Missione a New York, tra teatri conferenze e Columbus day

di Goffredo Palmerini

21 Ottobre 2010   10:01  

E’ sempre intrigante passare alcuni giorni a New York, o meglio a Manhattan, il suo cuore vero. Capitarvi poi d’autunno, con il tempo ancora bello, con il cielo terso, quando ottobre regala ancora scampoli d’estate, è davvero una fortuna. Ho ricevuto un invito dell’Italian Heritage & Culture Committee di New York, nell’ambito delle manifestazioni per il Mese della Cultura italiana che si tiene nella Grande Mela in ottobre. Dovrò parlare dell’Aquila e dell’Abruzzo, verrà presentato il mio ultimo libro “L’Aquila nel Mondo” (One Group Edizioni, 2010). Vi arrivo l’8 ottobre, venerdì, di primo pomeriggio. In aeroporto le operazioni sono sollecite al banco d’immigrazione. Un poliziotto ispanico provvede alla consueta foto del volto e alla schedatura delle impronte, dapprima l’intera mano destra, poi i pollici. In poco più di mezz’ora dall’arrivo si ritira il bagaglio e si va in taxi nella City, al 145 West della 55^ Strada, tra Sesta e Settima Avenue. Mi aspetta un grande aquilano, Mario Fratti, a casa sua. E’ un po’ insolito che alle quattro del pomeriggio sia in casa. Conosco le sue abitudini. A mattino scrive e cura la corrispondenza. Di primo pomeriggio esce, per rientrare a tarda sera. Frequenta incontri culturali, poi va a teatro, uno o due spettacoli a sera. A fine settimana ne fa una rassegna critica per l’edizione domenicale di America Oggi, il più diffuso quotidiano italiano negli States. Oggi sta facendo un’eccezione, per il mio arrivo, mi ospita a casa sua. Non occorre molto per descrivere quanto questo “giovane” di 83 anni, pieno d’interessi e d’entusiasmo, sia figura di rilievo nel mondo della cultura nella Grande Mela. Lo intuivo, ma ne ho conferma sin da quando suono alla sua porta, un attico al quindicesimo piano d’un palazzo primo Novecento in mezzo ai grattacieli, confinante con una bella moschea ora trasformata a teatro, e vicino del Carnegie Hall, uno dei più prestigiosi templi della musica.

Mario Fratti mi viene ad aprire, mi abbraccia, si scusa perché sta dando un’intervista nel suo studio. Sta per finire, dice, e m’indica le scale per il piano di sopra. Il telefono squilla in continuazione, sembra quello d’un ministero. Sarà così per tutti i dieci giorni che rimango. La mia stanza dà su uno splendido terrazzo, con piante e fiori. Intorno s’ergono svettanti le pareti vetrate dei grattacieli, salvo nel lato che prospetta sulla sua strada. Come sempre il drammaturgo mi raccontava, posso guardare le finestre dell’appartamento gemello abitato da Tennessee Williams fino alla sua scomparsa, nel 1983. Si salutavano, i due scrittori, con un cenno di mano quasi ogni mattina. Mi troverò bene qui, non solo per la bella casa dalle pareti rivestite di libri e opere d’arte, pittura moderna e informale, e da una serie infinita di diplomi, pergamene e riconoscimenti, in ogni lingua. Molte le sculture, bronzetti sopra tutto, collezioni di cavalli in miniatura, cineserie e ninnoli vari. Poi tante aquile di bronzo, in tutte le fogge. Lo sapevo che aveva questa passione, gli ricordano la sua città, L’Aquila, dove è nato il 5 luglio 1927 e dove è tornato “ufficialmente” nel 2007 per l’ottantesimo compleanno, la giornata più bella della sua vita - dice sempre - festeggiato nell’Aula consiliare di Palazzo Margherita d’Austria, con una festosa cerimonia approntata da Comune, Provincia e dal Teatro Stabile d’Abruzzo. La mia camera, si fa per dire, è parte di questa straordinaria casa museo. C’è un pianoforte a coda, sul coperchio un bronzo ben fatto che raffigura il volto dello scrittore, altre piccole sculture ed una foto con Katryn Hepburn mentre prende lezione da un’insegnante, la moglie dello scrittore, una pianista russa scomparsa prematuramente. Ancora tele, libri, cimeli, locandine, manifesti,. Tutto documenta la vita e la storia d’uno scrittore giramondo. Sì, perché le sue quasi novanta opere teatrali, tradotte in ventuno lingue, sono rappresentate in seicento teatri di tutto il mondo. Spesso Fratti va all’estero, per assistere ad una sua prima o per tenere conferenze sul teatro. Ha lasciato ormai l’insegnamento universitario, tenuto sin dal 1963 quando arrivò in America, dapprima alla Columbia University e poi all’Hunter College. Contrariamente a quanto accaduto anche a sommi autori di teatro, il cui valore fu riconosciuto tardi o persino dopo morte, Mario Fratti fu subito apprezzato, con un’escalation di consensi culminata con Nine, l’opera diventata musical di successo con migliaia di repliche, ora diventato un film che allo scrittore non piace proprio, perché il regista Rob Marshall ha malamente manomesso il suo testo, privandolo degli aspetti più creativi.

