Paure e speranze dell'Aquila

di Roberto Museo

07 Aprile 2010   09:51  

Ci sono momenti, nella vita di una comunità, nei quali la storia sembra improvvisamente accelerare, determinando dei cambiamenti radicali, a volte anche drammatici, nel suo apparentemente naturale e normale decorso.
La vita vissuta prima del terremoto è un’altra vita. Trentotto secondi scuotono l’anima, cancellano il passato, i ritmi quotidiani spariscono, le certezze crollano ed è come ri – nascere. Trentotto secondi sono un’eternità e se sopravvivi con tutta la tua famiglia come è stato per me, mia moglie e i miei tre figli non sei più la stessa persona. E immerso in un profondo dolore per l’enorme prezzo pagato in vite umane, un brivido ti percorre la schiena: L’Aquila si è sacrificata nella notte della Domenica delle Palme del 6 aprile 2009!

E tornano alla mente le parole di Giorgio La Pira nel discorso tenuto a Firenze il 2 ottobre 1955 al Convegno dei Sindaci delle capitali di tutto il mondo: “Le città hanno una vita propria: hanno un loro proprio essere misterioso e profondo: hanno un loro volto: hanno, per così dire, una loro anima ed un loro destino: non sono cumuli occasionali di pietra: sono misteriose abitazioni di uomini e più ancora, in certo modo, misteriose abitazioni di Dio: Gloria Domini in te videbitur. La nostra disattenzione a questi valori di fondo, che danno invisibilmente ma realmente peso e destino alle cose degli uomini, ci ha fatto perdere la percezione del mistero delle città: eppure questo mistero esiste e proprio oggi – in questo punto così decisivo della storia umana – esso si manifesta con segni che appaiono sempre più marcati e che richiamano alla responsabilità di ciascuno e di tutti.” Parole profetiche anche per la città di Federico e di Celestino dove il terremoto non ha distrutto solo le case, le chiese, le scuole, l’università ma ha, soprattutto, lacerato il tessuto sociale della città, di cui è ancora un simbolo paradigmatico, a circa un anno dal sisma, la disgregazione della popolazione aquilana nel territorio regionale ed extra-regionale.

Questa dispersione della popolazione porta con sé il rischio concreto di compromettere le condizioni stesse che rendono possibile il vivere civile di una comunità. Mancano, infatti, non solo i luoghi ma i tempi stessi, i momenti, le occasioni per incontrarsi, conoscersi e tornare a vivere insieme.
In questa situazione così lacerata e disgregata, lo sconforto e la disperazione possono impadronirsi della coscienza individuale e collettiva, mettendo a rischio la sopravvivenza della città nel suo essere comunità civile ed anche religiosa, che non solo condivide una storia antica e prestigiosa, ma è soprattutto capace di pensare insieme un futuro comune.
In particolare i giovani, che si trovano a vivere la fase più delicata e decisiva della loro maturazione e crescita personale, possono indelebilmente risentire di questa situazione di incertezza, di precarietà, di oggettiva difficoltà.
Ma anche questa volta L’Aquila saprà ritrovare la forza per vincere le sue paure, coltivare la speranza e continuare a operare secondo ideali di giustizia e di bene comune.

La città e le differenze

Il terremoto ha costretto la città ad aprire le porte che un tempo la proteggevano e che sono state attraversate dal fiume di solidarietà dei migliaia di volontaria venuti da tutta l’Italia ma anche da tante differenze disorientanti. Questa apertura forzata della
città, oggi disarticolata nei 19 nuovi quartieri dormitorio, corre il rischio di spersonalizzarla e far sentire ogni soggetto che vi entra isolato.
Si evidenzia perciò, oggi come non mai, la difficoltà della gestione della città e del suo governo politico, e può nascere la tentazione di gestire la città limitandosi a tenere separate le parti che in essa convivono mediante una specie di paratie tecniche.
Ma così la città muore e soprattutto muore il suo compito di custode della pienezza dell'umano, per cui essa era nata.
La forza dell’Aquila sta quindi nel ritrovare una solida identità e la capacità di integrare il nuovo di buono che viene da fuori, rimuovendo senza alcuna eccezione il nuovo (spesso legato alla città preesistente) che si muove nella illegalità e nella corruzione.

