Ricostruzione Friuli: i miracoli non cadono dal cielo - II parte

di Sandro Fabbro

19 Luglio 2010   10:20  

La seconda parte del un saggio sulla ricostruzione del Friuli a firma di Sandro Fabbri, professore di Pianificazione territoriale presso la Facoltà di Ingegneria dell'Università di Udine di Sandro Fabbro, e anche presidente della Commissione nazionale INU "Politiche Infrastrutturali". Una precedente versione di questo saggio è stata pubblicata con il titolo Ricostruzione post-terremoto e governo del territorio: tempestività e continuità versus strategia. Un rapporto controverso, a cura di P. Bonfanti (Friuli 1976-1996 Contributi sul modello di ricostruzione). Lettura impegnativa, ma necessaria per poter, attraverso altre esperienze, prendere consapevolezza delle scelte politiche e di pianificazione della ricostruzione dell'Aquila. Da protagonisti e non da spettatori.


Ricostruzione post-terremoto e governo del territorio in Friuli: una esperienza complessivamente positiva - PARTE SECONDA
di Sandro Fabbro

Contenuti ed efficacia dei piani comprensoriali di ricostruzione

Nel presente paragrafo ed in quelli che seguono si entra nel merito di alcuni aspetti specifici della pianificazione territoriale ed urbanistica che è stata effettivamente realizzata nell’ambito del processo di ricostruzione e, in particolare, nel merito di quegli aspetti che meglio ci permettono di indagare la relazione tra politiche di ricostruzione e pianificazione territoriale generale comunale e sovracomunale.

La pianificazione comprensoriale prevista prima dalla l. 546/’77 (addirittura all'art.1) e quindi dalla l.r. 63/’77 viene impostata in termini metodologici con un documento regionale del maggio 1978 recante "prime linee metodologiche per la formazione dei piani comprensoriali di ricostruzione e prime direttive per la costruzione degli uffici preposti alla programmazione ed alla pianificazione nell'ambito delle Comunità Montane".

Una valutazione della pianificazione comprensoriale si è avuta al convegno di Tarcento del 8/3/1986 promosso da INU ed UNCEM. In quella sede è stato sostenuto (Cosatto, 1986) che l'esperienza dei Piani Comprensoriali di Ricostruzione (PCR) deve ritenersi comunque positiva anche se la loro efficacia giuridica è stata mutilata dalla legislazione regionale.

Detta positività risiederebbe non solo nella qualità intrinseca dei piani ma, soprattutto, nell'aver lasciato in eredità "un metodo operativo per quegli enti che tale esperienza hanno agito, per aver permesso agli enti medesimi la strutturazione di gruppi di lavoro interni ad elevata qualificazione professionale, e per aver permesso la costruzione di una nuova conoscenza e consapevolezza delle risorse territoriali che la montagna regionale può liberare attraverso l'esplicazione di politiche definite" (p.75).

I PCR suscitano interesse ed aspettative anche alla luce della impossibilità della strumentazione di livello comunale a gestire variabili di complessità superiore alle capacità conoscitive ed operative dei piani
comunali ed alla luce anche della debolezza strutturale delle realtà comunali sia per quanto attiene alla organizzazione amministrativa sia per quanto attiene alla situazione demografica e socioeconomica (Cosatto, 1986).

Le premesse metodologiche ed i criteri guida dei PCR, in relazione agli obiettivi del PUR, possono essere ricondotti ai seguenti punti:

a. definizione di criteri di rilettura del PUR a partire dai problemi degli ambiti montani ed a "bassa densità insediativa" e delle aree periferiche regionali;

b. integrazione del PUR per quanto attiene all'individuazione di aree naturali oggetto di politiche di tutela di livello "comprensoriale", attraverso la perimetrazione di ulteriori aree da destinarsi a parco;

c. riconsiderazione del processo pianificatorio alla luce di una preponderante rilevanza dei processi naturali rispetto alla relativamente contenuta rilevanza dei processi antropici.

Tuttavia, al di là della positiva esperienza amministrativa svolta da parte di enti di recente formazione come le Comunità Montane e degli indubbi contributi sul piano conoscitivo e metodologico-disciplinare, non si può dire che la pianificazione comprensoriale abbia rivestito, in questa occasione, un ruolo rilevante in quanto, almeno sul piano della pianificazione della ricostruzione, non ha potuto spesso far altro che rincorrere e ricucire a posteriori la pianificazione in atto nei comuni.