Fratti ha concluso l’intervista, possiamo uscire per una rapida cena, perché alle otto comincia Trio, spettacolo con tre suoi atti unici al Theater for the New City, sulla Prima Avenue, nel Village. E’ il mio battesimo teatrale nella Grande Mela. L’altra volta, sei anni fa, con Mario andammo a vedere due musical, Chicago e Aida. Il suo trio è costituito da “Anniversario”, “Missionari” e “Cecità” che in questa sequenza vedo. "Anniversario": un ricco industriale (Patrick Mc Carthy) ha perduto sua figlia, vittima della droga. Invita ogni anno, data del compleanno, una giovane donna per rivivere i suoi momenti con la figlia. L’invitata (Jennifer Loryn) sta al gioco. Il dialogo è intenso, pieno di sottintesi e mistero. C'è anche un giovane domestico afro-americano (Sean Phillips) che osserva in silenzio. Scopriamo alla fine esserci un complotto trai due per uccidere l'anziano milionario, dopo che questi ha lasciato alla ragazza l'eredità. Sorpresa finale, come sempre nei drammi di Fratti. "Missionari": il giovane sacerdote Edwards (il convincente Chris Kerson) ha dubbi sulla sua missione in Africa. Si confida con la severa Madre Superiora (Rose Gregorio). Viene rimproverato anche perché ama una giovane suora. Tragica rivelazione su quanto è accaduto alla religiosa. "Cecità'": l'avevo già visto a Roma, al Teatro dell'Orologio, alla sua prima in Italia. Lo rivedo con interesse, anche per l’essenziale allestimento di scena. Il dramma ci mostra una famiglia americana che ha perduto un figlio nella guerra in Iraq. Brian (Brendan Mc Donough), il migliore amico della vittima, è ora cieco per una ferita di guerra. Torna in quella casa insieme alla fidanzata Cathy (Rachael Mc Owen). Va per raccontare le loro azioni belliche in quella terra disperata. Il padre del deceduto (Joe Ambrose), un veterano, è orgoglioso d’un figlio che ha sacrificato la vita per la nobile causa di portare la democrazia dovunque l'America decida d'intervenire. E' un guerriero, reduce dal Vietnam, fiero d’aver eliminato decine di nemici. Il fratello del soldato morto in Iraq è Dan (Billy Marshall jr), che è invece un pacifista, come sua madre e sua sorella, inconsolabili. Si scopre alla fine una tragica verità. Brian rivela che il commilitone non è morto eroicamente, ma si è suicidato. Ottima la regia di Stephan Morrow nelle asciutte ma belle scene di Mark Marcante. Buoni gli effetti di luce di Alex Bartenieff. Tutto ben costruito, insomma, e sorprendente. Come sempre Mario Fratti riesce a stupire. E’ questa la sua straordinaria cifra di scrittore.

