L'Aquila spiumata e i miracoli fasulli della (ri)costruzione

Di Antonio Gasbarrini

28 Settembre 2009   11:36  

Non scende più la sera nella città rossa, proibita a sguardi indiscreti. Viene giù, repentinamente e senza alcun trapasso tonale di tramonti cancellati, la notte: muta più che silenziosa, avvolgente con i suoi mille tentacoli nerastri, strade e vicoli desertificati da un sisma impietoso nelle sue impazzite scosse devastatrici.

Una città intera azzerata, con gli ex 70.000 abitanti errabondi da circa sei mesi tra tende e camere d’albergo della costa. Risucchiati, una volta rientrati per ragioni di studio, lavoro o per raccattare quel poco che si è salvato dalle macerie, dal gorgo infernale di interminabili file: nel frastagliato ring sempre più dissestato da camion, betoniere e ruspe; nei pochi improvvisati, carissimi ed antigienici punti di ristoro; negli introvabili uffici municipali dove reclamare diritti inesaudibili.

Un tempo senza più tempo quello degli aquilani, stretti in una morsa diabolica, tra un presente dannato ed un futuro tubercolotico. Aquilani nella stragrande maggioranza privati di un tetto “autentico” sotto cui far scorrere il tran tran di una quotidianità familiare dimenticata. Vivere alla giornata, anzi alla mezza giornata.

Come gli accattoni hanno accettato e stanno accettando di tutto, anche la deportazione forzata dalle tendopoli. In quella di Piazza d’Armi, appena smantellata, una trentina di terremotati s’è opposta all’aut-aut, preferendo vivacchiare alla meno peggio tra i mucchi dei residui rifiuti.

C’è voluta una scossa di magnitudo 4.1 per far rinsavire il Capo della Protezione Civile dalla sua intransigente, raffazzonata, tempistica di espulsioni improvvisate con la consegna, brevi manu, di vomitevoli fogli di via. La splendida, solare solidarietà nazionale e internazionale proveniente da mille rinfrescanti rivoli, è stata utile e risolutiva durante l’emergenza.

Mentre scrivo, indosso, con lo stesso amore devozionale riservato ad una reliquia, i pantaloni rossi datimi all’indomani del sisma dalla Protezione Civile nella costa teramana.

Ma, il punto veramente doloroso è un altro: la mia città non c’è più. Ne ho percepito nitidamente i mancati respiri qualche giorno fa, quello della riapertura parziale delle scuole, percorrendo al rallentatore tra le 18 e le 20, le poche centinaia di metri diventate a mano a mano più buie per la totale assenza di luci, conducenti dalla Villa Comunale a Piazza Duomo, quindi ai Quattro Cantoni (anzi Due, essendo intransitabili gli altri tratti stradali), poi a S. Bernardino con la sua imponente, candida facciata cinquecentesca di Cola dell’Amatrice perfettamente in piedi, e, sullo sfondo, Porta Leoni. Dopo una sterzata in Via Zara, il percorso inverso.

In tutto ho incrociato non più di una ventina di persone, ivi inclusi militari, Vigili del Fuoco ed altri addetti della Protezione Civile. Un silenzio solidificato ampliava l’eco degli sparuti tacchi femminili, mentre l’abbaiare dei cani, proveniente da lontano, ritmava il mio stralunato indugiare tra i pochi edifici messi in sicurezza e gli altri più che malconci, ancora abbandonati a sé stessi nei tanti vicoli inaccessibili, a mala pena sbirciabili al di là di grate e transenne.

E i ragazzi e le ragazze (“i quatrani” e “le quatrane”) rientrati in quello stesso giorno nelle scuole appena riaperte, dove si trovavano? E i loro genitori, parenti, amici perché non avevano sentito la necessità, l’urgenza, l’imperativo categorico, direbbe Kant, di andare tutti assieme al Corso per festeggiare l’evento, com’era avvenuto fino allo scorso anno, con la loro inveterata, rituale abitudine: sorridenti, ciarlieri, chiassosi, pronti ad abbracciarsi, felici di esserci, di rivedersi dopo le vacanze, di raccontarsi raccontando amori e conquiste, successi e viaggi…. Giovani aquilani scomparsi, desparecidos, ingoiati forse nelle tendopoli superstiti, nei containers, nelle roullottes, nei campers, nelle baracchette messe su da un giorno all’altro ed esteticamente concorrenti alla migliore pubblicità del dolciastro Mulino Bianco, negli appartamenti trovati a caro prezzo qui e là in periferia o nei paesi più vicini, nei pulmini e nelle macchine dirette, andata e ritorno, sulla costa.