A nostro avviso, il nodo critico che andava posto e risolto diversamente, è costituito dal chiedersi come possano essere rese compatibili, in una situazione del tutto eccezionale, due esigenze intrinsecamente conflittuali: da una parte, l’esigenza di far presto e, dall’altra, l’esigenza di dare comunque un indirizzo sovraordinato e strategico alla ricostruzione dei comuni. A questo problema è stata data una risposta del tutto inadeguata alla situazione in essere in quanto, anche in periodi di normale gestione territoriale, il sistema pianificatorio razional-comprensivo è notoriamento lento e farraginoso. Ci si può chiedere, semmai, se nell’orizzonte concettuale dell’epoca, potevano essere concepibili altre soluzioni: per esempio, una, più conforme alle concezioni amministrative all’epoca dominati, poteva essere quella di assumere, all’interno dei compiti del PUR, e, in fondo, coerentemente con i suoi principi di fondo, anche quello di indirizzare e coordinare localmente, secondo sistemi territoriali in qualche misura già identificati dal PUR stesso, la ricostruzione insediativa dei comuni. Un’altra, obiettivamente più complessa, forse meno formalmente praticabile data l’assenza degli opportuni istituiti giuridici, ma anche già in qualche misura presente nello spirito del forte decentramento amministrativo attivato, poteva essere la soluzione di rafforzare od affiancare il compito delle Comunità Montane con delle forme di cooperazione ed accordo intercomunale atte sia a fissare, con documenti specifici, principi, obiettivi, criteri ed azioni concrete ai quali i singoli piani comunali avessero potuto poi fare riferimento sia a semplificare le procedure di elaborazione ed approvazione dei piani: qualcosa che prefigurasse nella sostanza quelli che oggi si definiscono Accordi di pianificazione, o, se il problema è più direttamente attuativo, Accordi di programma.

Linee ed efficacia delle varianti comunali di ricognizione

Le "varianti di ricognizione ed adeguamento degli strumenti urbanistici comunali" dovevano precedere la redazione dei piani particolareggiati ma, di fatto, hanno avuto piuttosto la funzione di ricucire a posteriori le varianti allo strumento urbanistico introdotte dai vari piani attuativi e di adeguare il dimensionamento e le previsioni dei piani alle norme del PUR.
Le incongruenze che sembrano essersi verificate nel processo di “ripianificazione” comunale generale sono, secondo Cacciaguerra (1986 p.106 e segg.), sostanzialmente di due tipi: "il primo è costituito dalla fuga degli interventi ricostruttivi verso le periferie non sottoposte a pianificazione particolareggiata; in questo caso risultava molto più semplice e rapido ottenere la concessione edilizia in aree non sottoposte a vincoli di piano e ritenute, dai cittadini, più sicure in quanto permettevano la costruzione di case singole unifamiliari e non a "cortina" come nei centri storici. Il secondo conseguente ai costi indotti da alcune metodologie di pianificazione che, per i vizi di origine con cui erano impostate, risultavano estremamente onerose sia per la componente infrastrutturale sia per la componente architettonica della ricostruzione". Il riferimento è sia a quegli approcci architettonico-edilizi che hanno enfatizzato oltremodo la dimensione scenografica a scapito di quella funzionale, sia a quegli approcci urbanistici che hanno enfatizzato le previsioni di standard urbanistici senza tenere conto, con realismo, delle situazioni strutturalmente deboli in cui si operava.

Linee ed efficacia dei Piani Particolareggiati di Ricostruzione


Sulla pianificazione particolaraggiata molto è stato scritto e detto. In particolare possiamo ricordare, tra l’altro, gli interventi sulle riviste "Ricostruire" (numeri 8-9-10-11-12), e "Rassegna Tecnica" (tra i quali ricordiamo il n.2/’82 ed il n. 1/’83), alcuni studi di analisi e valutazione generale (Concoop, 1981), altri studi di carattere monografico su singoli centri (Nimis, 1978; Cacciaguerra, Di Barba, 1980 ecc.).