Sabato vado al John D. Calandra Italian American Institute, del Queens College, sulla 43^ Strada, per salutare Letizia Airos. Lì ha sede la testata multimediale i-Italy.org, che Letizia dirige, avanzato esperimento di giornalismo e di cultura italoamericana. Mi viene presentato il prof. Anthony Tamburri, direttore del Calandra Institute, nome di spicco nel mondo culturale newyorchese. Domenica pomeriggio, ancora a teatro. Al LaMama, sulla 4^ Strada, vado per “I fioretti in musica”, rivisitazione della vita di San Francesco ambientata a New York, in un convincente mix di musiche, canto a cappella su antichi fioretti francescani (bravissimi i cantori: tenore, due baritoni, una mezzo-soprano, un controtenore), recitazione muta e danza. Belle le scene. Vi recita Silvia Giampaola, aquilana, ancora per qualche settimana responsabile del dipartimento di Musica, Teatro e Danza all’Istituto italiano di Cultura. A fine mese lascerà New York per andare in Grecia, all’Istituto di Cultura di Atene. Lo spettacolo è originale, suggestivo. Silvia va alla grande sulla scena. Ha il teatro ha nel sangue, d’altronde, ereditato dal papà Giuseppe Giampaola, fondatore nel 1963 del Teatro Stabile dell’Aquila, con Luciano Fabiani ed Errico Centofanti. Rappresentazione piacevole, molti gli applausi. Coreografie di Philip Montana e regia di Gian Marco Lo Forte. A sera Silvia ci ospita nel suo magnifico appartamento al 44° piano. Dalle sue finestre si vedono i profili dei grattacieli con le finestre illuminate, fino a Wall Street, mentre l’Empire State Building lì vicino domina con la sua guglia illuminata. Parliamo dell’Aquila - lei, Mario ed io - agli altri amici curiosi di notizie, specie un giornalista australiano. L’ospite è eccellente, oltre che brava attrice.

Lunedì è l’11 ottobre, però sulla Fifth Avenue si tiene la parata del Columbus day, anticipata d’un giorno per ragioni organizzative. Ne avevo avuto percezione già domenica mattina, uscendo dalla Cattedrale di St. Patrick dopo la messa, quando già si sistemavano le transenne lungo il percorso. C’è sempre attesa per la parata. Fu un intraprendente italiano, Generoso Pope, il 12 ottobre 1929, a dare inizio alla tradizione con una sfilata da East Harlem a Columbus Circle, all’angolo sud di Central Park. Da allora è cresciuta, fino alle attuali dimensioni. Sono uscito presto, per guadagnare una buona postazione, di fronte alla Trump Tower. E’ il giorno dell’orgoglio italiano nella Grande Mela, come in tutti gli States. Si sfila dalla 44^ fino alla 79^ Strada, un bel percorso. Resto in piedi per quasi cinque ore, ma questa festosa esibizione dell’italian pride vale proprio la pena di godersela tutta, fin oltre le tre del pomeriggio. In tre ore e mezza sfilano 35 mila persone, questi i numeri a consuntivo. Cento bande, tra quelle militari, dei corpi di polizia e dei pompieri, poi delle Scuole Superiori e di qualche università. Bellissime e gaie nelle loro divise, tra esse anche un paio di fanfare di cornamuse, con musici dall’immancabile gonnellino a scacchi. Ma un’eccellente figura la fa la nostra Banda dei Carabinieri in alta uniforme, che ruba applausi a scena aperta. Il giorno precedente aveva fatto un’apprezzata uscita musicale a Times Square, l’indomani terrà un concerto al Palazzo di Vetro dell’Onu, per richiamare l’impegno dei Carabinieri italiani all’estero in missioni di pace. A me la scena dà una certa emozione. Il pubblico si diverte, applaude, si stima un milione di spettatori.