All’Aquila ferita, o meglio moribonda come avevo pensato e scritto fino a quel momento, s’è sostituita prepotentemente l’immagine-metafora di un’Aquila spiumata, riversa vicino ad un cumulo di macerie nei pressi della Fontana Luminosa, con il corpo e la testa orientati in direzione del Gran Sasso: lì doveva esserci, ancora del tutto integro, il nido dov’era nata nella metà del Duecento e da cui s’era gioiosamente allontanata librandosi, inebriandosi alla vista di quell’inimitabile azzurro, degno dei più preziosi manti o sfondi paesaggistici delle Madonne quattrocentesche.

La rilettura iconologica sul suo originario colore araldico, magistralmente scandagliato nel bel libro “Chi ha ucciso l’Aquila Bianca?” di Raffaele Cusella (Nuova Industria Poligrafica Aquilana, maggio 2009), può forse aiutarci a trarre qualche insegnamento dalla storia: «Dei due stemmi […] l’aquila bianca in campo scarlatto, [è il] simbolo della città-territorio economicamente e politicamente importante, in dialettica democratica con il microcosmo delle comunità locali costituenti il suo organismo federale. L’altro stemma è di adozione e di origine incerta, e comunque L’Aquila lo ebbe da dinastie regnanti che resero la città “povera e di servitù”. L’aquila nera su argento sappiamo che fu quella di Manfredi, il distruttore; degli aragonesi, che mirarono costantemente a ridurne la libertà; infine di Carlo V d’Asburgo [vale a dire lo stemma riattualizzato nel 1937 dal federale Adelchi Serena con l’erroneo motto PHS al posto del bernardiniano acronimo IHS, n.d.a.]. L’Aquila bianca o L’Aquila nera? Senza le piume (bambini, adolescenti, giovani, ovvero il ricambio generazionale delle energie più vive e vitali per progettare la rinascenza cittadina nel medio e lungo termine), che avevano prima del sisma consentito almeno di volare a metà altezza, data la decadenza e il decadimento della città avvenuta nell’ultimo quindicennio, quale rilevanza può più avere il colore? Come rinasceranno? L’Aquila, bianca o nera che sia, per tornare a nuova vita dalle proprie macerie, non può aspettare i tempi mitici della Fenice, vale a dire 500 anni.

Non sarà certo la mortifera scelta governativa della “costruzione” (contrabbandata, a livello di massmedia, per “(ri)costruzione” della città), di una ventina di little towns cementificate fuori le mura – svuotando così in un battibaleno il Centro storico e le sue più immediate vicinanze di un quinto dei suoi abitanti – a consentire un auspicabile ripiumaggio. Quando riproveranno a volare, nei desolati slarghi di quegli anonimi parallelepipedi postmoderni euclidei, quelle piume strappate inopinatamente dalle ali materne (la città-territorio) e le altre cadute nelle lontane stanze d’albergo, nelle case dell’autonoma sistemazione e negli altri ricoveri di fortuna?