Due studi che offrono una ampia panoramica sui metodi ed i criteri di formazione dei piani particolaraggiati sono il citato Concoop (1981) ed il lavoro di Cacciaguerra (1983).

Lasciamo alle parole di quest'ultimo autore la illustrazione di tre fondamentali tipologie di P.P. che si possono riconoscere.

"La prima tipologia può essere definita (...) quella dei "piani attuativi di massima". In essa il progettista (...) definisce la rete viaria e l'organizzazione delle proprietà quali elementi strutturalmente significativi dell'insediamento e procede ad una delimitazione delle aree di intervento dandone le caratteristiche dimensionali, tipologiche e d'uso. In pratica si limita a definire la zonizzazione del piano.
All'interno di questa zonizzazione prevede la possibilità di una successiva suddivisione degli ambiti in comparti più facilmente ed omogeneamente edificabili lasciando facoltà ai proprietari interessati di definire i modi ed i meccanismi di concreta edificazione; nei casi di inadempienza dei privati si prevede l'intervento sostitutivo o coattivo dell'Ente pubblico.
Come si vede (...) molte scelte urbanisticamente importanti vengono demandate ad una successiva gestione del piano da parte dell'amministrazione locale con tutte le incognite che possono derivare dalle concrete potenzialità e possibilità delle amministrazioni locali (...).
(…) Si ha l'impressione dunque che questa metodologia sia stata un modo di rifuggire, da parte dei professionisti, dal contatto concreto con la popolazione e con le situazioni catastali, sociali ed economiche che questa portava all'interno di ogni singolo comparto.
(…) La seconda metodologia (...) può essere definita schematicamente come "dirigista" (...). Essa in pratica azzera le preesistenze e pianifica un abitato totalmente nuovo. Questa metodologia, se risolve drasticamente ogni e qualsiasi problema di proprietà frammentate e complesse, non tiene in alcun conto la memoria storica rappresentata (...) dai confini, dagli alberi, dagli orti (...). Con tale metodologia si è dunque intervenuti facendo tabula rasa e ridisegnando, senza tenere conto della ragnatela delle proprietà preesistenti, un agglomerato di lotti tutti della stessa dimensione (...) al posto del vecchio centro storico, compiendo un'operazione quanto meno discutibile anche in termini culturali. (...)La terza metodologia è quella che, partendo dalla peesistenza come base da studiare ed analizzare nei suoi aspetti sociali, economici, psicologici e comportamentali, la ripropone introducendovi i necessari correttivi urbanistici, infrastrutturali e di servizi tali da realizzare un processo di recupero, svecchiamento e rivalutazione della struttura urbana e sociale. (…) Questa metodologia tendeva a reinsediare la popolazione dove viveva prima del sisma, a prescindere dalle caratteristiche soggettive e contributive dei singoli interessati, onde consentire l'edificazione anche a quei proprietari di piccolissimi lotti, ricavando per essi lotti minimi attraverso il riordino fondiario (consentito dalla legge nazionale 546 e dalla l.r. 63)".

Per quanto riguarda le novità culturali, metodologiche e procedurali introdotte dalla rilevante ed unica esperienza dei P.P. (circa 350 piani in 91 comuni autorizzati), sempre lo stesso autore asserisce che gli esiti più interessanti sono da considerarsi i seguenti:

a. "il collegamento, per la prima volta così diretto, tra progettazione urbanistica, reperimento delle risorse finanziarie ed attuazione dell'intervento (...)";

b. "la inversione gerarchica degli strumenti urbanistici". Il fatto che il piano attuativo "detti legge" sul piano generale viene considerato dall'autore citato di grande innovazione nel campo disciplinare. Questa opinione pare, a nostro avviso, condivisibile se l'inversione dei ruoli viene intesa come "esigenza di innescare
un processo (...) di pianificazione continua tramite la interlocuzione simultanea tra strumenti non più di diverso livello ma bensì di diversa scala applicativa".

c. "l'esplicito richiamo, tra i criteri di impostazione della pianificazione urbana, della prevenzione antisismica, della eliminazione di nodi di fragilità e vulnerabilità dei tessuti e degli insediamenti, presupposti e seguiti indispensabili per una organica programmazione e gestione della protezione civile degli ambiti insediativi";

d. il cospicuo fenomeno della partecipazione alla elaborazione ed adeguamento degli strumenti urbanistici da parte degli utenti cui la legislazione contributiva affidava dignità specifica, l'intensità, la durata, i modi e le forme con cui essa si è esplicata" (Cacciaguerra, 1986, p.108 e segg.).