La parata, aperta da una smagliante star televisiva con la fascia di Grand Marshal, Maria Bartiromo, mostra una sequela di personaggi, a cominciare dal sindaco di New York, Michael Bloomberg, quindi il Console generale Francesco Maria Talò, i parlamentari italiani eletti nella Circoscrizione estero centro-nord America, Basilio Giordano e Amato Berardi, la delegazione del locale Comites, il presidente della Columbus Citizens Foundation, Frank Fusaro, con i suoi collaboratori. Poi i candidati alla carica di governatore, Mario Cuomo per i democratici e Carl Paladino per i repubblicani, e il candidato al Senato, Joseph Dioguardi, nelle prossime elezioni del 2 novembre. Tutti con seguito dei rispettivi comitati elettorali, trapunti di tricolore. Sfila il commissioner dei Vigili del Fuoco di New York, Salvatore Cassano, di origini napoletane, che conobbi nel 2004. Segue una lunga serie di delegazioni in divisa: pompieri, vigili urbani, poliziotti, doganieri, sceriffi, e quant’altri, tutti d’origine italiana, a dimostrazione della profonda penetrazione nel tessuto civile della Grande Mela e del prestigio che la nostra comunità s’è conquistato. D’altronde, se ci fosse ancora qualche dubbio, lo sgombrano in corteo tutti i gruppi in tricolore delle innumerevoli associazioni culturali, regionali, solidaristiche e massoniche, queste con tanto di grembiulino, dello stato di New York e di quelli vicini. Poi i carri simbolici trainati da potenti Suv, e le rappresentanze dall’Italia (comune di Roma, Consigli Regionali di Campania e Calabria, province di Siracusa e Benevento, qualche sindaco di paesini del nostro meridione con fascia tricolore), la troupe in costume del musical italiano “Pinocchio”, la Scuola “Guglielmo Marconi” di New York con i simboli del 150° dell’Unità d’Italia, e ancora molto, molto altro che sarebbe lunghissimo raccontare. Davvero una prova di grande orgoglio e d’attaccamento ai valori nazionali, che dovrebbe far vergognare certi personaggi della politica italiana.

E’ il 12 ottobre. Il mio Columbus day si svolge appena fuori New York, a Valhalla, al Westchester Community College, tranquilla università immersa nel verde che fa dimenticare il parossismo della metropoli. Ci arriviamo, Fratti ed io, accompagnati dall’amico Corrado Iovenitti, aquilano che vive a Larchmont, elegante cittadina fatta di ville tra i boschi. Sua moglie Diana, lei pure d’origine aquilana, lì ha fatto gli studi e conseguito la laurea. Ci accoglie il prof. Carlo Sclafani, docente di Letteratura italiana, nell’ala dell’ateneo nuova di zecca con architettura di gusto italiano. E’ una perla di struttura, ma non è dissimile dalle altre che accolgono le facoltà dell’ateneo, dodicimila gli studenti. I fabbricati adagiati sulle collinette d’erba smeraldo non superano i dieci metri d’altezza, non impattano, tutto è ordinato e pulito nei vialetti e negli ambienti interni. Diversi campi sportivi fanno da cornice, è un paradiso che invoglia allo studio. Ammiro l’ordine e la pulizia, penso alle nostre università imbrattate con lo spray. La mia conversazione, qui la chiamano lecture, si svolge nel teatro del College. Gli hanno dato il titolo: “Abruzzo comes alive”. Il prof. Sclafani e Mario Fratti mi presentano al pubblico. Parlo dell’Aquila e della sua storia, dell’architettura e dell’arte d’una città straordinaria, ricca di singolarità. L’uditorio è attento. Sono italiani, molti abruzzesi, venuti anche da diversi chilometri di distanza, legati per qualche verso all’ateneo del quale seguono le numerose attività culturali. Come questa, appunto, inserita nel programma ufficiale del Mese della Cultura italiana, quest’anno dedicato a Maria Montessori. Fratti parla della mia attività giornalistica su tante testate all’estero, del mio ultimo libro che documenta anche il dramma che ha colpito L’Aquila. Traduce poi il mio discorso in inglese, per chi non ha più molta dimestichezza con l’italiano. Seguono numerose domande, sull’Aquila del terremoto e sul futuro. Parlo dei problemi che ci assillano, ma anche delle nostre speranze e della voglia di ricostruire la città, più bella di prima. Ringrazio - anche a nome della città, in ragione dei tanti anni vissuti al suo servizio come amministratore civico - per l’affetto e la vicinanza ricevuti dalle comunità italiane nel mondo, per i gesti di solidarietà. Quell’ateneo, infatti, ha ospitato per un anno di studi due ragazze dell’Università dell’Aquila. C’è silenzio, qualche volto tradisce commozione, poi c’è un applauso liberatorio che ci unisce tutti in un abbraccio. In chiusura si fa una puntata alla sala esposizioni dell’ateneo. In mostra artisti d’origine italiana - sculture, pittura moderna, fotografia - qualità rimarchevole. Esposte opere di Linda Butti, Rose Marie Cherundolo, B.A. D’Alessandro, Annette Delucia Lieblein, Eleonor Grace, Joseph Giunta, Tony Parisi, Hank Rondina, Andrew T. Tavolario.

