Passeggiate nel cratere. Cantine aperte a Castelnuovo

01 Settembre 2012   09:56  

Febbraio 2012. Castelnuovo. Uno dei tanti borghi del cratere sismico aquilano, conosciuti in Italia solo da pochi cultori e appassionati del terremoto aquilano.

E qui il terremoto ha colpito duro. Distruggendo il 95% delle abitazioni. Portandosi via la sigora Maria Finamore e il marito Emidio, che dopo una vita di sacrifici come emigranti in Svizzera erano tornati nel loro paese. Con loro è morto quella notte anche il figlio Emanuele, elettrauto, che sotto quei baffoni non negava il sorriso a nessuno. E ancora Refik e Demal, emigrantri anche loro, come Emidio, fatelli macedoni e valenti muratori, che in Italia, sarcasmo del destino, erano venuti per gettare fondamenta più solide per il futuro della loro numerosa famiglia.

Dopo la grande nevicata Castelnuovo sembra un presepe tutto rotto e rabberciato, che qualcuno con cura ha avvolto nell'ovatta, in attesa, chissà quando, di tornare ad essere brulicante di vita e pulsante di luce.

Eppure pare che la ricostruzione di Castelnuovo sia a buon punto.

Certo, dopo tre anni e mezzo è stata spostata solo qualche pietra. Però il lavoro dei dotti tecnici e ingegneri dell'Università di Firenze è pronto, la trafila burocratica per l'approvazione quasi conclusa.

Poi certo serviranno i soldi, si suppone tanti. E, va detto, incrociando le dita, che la sicurezza economica di questo incantevole altopiano era molto più solida, e la fiducia per il futuro molto più razionale, quando tutte le terre erano coltivate e fertili, e quando lungo le superstrade d'erba della trasumanza transitavano milioni di pecore in viaggio verso la Puglia, rispetto al medio evo contemporaneo, dove a scorrere, sopra la testa dei sudditi frivoli e distratti, sono solo i grandi fiumi di soldi virtuali dell'economia-casinò dei banchieri speculatori e dei nullafacenti planetari.

A rompere la deriva introversa di queste elucubrazioni, poco in sintonia con il silenzio ospitale di Castelnuovo, una sorpendente scoperta, in un vicolo, di impronte solitarie sulla neve.

Le seguiamo emozionati come turisti cinesi davanti ad una Ferrari. Altri esseri viventi, oltre a noi e a un gatto, si aggirano per il paese! Eccolo, è quello laggiù. Barba folta e chiavi in mano. Ci vede e ci saluta. Totò è il suo nome. Post-terremotato come tanti. Vive nel villaggio di legno sull'altra collina, quella più vicina al cimitero. In zona rossa, per l'occasione tutta bianca, ha la sua cantina. Dentro uno dei grottoni ipogei che quella notte amplificarono l'onda assassina del terremoto.

Ci invita, a noi forestieri, a bere un bicchiere di vino. Senza neanche conscerci, per buona creanza, usanza e virtù che nelle metropoli isteriche e paranoidi è pressochè sconosciuta.

Fuori il silenzio, dentro il ronzio del generatore per fare luce e parole non banali sull'aglio rosso e il suo olio essenziale. Sul tavolino vissuto e levigato da una vita quotidiana lunga secoli, altro che i truciolati componibili dell'Ikea, Pensieri tristi sul partire. Di speranza sul restare e sul ricominciare. Sulla parola paese e sulla ricostruzione. Sul cosa vuol dire amare una terra.

Parole e mondi che chissà se sono stati presi in considerazione, almeno nelle note in calce, in un Piano di ricostruzione scritto altrove e da chi in un paese forse non c'è mai vissuto, da ingegneri che possono ricostruire spazi, volumi e pareti, ma mai e poi mai potranno ricreare la vita che ci scorreva dentro.

Testo e video di Filippo Tronca

montaggio di Marialaura Carducci


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