Pianificazione territoriale generale e politiche di ricostruzione

Si può dire che le politiche di ricostruzione risultano sostanzialmente coerenti con gli obiettivi micro assunti dal PUR in particolare in relazione alla conservazione e recupero dei borghi e dei centri storici. La l.r. 30/’77, soprattutto, ha operato una massiccia azione di riparazione orientata al recupero edilizio, funzionale e, in molti casi, soprattutto mediante l'”articolo 8”, anche culturale degli edifici. Sempre nella stessa direzione hanno operato sia il regime edificatorio e gli strumenti urbanistici attuativi (i P.P.) previsti dalla l.r. 63/’77, sia la legge 45/’80 per le aree centrali.

Dal punto di vista del sistema di pianificazione urbanistica, il forte ruolo dei P.P. ha, inoltre, di fatto affermato una inversione della tradizionale cascata pianificatoria imponendo il primato del momento attuativo su quello della pianificazione generale.

Tutto ciò ha marcato in senso molto pragmatico, operativo ed essenzialmente centrato sull’intervento edilizio, il sistema della pianificazione urbanistica e territoriale.

Tuttavia, l’effetto più macroscopico dell’assenza di una efficace pianificazione comunale ed intercomunale (o comprensoriale come si diceva all’epoca) di tipo generale, sembra consistere, anche se forse non poteva essere altrimenti, in una ricostruzione, del sistema abitativo, di gran lunga ridondante rispetto ai fabbisogni prova ne sia il fatto che il calcolo del fabbisogno abitativo previsto dalla stessa l.r. 33/’77 non è mai stato attuato; ciò significa che le abitazioni realizzate sono risultate ampiamente eccedenti le esigenze reali visto che lo standard abitativo è passato dalle 2 stanze ante-terremoto (che è già uno standard, almeno teoricamente, rilevante) alle 2,5 stanze nuove per abitante (Fabbro, 1985) e ciò anche in presenza di rilevanti processi di decremento demografico in atto; mentre, nelle attrezzature urbane, si sono avuti incrementi volumetrici dell'ordine anche dell'80% ed in particolare nel settore delle attrezzature di scala territoriale (scuole superiori, centri culturali ecc.) (Fabbro, 1986). Il sovradimensionamento significa poi anche uso squilibrato dei suoli de pensiamo, per esempio, che alle nuove espansioni periferiche sono spesso abbinati centri storici con rilevanti eccedenze volumetriche.

L'assenza di una pianificazione regionale efficace risulta rilevante, inoltre, quando si va a verificare il perseguimento degli obiettivi macro del PUR per i sistemi insediativi (Fabbro, 1991) che, in qualche misura, costituivano anche obiettivi della ricostruzione tout court: si è costruita “molta” struttura insediativa in senso quantitativo (più case, più opere pubbliche, più attrezzature e servizi) ma non si sono affatto risolti i problemi dello squilibrio territoriale; non si può dire, inoltre, di trovarsi in presenza di sistemi territoriali più integrati in quanto, semmai, i sistemi territoriali si sono potenziati ciascuno indipendentemente dagli altri (basti pensare alla necessità che si pone oggi di sopprimere uno dei due ospedali di Gemona e Tolmezzo); non si può dire neppure che sia stata impostata una politica di specializzazione locale in quanto, appunto, i centri locali di servizi “comprensoriali” sono stati realizzati secondo schemi ripetitivi più che secondo un progetto di specializzazione locale e di complementarità interterritoriale.

Tutto ciò ci porta a dire che gli obiettivi macro più qualificanti e più strategici del PUR non sono stati perseguiti2 ; ciò può essere dovuto a diverse ragioni tra le quali, per esempio, il fatto che quella stessa pianificazione regionale poteva non essere sufficientemente realistica nei suoi obiettivi. È vero, infatti, che i suddetti obiettivi macro sono in realtà quelli più difficili da perseguire ed anche quelli che vengono spesso assunti, dai documenti di indirizzo e di pianificazione generale, più come “sfondo” retorico che come obiettivi di una reale ed efficace azione pubblica. Ma a noi sembra che tale effetto si più attribuibile, almeno nella fattispecie, al fatto che le politiche territoriali hanno di fatto ignorato le indicazioni territoriali provenienti dal PUR, realistiche o meno che fossero, perché orientate, per scelta intenzionale, più al recupero e consolidamento quantitativo della struttura insediativa che alla sua qualificazione strategica.