Il 13 ottobre incontro molte persone. Saluto al telefono Laura Benedetti, aquilana di vaglia, docente di Letteratura italiana prima ad Harvard poi alla Georgetown University di Washington. Avrebbe voluto che andassi anche alla sua università, ma è complicato ritagliare un giorno in un programma già definito. Restiamo intesi che sarà per una prossima occasione. Il 14, giovedì sera, è l’unico giorno piovoso. C’è la presentazione del mio libro “L’Aquila nel Mondo” a Casa Italiana Zerilli-Marimò della New York University. Si va in metro fino a Union Square, poi un paio d’isolati a piedi. Arriviamo a Casa Zerilli-Marimò, sede del dipartimento di Studi italiani. Con Fratti andiamo a salutare il direttore, prof. Stefano Albertini. Affabile e molto cordiale, entriamo subito in confidenza. Nel suo studio, incredibile, passa a salutarlo Gaetano Calà, amico mio di Palermo, direttore generale di Anfe Sicilia, l’associazione fondata nel 1947 da Maria Federici, della quale sono delegato regionale per l’Abruzzo. Sono sorpreso. Si ferma per assistere alla presentazione. In attesa d’iniziare l’incontro, approfitto per visitare una bella mostra su Gabriele D’Annunzio ospitata nella Casa, con molti preziosi cimeli del Vate. Arriva Letizia Airos. Alle 18 in punto s’inizia, nella sala biblioteca. Il prof. Albertini porta il suo saluto, lieto d’ospitare l’evento, inserito tra le manifestazioni approntate dall’Italian Heritage and Culture Month, presieduto da Joseph Sciame. La giornalista di America Oggi, Letizia Airos, presenta il volume del quale ha scritto la prefazione. Ne sottolinea i pregi, richiama la funzione della stampa italiana all’estero e l’opera svolta nel valorizzare le valenze degli italiani nel mondo attraverso una straordinaria rete di relazioni e corrispondenze che hanno costruito una grande comunità virtuale, alimentata giornalmente da notizie e immagini, dove ognuno ritrova i segni delle proprie radici. Particolarmente gli Abruzzesi. “Una rete che ha così potuto seguire in tempo reale i drammatici fatti del terremoto fuori dell’informazione ufficiale - afferma Letizia Airos - attraverso il racconto di Palmerini e delle altre voci che egli ha accompagnato fuori dall’Italia, offrendo uno spaccato più diretto e vicino alla realtà”. Mario Fratti, per parte sua, segnala l’impegno dell’autore nel promuovere le singolarità dell’Abruzzo e dell’Aquila attraverso puntuali articoli sulla stampa italiana all’estero, ma anche nell’esaltare il migliore Abruzzo dentro e fuori i confini. Fatto che l’ha direttamente riguardato: famoso all’estero, ma per molti anni non ritenuto profeta in patria. Una barriera che è finalmente crollata. Del libro si è poi parlato, attraverso le acute domande rivolte all’autore da Letizia Airos e poi dal pubblico convenuto. Ma si è parlato sopra tutto dell’Aquila, di quale sia l’attuale stato e quali le prospettive per l’avvenire. Tanti i luoghi comuni passati attraverso i mezzi d’informazione, come è passata l’idea che la ricostruzione sia molto avanti. Queste alcune convinzioni all’estero, ricavate specie dalla nostra televisione. Ho dovuto chiarire che così non è affatto, che ci sono problemi immani da risolvere, quantunque la fase dell’emergenza sia stata nel complesso molto efficiente, specie per la generosa opera dei tanti volontari giunti da ogni regione, che hanno offerto al mondo una stupenda immagine dell’Italia, orgoglio per ciascuno di noi e in particolare per gli italiani all’estero. Ora, però, occorre ricostruire. C’è necessità di tante risorse per far tornare allo splendore L’Aquila, città d’arte con un centro storico tra i più vasti e preziosi d’Italia. C’è necessità dell’aiuto del mondo, ma sopra tutto della vicinanza delle comunità italiane all’estero perché continuino ad interessarsi e a seguire la rinascita della città e dei borghi. La loro attenzione sarà utile a stimolare una ricostruzione sollecita e a sorvegliare, insieme a tutti gli italiani, sulla trasparenza e sul miglior uso delle risorse. La città è sana, ma vi saranno impegnate migliaia d’imprese esterne ed è necessario essere sempre vigili. E’ presente anche Valentina Fratti, regista teatrale di successo. Per L’Aquila ha scritto il dramma “Martyrs” sui 9 Martiri Aquilani, già rappresentato a New York. Lo mette liberamente a disposizione in Italia, per aiutare la città. Anche Mario, suo padre, fa altrettanto con il suo atto unico “Garibaldi”, opera assai adatta a celebrare il secolo e mezzo d’Italia unita. Una bella, intensa e magnifica serata. Il prof. Albertini ringrazia, disponibile ad ulteriori collaborazioni.

