati tutti coloro che arrivati da altre città hanno animato questa domenica aquilana, quasi tutti a titolo gratuito e volontario. Il clima di festa invogliava quei pochi che sono rientrati nelle case intorno al centro che resta un buco nero, a sfalciare il giardinetto, a dipingere la ringhiera, a prendersi cura fischiettando di quel pezzettino di città davanti al proprio uscio.

C'erano molti turisti. Li riconoscevi perché quasi con pudore si affacciavano sui vicoli e i chiassetti sbarrati, indicavano con l'indice crepe, macerie, archi e bifore puntellate, e scattavano smitragliate di fotografie. I bellissimi palazzi rinascimentali, barocchi e neoclassici, quando erano tutti interi, suscitavano molto meno interesse. E non c'erano brochure ed info-point che funzionavano per poter far finalmente decollare il turismo in una bella città d'arte italiana. Dopo il terremoto evidentemente la città ha goduto invece del fascino della diretta e ha acquistato l'aura tragica e dannata che fa la fortuna dei botteghini giù a Pompei. O di quei cantanti e scrittori che diventano famosi dopo aver tentato il suicidio.

C'erano anche tanti aquiliani domenica a spasso, gli antichi abitanti contemporanei di quei ruderi intorno a cui cresce l'erba. Di passaggio, più che di ritorno.

Un aquilano che ora vive nel progetto CASE di Cese di Preturo scattava molte foto. E' strano, sembrava un turista pure lui, in gita domenicale a casa sua.

C'erano poi molte persone che si sono riunite per una foto di gruppo sulla scalea di san Bernardino, con tanto di coordinatore con il megafono. E che scrivevano, francobollavano e imbucavano cartoline dell'Aquila.
Ma loro no, non erano turisti, perché un turista a differenza di un viaggiatore quando arriva in una città, non pensa che quello potrebbe essere il luogo che ha da sempre cercato per fermarsi e morire felice.

Le cartoline erano indirizzate ai potenti del paese e del G8, a coloro a cui tocca elemosinare considerazione, proroghe ed emendamenti. Da cui tocca farsi concedere ciò che invece spetterebbe ai contribuenti terremotati di diritto.
''L'Aquila bella me', te vojo revede'... ma quanno?'', ''Sveglietese frà, ecco tocca refà na città!'' scrivono sulle cartoline spedite al presidente Giorgio Napolitano, al presidente del consiglio. E pure al ministro Umberto Bossi, senza traduzione padana in calce.

Il bar Nurzia era pieno di gente. Abitare significa sedersi su un tavolino che si affaccia sul passeggio vociante e lento, sulla varia umanità da osservare e origliare facendo finta di leggere. Delizie dello spirito che è impossibile vivere seduti fuori al bar di un centro commerciale.

Suonavano le campane delle chiese incerottate. Il mercato di piazza Duomo che non c'è più te lo potevi immaginare, dopo il terremoto che è stato davvero un pasticciaccio brutto, ricordando le parole di Carlo Emilio Gadda, scritte tanto tempo fa, chissà, sul tavolino di questo stesso bar.

''Lasciatemi qui dove la piazza chiara si apre declive ai gradini all'arco e alle torri del Duomo, piena di tende, di gabbie di polli, fruttifera e insigne di peperoni, di bretelle, di padelle, di pantofole, di paralumi e piatti mal cotti, che il lucchese uno dopo l'altro li lancia verso il cielo e poi come un giocoliere li riprende....Calze e giocattoli, pettini, sapone verde, limoni, compatte maglie di lana, contro i gelidi ululati dell'inverno. La polis della montagna mi è cara, lasciatemi nel sole del mattino.''

Due aquiliani uno in un MAP, l'altro in CAS, uno casa B, l'altro E, uno del comitato pro Bertolaso, il secondo carriolante della prima ora, discettavano fitti fitti sulla formazione della nazionale di calcio ideale da schierare in Sudafrica. E litigavano solo per poter offrire il caffè e l'ammazza-caffè. Altri aquilani brindavano con un buon bicchiere di Montepulciano, e potevano farlo ora perché non diedero retta all'esperto che consigliò di fare lo stesso in quella maledetta notte, e sobriamente preferirono dormire in macchina. Quando si dice che con il vino è meglio non esagerare.

Su una panchina della villa comunale all'ombra fresca di una quercia c'era infine un vecchio aquilano che leggeva un libro. Un evento anche questo, perchè in tempi di ignorantocrazia dilagante e briatorizzazione delle masse televisive, leggere un libro in luogo pubblico viene sempre più avvertito come un atto osceno e assai sospetto.

Il vecchio aquilano era il professor Raffaele Colapietra. Lui domenica non era tornato a L'Aquila, perché non se ne è mai andato dal 6 aprile 2009,  e ha preferito vivere in solitudine nella sua casa insicura, incurante delle scosse, perché più forte di ogni cosa, per lui è stato l'amore per la sua città, le sue abitudini e i piccoli grandi piaceri quotidiani. Riemergendo dalle sue letture sulla battaglia del Peloponneso, il professor Colapietra ha spiegato che si è forse persa la capacità di soffrire e fare sacrifici, perché, a differenza di oggi, dopo il terremoto del 1703 gli aquilani sono rimasti a dormire accanto alle loro macerie, e la città se la sono ricostruita tutta con le loro mani, bella come com'era.

Ha ricordato poi sommessamente, il vecchio aquilano Colapietra, che un'occasionale passeggiata domenicale in un piacevole clima di festa non significa essere tornati a vivere nella propria città. E' un primo passo forse, ma nulla di più, di un lungo e travagliato cammino verso un abitare antico di secoli, che il destino ha dato in custodia a questa generazione di post-terremotati. Un bambino poco lontano frignava per convincere la mamma a comprargli una ruspa giocattolo.

Filippo Tronca

 


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