Conclusioni


La politica di ricostruzione si è sviluppata, dal punto di vista strumentale, attraverso un numero elevato di leggi (circa una settantina di leggi direttamente o indirettamente riguardanti la ricostruzione) di cui, però, quelle fondamentali, a parte quelle nazionali, sono forse meno di una decina; un certo numero di piani comprensoriali (di scarsa efficacia sulla pianificazione di livello comunale), un numero elevato di varianti comunali di ricognizione e, infine, una grande mole di Piani Particolareggiati di Ricostruzione che, a quanto risulta, hanno operato efficacemente per la ricostruzione edilizia dei centri distrutti.

Il tutto nel quadro urbanistico generale definito da un PUR appena approvato. Ma la pianificazione territoriale generale - regionale, intercomunale e comunale-, sembra aver esercitato una scarsa influenza diretta sugli orientamenti assunti dalla ricostruzione. Questa può forse essere anche una tra le ragioni che hanno consentito una tempestiva ricostruzione: qualcuno sostiene, infatti, che, se si fosse operato secondo le procedure ed i livelli

Il concetto di perseguimento è qui usato non nel senso di raggiungimento dell’obiettivo che, alla luce della nozione di obiettivo enunciata in nota 1., sarebbe cosa, in generale, irrealistica nel contesto delle politiche pubbliche, ma piuttosto nel senso di governo di operazioni complesse dove conta non tanto una astratta conformità dell’esito all’obiettivo quanto la direzione che, evolutivamente, si riesce ad imprimere agli eventi. della pianificazione urbanistica tradizionale, la ricostruzione avrebbe subito rilevanti rallentamenti o, forse, non si sarebbe mai compiuta.

C’è sicuramente del vero in questa affermazione paradossale anche perché, in quegli anni, il sistema di pianificazione urbanistica di tipo razional-comprensivo raggiungeva punte di estrema complicazione e parossismo burocratico, ma è anche vero che si è rinunciato consapevolmente ad ogni forma di indirizzo strategico sulla allocazione e uso delle risorse finanziarie e territoriali all’interno dell’area terremotata.

Vediamo perché e con quali effetti.

E’ opinione condivisa che i risultati della ricostruzione, la cui positività, in termini di assorbimento tempestivo della domanda sociale di abitazioni, servizi, posti di lavoro ecc. è fuori discussione, sono riconducibili all’efficace combinato disposto di condizioni macro, quali, essenzialmente, la solidarietà
nazionale ed il generale contesto di “welfare state”, con non comuni capacità di implementazione delle decisioni a livello regionale e locale.

Ciò significa, in altre parole, l’esistenza, a monte della politica di ricostruzione, di due condizioni di base: un trasferimento massivo e tempestivo di risorse e di deleghe dallo Stato alla Regione e un modello distributivo basato su un ampio allargamento dello spettro degli interventi e dei beneficiari locali (case, posti di lavoro, servizi ecc.). Queste due condizioni di base, unite a fattori endogeni sicuramente rilevanti (dall’esistenza di un consolidato e capace apparato amministrativo regionale, alla tradizionale serietà e
dedizione degli amministratori locali, dalle proverbiali capacità di autorganizzazione delle popolazioni friulane alla esistenza di un sapere edificatorio diffuso ecc.) hanno costituito il potente motore dell’attivazione capillare, pervasiva, emulativa e cumulativa di tutti i soggetti sociali coinvolti fino alle unità minime (famiglie, individui).