L’ultimo impegno ufficiale è per il 15 ottobre, venerdì sera, al meeting dell’Italian American Labor Council, sodalizio che raccoglie i dirigenti d’origine italiana delle Unions Trade, i sindacati americani. Ci sono anche ospiti sindacali giunti dall’Italia. Vengo accolto con calore dalla presidente Julia Bastiani e dal tesoriere Luigi La Carbonara, dai quali ho ricevuto l’invito. Partecipo alla serata di gala durante la quale, presenti il Console generale d’Italia a New York ed altre personalità della comunità italiana, vengono consegnati gli Award a coloro che si sono distinti nel corso del 2010 in vari campi d’attività (il giudice Dominic Massaro, l’imprenditore Domenico Pinto, la consigliera municipale Elizabeth S. Crowley, il presidente della Carpenter Union 926 Sal Zarzana, la scrittrice Maria Terrone e la docente Luoise Verdemare Alfano) accrescendo il prestigio della comunità e rendendo onore all’Italia. Nel mio breve intervento, dopo la cerimonia, ho ringraziato la comunità italiana, ampiamente rappresentata, per la solidarietà offerta agli Aquilani. L’Aquila mai potrà dimenticare. Ma ho anche richiamato il valore delle nostre comunità nel mondo, specchio della migliore Italia, che tanto può insegnare e tanto potrebbe essere utile al Paese oggi, se solo la classe politica italiana conoscesse certe valenze e sapesse investire sulle nostre comunità nel mondo, per un’Italia che unisse in sinergia quella dentro i confini all’altra Italia all’estero, quei sessanta milioni di connazionali che mostrano ogni giorno d’amare e rispettare la Patria molto più di chi la abita. La presidente, Julia Bastiani, ha voluto anche annunciare l’intenzione di destinare ad una prestigiosa istituzione culturale aquilana la somma raccolta tra i dirigenti del Labor Council, 10 mila dollari circa, per il restauro di due pellicole, danneggiate dal sisma, della preziosa Cineteca dell’Istituto Cinematografico dell’Aquila. Sabato e domenica ancora a New York, da turista. Lunedì il rientro in Italia. Appuntamento alla prossima missione, in Argentina, dal 26 ottobre al 6 novembre.


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