Quel giorno tra le rovine andate in rovina di Gibellina...

Il Belice 44 anni dopo. Una ricostruzione che non sia da esempio

17 Luglio 2012   00:04  

“La burocrazia uccide più del terremoto”. E ancora: “Verifiche geologiche subito”. Sembra rivivere la realtà che hai lasciato a qualche centinaia di chilometri. Leggere gli slogan che hai letto e ascoltato negli ultimi anni della tua vita all’Aquila.

Attraversando Gibellina Nuova, che oggi chiameremmo Gibellina 2, vivi un’angoscia terribile, ben maggiore di quella che invece all’Aquila sembra, fortunatamente, lasciare a fatica spazio alla speranza. E in fondo, forse, ti convinci pure che è stato meglio farne 19 di new town, a costo di vivere i primi dieci anni della tua nuova vita come un pesce fuor d’acqua, piuttosto che correre il rischio di trascorrere il resto della tua esistenza in quello che definiremmo comunemente uno squallido dormitorio.

Le immagini delle scritte sui muri rimasti in piedi, all’indomani del terremoto del 1968, adornano le porte d’ingresso dell’EpiCentro della Memoria viva (foto), un piccolo spazio di cultura e aggregazione, inesorabilmente chiuso in una insopportabilmente afosa domenica d’estate, che a quasi cinquant'anni di distanza prova a mantenere vivo il ricordo.

Vedi Gibellina Nuova e pensi ai molti quartieri-ghetto di case popolari, che in ogni contesto suburbano sono state, da sempre, esempio di scelleratezza, urbanistica ed architettonica, innanzitutto.

Percorri un agglomerato edilizio dove risiedono in oltre quattromila, e supponi che sia un centro disabitato. Attraversandolo ti viene da pensare a quei film americani nei quali il paese è stato improvvisamente evacuato per l’arrivo di un catastrofico evento naturale. O degli alieni.

In “compenso”, durante il tragitto, incontri brutture, opera di "artistar" chiamate dal sindaco della ricostruzione per abbellire quel nuovo insediamento sorto nel nulla a venti chilometri dal paese distrutto. Secondo Wikipedia, quella fu un’idea “illuminata”, che avrebbe consentito di “umanizzare” Gibellina 2.

Trascorrendoci poche ore, si ha l’impressione che nell’intero contesto urbano sia del tutto assente ogni relazione sociale. Unico punto di riferimento, dove si incontrano giovani e anziani, un piccolo bar, che spunta dal nulla lungo una strada deserta costeggiata da immensi marciapiedi che attendono di essere percorsi da qualcuno. Non incontri un’anima. Intorno case a schiera. Tutte simili, come nel celebre poster di Mordillo. Tutte squallide.

Di fronte una chiesa con un’enorme sfera bianca stile osservatorio astronomico.

"Una follia urbanistico-architettonica condita da salsa artistica", la definì il critico Federico Zeri.

La curiosità di vedere la vecchia Gibellina, o ciò che ne rimane, aumenta col permanere in quella Nuova. In macchina, da queste parti, per percorrere venti chilometri possono volerci anche tre quarti d’ora. Dopo una curva, sulle colline del Belice, in aperta campagna, spunta un ammasso di grigio. Come una macchia. Da lontano può assomigliare ad un grande serbatoio, o ad una roccia calcarea. Persino ad una salina, se non fosse su per una collina.

Alberto Burri, della squadra di artisti di fama chiamati dall’allora sindaco Ludovico Corrao, si tirò fuori dalla mischia e all’installazione nella Gibellina Nuova, ne preferì una in quella vecchia. Incerottò quel che ne rimaneva. Colando sopra alle macerie, dalle quali furono estratte decine di cadaveri, del cemento bianco, realizzando una serie di blocchi dell’altezza media di una persona che ricalcano più o meno fedelmente l’assetto urbanistico che fu.

Attraversare la vecchia Gibellina è un’esperienza agghiacciante. Ferisce l'intimità. Ti mette il magone.
Socchiudi gli occhi e provi ad immaginare lo scorrere quotidiano di una volta, le vite che animavano il borgo, i rumori e gli odori. Oggi cementati. Come dimenticati. Archiviati. E non fissati per fermare il tempo a quel momento, come si legge su qualche descrizione del Grande cretto.

"A Gibellina ho imparato che anche le rovine possono andare in rovina, e che la rinascita del Belice è un miracolo sempre rimandato" ha scritto Francesco Merlo

Riapri gli occhi e incroci le dita. Che una cosa del genere possa non accadere mai più.
E che, è sempre Merlo, "il mito antico dell’uomo che viene da fuori, dell’uomo del cargo che può essere un capopartito, un cantante, un calciatore, ma anche una statua, uno scultore di cretti, purché venga appunto da fuori nel Sud che dentro di sé non trova pace", non faccia breccia anche all'Aquila.

LE FOTO DI QUEL GIORNO A GIBELLINA

di Marco Signori



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