Scriveva lucidamente Carlo Franchi nel 1752 nel suo denso libro “Difesa per la fedelissima città dell’Aquila”:«In quelle Campagne cinte da altissimi Monti ci sarà grato di richiamare in memoria le antiche Città, che un tempo vi fiorirono e di osservare, come distrutte poi si dispersero in vari Castelli, e Villaggi vicini: e come finalmente si riunirono di nuovo per fondare, e popolare la nuova Città dell’Aquila, divenuta indi Madre, e Padrona di tutto il Contado, formando quindi una stessa Città, ed un territorio medesimo con quei Castelli, e Villaggi» Già: la Città-territorio, la Città-madre che ha resistito nella sua originalissima configurazione osmotica federata ante litteram fino al 6 aprile nonostante i quattro distruttivi terremoti del 1315,1349, 1461 e 1703, è stata recisa di colpo con il mirabolante capolavoro urbanistico del sig. b., in virtù dello scriteriato e smisurato allargamento delle maglie residenziali di una periferia acefala non avente più un Centro, una ghettizzante periferia in cui non avrà alcun senso spostarsi da un insediamento all’altro (per fare o vedere che?). Ad esser più precisi, dati i lunghissimi tempi previsti per la vera ricostruzione del Centro storico (gli esperti hanno formulano l’ipotesi di almeno un decennio), la dialogante città-territorio è stata così declassata, dopo circa otto secoli di felice convivenza, a “semplice terra” interessante dal solo punto di vista catastale, e perché no?, speculativo. Nel contempo il lungimirante sig. b. ha stabilito un inedito record, questa volta sì, non già nella tempistica della “miracolosa” (ri)costruzione, ma nell’aver inventato, di sana pianta e per la prima volta in Europa, una sterminata periferia centrifuga e acentrica, quale sarà realmente entro il prossimo dicembre la “fu città dell’Aquila”. Per capire a fondo cosa sia realmente successo con questa decantata, osannata, propagandata scelta polinsiedativa della “casermette antisismiche”, basta riflettere alle migliaia di posti di lavoro (artigianato, commercio, servizi, uffici pubblici, ecc.) già scomparsi, difficilmente resuscitabili con qualsivoglia politica economica di sostegno, zona franca inclusa: senza la riedificazione della “città di pietre”, evocare la parola lavoro, equivale a dire una bestemmia.

In tale brutto e brutale contesto, lo straparlare governativo di ben “due miracoli” per la normalissima consegna delle prime casette lignee ad Onna e Scoppito (peraltro non finanziate dal Governo, ma da enti locali, privati e dalla meno ciarliera solidarietà nazionale e internazionale), equivale all’abusare oltre ogni limite consentito, della credulità popolare. La stessa che dopo il catastrofico terremoto del 1703 indusse gli aquilani ad importare nel 1731 il culto devozionale di Sant’Emidio protettore del terremoto, culto diffusissimo nella vicina città di Ascoli Piceno, marginalmente sfiorata dal cataclisma abbattutosi su L’Aquila ed altre città abruzzesi ed umbre. Se il vescovo e martire decapitato («tra lo stupore generale, invece di stramazzare al suolo, raccolse il proprio capo e camminò»), ha ampiamente dimostrato tutta la sua “impotenza salvifica” alle 3.32 di quella polverosissima notte, ci penserà la “strapotenza mediatica” del sig. b. a far giubilare un popolo osannante al reclamizzato, quanto fasullo “terzo miracolo aquilano”.

L’eccezionale evento sarà diffuso in tutte le reti televisive italiane e internazionali nel momento topico della consegna delle chiavi di quegli pseudo-appartamenti lindi, pinti e arredati, sfornati in serie dalla stessa fotocopiatrice a colori. Persino nell’infagottato frigorifero (e lo si è già visto ad Onna) ci sarà ogni ben di Dio: torta, spumante ed il bigliettino augurale firmato sig. b., quasi che i salatissimi euro spesi (circa 3 mila al metro quadro, importo equivalente al costo di un appartamento rifinito nel centro storico), siano suoi e non dei contribuenti italiani, abruzzesi e aquilani.

Il tempo dei reali, drammatici problemi irrisolti, sarà galantuomo. L’Aquila spiumata, nel frattempo, dopo essere stata a guardare, dovrà provare se non a volare, almeno a rialzarsi e camminare. Orgogliosamente da sola: senza l’aiuto di tarlate stampelle. P. S. Cosa si sarebbe dovuto fare? 1) Tempestiva messa in sicurezza di tutti gli edifici del Centro storico, antico in particolare; 2) forza d’urto finanziaria per le immediate riparazioni degli edifici classificati A, B, C; 3) collocazione delle casette in legno fisse e mobili nelle vicinanze della città e dei borghi; 4) realizzazione di campus universitari diffusi nel territorio al posto di una buona parte delle little towns residenziali. Ad ammonirci è il solo buon senso: se si fosse perseguita questa strategia alternativa, così com’è stata già positivamente sperimentata per i terremoti del Friuli e dell’Umbria, per L’Aquila spiumata sarebbe stata tutta un’altra storia….

Di Antonio Gasbarrini - Critico d’arte – Art Director del Centro Documentazione Artepoesia Contemporanea Angelus Novus, fondato nel 1988 (L’Aquila, Via Sassa 15, ZONA ROSSA). Attualmente “naufrago” sulla costa teramana.

 

illustrazione: L’anatra,la morte e il tulipano - di Wolf Erlbruch


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