A tres años del terremoto, una reflexión sobre la realidad vivida por los migrantes y sobre la miopia di aquellos que no ven su presencia como una riqueza para la comunidad.
Tre vjet pas tërmetit, një reflektim i realitetit të përjetuar nga emigrantët nëkrater dhe miopi eatyre që nuk e shohin praninë e tyre në një pasuri të komunitetit.
Three years after the earthquake, a reflection of the reality experienced by migrants in thecrater and the myopia of those who do not see in their presence an asset to the community.
Trois ans après le seisme, nous proposons une reflexion sur la rèalité vécue par les immigrésdans le cratère, et sur la a myopie de ceux qui refusent de voir leurs prensence comme une richesse pour la comunauté.
Il sisma del 6 aprile ha avuto intensità diversa per ciascuna delle persone che ha vissuto quella notte. Per alcuni solo tanta paura, per altri una tragedia cruda e dolorosa. Per altri ancora la fine di un mondo costruito pezzo su pezzo lontano dalla propria casa; per loro, per i migranti che avevano scelto di vivere all’Aquila, la scossa è stata lunga e violenta. Hanno perso case che magari non erano di loro proprietà, ma erano un mondo, lontano centinaia di chilometri dalla vera casa, perso senza averne un altro a portata di mano, senza avere una rete di amicizie e relazioni in grado di attutire il colpo. E da subito questi cittadini con un’altra carta d’identità sono stati guardati con diffidenza e additati come “sciacalli”: come tutti avevano chiesto ospitalità presso le strutture di assistenza messe a disposizione da governo e Protezione civile per l’accoglienza di chi abitava nel cratere.
Pochissimi quelli che hanno accettato di andare sulla costa. I migranti, per lo più impegnati nell’edilizia e nei trasporti, sono rimasti a L’Aquila, nelle tendopoli. Per molti di loro, soprattutto per le donne impegnate nei servizi di assistenza ad anziani o bambini e di cura alla casa, il terremoto ha significato anche perdere il lavoro: case distrutte, trasferimenti in hotel, smembramento o accorpamento di nuclei familiari hanno modificato non solo l’ordine di vita di queste persone, ma hanno messo in discussione tutte le scelte che erano state fatte in precedenza: perdere il lavoro e la casa, per chi ha un permesso di soggiorno, significa in molti casi anche perdere le condizioni per restare legalmente in Italia e quindi o vedersi costretto a rimpatriare, oppure vivere nell’illegalità.
A tre anni di distanza, possiamo dirlo, si è trattato di un’emergenza tenuta sotto controllo grazie alla mediazione fra le Istituzioni e i migranti che le associazioni hanno portato avanti assumendosi responsabilità e creando reti fra i diversi gruppi. Bene hanno funzionato anche le comunità di connazionali stranieri che vivevano fuori dall’Aquila.
Negli ultimi tre anni i migranti sono stati spesso indicati come causa di parecchi mali: i furti negli appartamenti vuoti del centro storico e delle periferie, assegnazione di appartamenti del piano C.a.s.e. più grandi destinati alle famiglie numerose, atti di vandalismo vari e di degrado sociale. Nessuno, o quasi, forse con la complicità di mass media, ha provato a capire davvero le condizioni di vita di chi con il sisma ha perso tutto esattamente come gli aquilani puro sangue e di chi, attirato da quello che era stato annunciato come il “più grande cantiere d’Europa”, è venuto a cercare lavoro, a dare il suo contributo, a offrire le sue energie in cambio di una possibilità di vita migliore per la propria famiglia. Chi lo avesse fatto, avrebbe trovato dietro e oltre i titoli indegni di molta stampa locale – “Rumeno ruba”, “nordafricano picchia la moglie”, “due uomini con accento dell’est truffano” – storie di isolamento e degrado, abbandono e fatica. Operai a giornata che di mattina aspettano ai bordi delle strade che passi qualcuno a recuperarli (per verificare basta fare un giro lungo la Statale 80 o nei parcheggi dei supermercati fra le 6 e le 7 del mattino) e che lavorano spesso senza contratto, senza garanzie, senza assicurazioni.
Vivono, a volte, in ripari di fortuna, in condizioni igieniche al limite e i giornali preferiscono non parlarne, le Istituzioni non vederli. Meglio continuare a parlarne come un male, piuttosto che come una delle urgenze da valutare. Eppure, in questa realtà in cui i muri sono caduti e le persone sono state costrette ad uscire di casa, basterebbe davvero poco a capire la ricchezza che queste persone rappresentano per una comunità che prima o poi dovrà trovare la forza di ricostruirsi socialmente.
Nella desolazione di un pomeriggio domenicale trascorso lungo i corridoi delle gallerie commerciali che accolgono migliaia di persone annoiate e orfane di una città, una signora con il capo coperto che mangia il gelato con i suoi bambini e suo marito può essere un invito all’apertura, alla crescita, alla scoperta. Non buonismo, sia chiaro, ma curiosità e voglia di relazioni. A fronte delle 2.000 presenze in meno registrate nelle scuole aquilane, che corrispondono all’allontanamento dalla nostra città di altrettante famiglie, come non capire l’importanza e il valore della presenza di persone che scelgono di vivere ora, a L’Aquila, in momenti difficili, e come non accoglierle, non ringraziarle per regalare a noi e alla nostra città, sorrisi e sogni, speranze ed energie?
di Viola Bellone