Risorse statali rilevanti a disposizione, da una parte, ed un modello distributivo delle risorse finanziarie capillare ed indiscriminato (tra i diversi gruppi sociali, i diversi settori e i diversi territori), dall’altra, hanno dato luogo, pertanto, ad un grande gioco a somma positiva -dove cioè tutti potevano aspettarsi di ottenere qualcosa e comunque nessuno di perderci-, che assicurano l’attivazione sociale ed il consenso politico alle istituzioni.
Questo tipo di politica, se risulta necessaria, nei momenti di straordinarietà, per garantire tempestività ed efficacia agli interventi di riabilitazione, non sembra però sufficiente per garantire una allocazione delle risorse disponibili (sia pubbliche e sia private, sia finanziarie sia territoriali) che possa assicurare anche un qualche circuito virtuoso su tempi un po’ più lunghi e ciò, inevitabilmente, può ripercuotersi sulla coesione sociale, sulla qualità ambientale ed anche sulle capacità autopropulsive e di sviluppo del complesso delle comunità locali.

La politica di ricostruzione, pertanto, sembra aver comportato, insieme agli indiscutibili successi, anche effetti non attesi ed in parte perversi, di tipo economico, sociale ed ambientale, che sono riassumibili nei seguenti punti:

# sul piano dell’allocazione delle risorse si è avuto un sovradimensionamento delle strutture abitative e delle attrezzature sociali e civili con conseguenze perverse non solo sul piano dell’allocazione delle risorse familiari e pubbliche a breve e lungo termine (pensiamo solo ai costi di manutenzione e di gestione dei patrimoni edilizi), ma anche in termini di uso del suolo se pensiamo che spesso, nuove espansioni periferiche sono cresciute vicino a centri storici con rilevanti eccedenze volumetriche;

# sul piano urbanistico e paesaggistico, attraverso il principio indiscriminato della “ricostruzione in sito” anche per gli edifici periferici ai centri ed ai borghi storici (spesso anonime villette), si è avuta una legittimazione ed una incentivazione alle espansioni di tipo suburbano -pur, come si è detto, in presenza di eccedenze volumetriche nei centri storici-, che continuano anche dopo la ricostruzione e che contribuiscono grandemente a svuotare i centri storici ed a snaturare l’intero paesaggio di tradizione rurale del cosiddetto
“Alto Friuli”;

# sul piano del riequilibrio territoriale si è prodotta una maggiore disarticolazione territoriale: i diversi sistemi territoriali si sono potenziati ciascuno indipendentemente dagli altri; non è stata impostata una politica di specializzazione e complementarità (i centri locali di servizi comprensoriali sono stati realizzati secondo schemi replicativi e non di complementarità); la montagna, oltre a rimanere marginale ai processi di sviluppo che hanno interessato invece l’area collinare, ha visto anche aumentare il suo degrado ambientale e socio-economico;

# sul piano dei sistemi di sviluppo locale si è prodotta una sorta di continuità “passiva” con i processi in atto ex-ante: i processi di sviluppo endogeno in atto già prima del terremoto sono proseguiti consolidando, grazie alla ricostruzione, la base strutturale locale; i processi di degrado in atto già prima del terremoto sono proseguiti, invece, nonostante il consolidamento della base strutturale. Ciò, se conferma, da una parte, una natura “continuista” della ricostruzione anche al di là delle stesse intenzioni “conservative” degli attori della ricostruzione, fa osservare, una volta di più che le politiche di sviluppo, centrate sul solo potenziamento della base strutturale ed infrastrutturale, non garantiscono affatto lo sviluppo ed in qualche caso possono anche contribuire ad aumentare il degrado.

La politica implementata, cioè, sembra aver dato luogo ad una riabilitazione efficace ma passivamente conservativa o, se vogliamo, poco orientata in senso strategico. Basti dire, per fare solo un esempio, che grazie alle leggi della ricostruzione si sono avvantaggiate, in termini strategici, sicuramente le città di Udine (con l’Università) e di Trieste (con il potenziamento del suo sistema di formazione superiore e con la creazione dell’”Area Science Park”) e, conseguentemente, la regione nel suo complesso, mentre invece, nell’area terremota vera e propria, non solo non si è andati al di là della riconferma e dell’ampliamento di strutture ed attività tutto sommato tradizionali, ma si è arrivati al punto, poi, di dover ridimensionare proprio quelle stesse attività e strutture tradizionali (una per tutte l’Ospedale di Gemona).

Si è trattato, dunque, di una politica che certamente ha generato grandi risultati sul breve-medio periodo ma che ha generato anche effetti negativi, o comunque non virtuosi, che emergono soprattutto sul periodo più lungo. E’ vero che si tratta di effetti che vanno considerati comunque inferiori a quelli che sarebbero scaturiti da una mancata ricostruzione, ma ciò non toglie, comunque, che sia utile ed opportuno analizzarne natura e cause se non altro per capire se tali effetti, in situazioni comparabili, possano essere in qualche modo contrastati o se siano invece da assumere come un costo inevitabile della tempestività e dell’efficacia.

Si potrebbe facilmente appoggiare quest’ultima ipotesi osservando che sia il PUR sia il sistema di pianificazione generale previsto dalla l.r.63/1977 e, più in generale, la cultura amministrativa della programmazione dell’epoca, non avrebbero mai potuto, per loro intrinseca natura, garantire, o anche solo tentare di raggiungere, esiti del tipo auspicato. E quindi si può, di conseguenza, sostenere che la pianificazione razional-comprensiva (generale, gerarchica, burocratica, ecc.), ammesso che sia efficace in tempi normali, è del tutto impraticabile in situazioni eccezionali.

Ma viene da chiedersi anche perché, al di là del riflesso condizionato del legislatore in termini, appunto, di riproposizione acritica dei modelli di programmazione più tradizionali e di auspici retorici generali sulla “programmazione dello sviluppo”, non sia stata espressa, in qualche maniera, anche una qualche forma di intenzionalità strategica. Questa intenzionalità avrebbe potuto, per esempio, esercitarsi o sul piano dell’uso più innovativo delle competenze già in capo alla Regione (ulteriormente rafforzate dalla delega alla Regione alla gestione della ricostruzione), integrando, ancora per esempio, il PUR con uno schema strategico che si
occupasse di poche e qualificanti operazioni di indirizzo ed assetto o, su un altro piano, favorendo invece, insieme all’autorganizzazione, anche forme di maturazione strategica da parte delle comunità locali.

Non si sarebbe trattato ovviamente della stessa cosa: nel primo caso, ci si sarrebbe affidati ancora ad uno schema pianificatorio di tipo top-down anche se decisamente più semplificato ed aggressivo su alcune tematiche di fondo e tutto sommato giustificabile nella situazione in essere; nel secondo caso, invece, si sarebbe decisamente insistito su un sistema di regolazione incentrato su principi di “sussidiarietà” in termini di stimolo alla autorganizzazione ed all’autoriconoscimento, da parte delle comunità locali, anche come comunità di
interessi più ampi e strategici e non solo come somma di interessi e bisogni individuali. In ambedue i casi si sarebbe trattato di innovazioni rilevanti: da una parte si sarebbe potuta avere una riconcettualizzazione del PUR e della sua struttura razional-comprensiva, con tutto ciò che ne poteva discendere anche in termini di riformulazione critica dell’intero sistema di pianificazione regionale, nell’altro si sarebbero avuti i prodromi di innovazioni rilevanti sia sul piano istituzionale sia sul piano delle politiche locali di sviluppo.

È noto che la storia non si scrive con i se e con il “senno di poi”. Ciò basterebbe a consigliare di non avventurarsi in considerazione di questo tipo se non fosse che queste tematiche non solo sono tutt’ora aperte (un nuovo Piano Territoriale Regionale è di là da venire dopo vent’anni di tentativi di rifare il PUR ed una riforma regionale dell’assetto delle autonomie e dei poteri locali, dopo diverse leggi regionali, è lontana dall’essersi consolidata) ma sembrano ancora sostanzialmente incapaci di approdare ad una soluzione innovativa e ciò, molto probabilmente, perché sembrano imprigionate in un quadro concettuale che è sostanzialmente ancora quello di allora (il quadro, appunto, razional-comprensivo). Usiamo dunque la
riflessione sulla ricostruzione e sulle potenzialità di innovazione del governo territoriale cui l’infausto evento del terremoto aveva dato luogo -e che non si è potuto o voluto utilizzare fino in fondo-, per introdurre qualche cosa di nuovo anche nei sistemi di governo del territorio.


Riferimenti bibliografici

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Le raccolte coordinate delle leggi utilizzate per la elaborazione del presente contributo sono quelle edite dalla S.G.S. nel marzo 1983 e nel settembre 1987.
Sono state consultate, inoltre, le relazioni annuali della S.G.S. sullo stato della ricostruzione del Friuli.



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