La città e i fragili

Ed è soprattutto ai fragili che va il nostro pensiero che sono in forte aumento se è vero che gli effetti psicologici di un terremoto si manifestano a distanza di circa un anno dall’evento. E ad una crescente fragilità di natura psicologica si somma la fragilità economica in cui vivono oggi molte famiglie prive del lavoro di un tempo.
Ed è inutile illudersi: la storia insegna che quasi mai è stato il pane ad andare verso i poveri, ma i poveri ad andare dove c'è il pane. "Scegliersi l'ospite è un avvilire l'ospitalità", diceva Sant’Ambrogio. Saprà L’Aquila riscattarsi con il terremoto e trovare politici al servizio dei più deboli piuttosto che dei più forti?. E questo non è un interrogativo vagamente moralistico, ma ha efficacia politica. La paura che si
respira si può vincere con un soprassalto di partecipazione civile, non di chiusure paurose; con un ritorno ad occupare attivamente il proprio territorio e ad occuparsi di esso. Chi si isola è destinato a fuggire all'infinito, perché troverà sempre un qualche disturbo che gli fa eludere il problema della relazione.

La città dei virtuosi e degli onesti. Giacinto Dragonetti, marchese aquilano della prima metà del XVIII secolo, è l’autore di un piccolo libro Delle virtù e dè’ premi, che riscosse un significativo successo nell’ Europa del settecento. Nell’introduzione del libro si legge “Gli uomini hanno fatto milioni di leggi per punire i delitti, e non ne hanno stabilita pur una per premiare le virtù”. Dragonetti crede che puntare solo sulla punizione dei delitti non sia sufficiente per far avviare una Città su una via di sviluppo civile ed economico.
La virtù invece è associata alla ricerca diretta e intenzionale del Bene Comune al di sopra del bene proprio. Occorrerà investire in tal senso sulle nuove generazioni per formare una nuova classe imprenditoriale dell’Aquila capace di immaginare un  futuro migliore e che abbia come DNA quello della grande virtù della speranza che richiede forza morale di non soccombere di fronte alle prove e andare avanti. Ma la
speranza, che è virtù anche economica, nasce e si alimenta nella società civile e nella vita della polis. Per questo la politica dovrebbe avere il coraggio di investire con forza per uno sviluppo di un’economia sociale dove il mercato non si identifica con il luogo della ricerca degli interessi personali o del profitto, ma è luogo di incontro tra persone convinte che “l’attività economica non può prescindere dalla gratuità”,
come fortemente espresso da Benedetto XVI nella sua enciclica Caritas in Veritate.

Sarà allora possibile passare dallo sciacallo speculatore all’imprenditore civile e all’imprenditore sociale a servizio della comunità.
Occorre pertanto un arduo e urgente compito culturale - che accomuna la Città con le sue decisioni politiche e la Chiesa con la sua funzione formativa – per innescare un movimento di restituzione di stima sociale e di prestigio al comportamento onesto e altruistico al fine di generare quel capitale sociale, relazionale e spirituale che sono la ricchezza di un popolo. Rivedendo magari, se del caso, i criteri con i quali la società -
e magari anche la Chiesa - concedono favore e attenzione, criteri che troppo spesso premiano i potenti di questo mondo.

La città e il nuovo patto sociale

La città evidenzia le differenze e stimola la politica al suo ruolo principe di promozione dei diversi, in modo particolare dei più umili fino a che possano raggiungere una uguaglianza sostanziale. Se compito della città è la promozione di tutti gli uomini, questo si realizza con scelte preferenziali storiche costose. Solo queste costruiscono un costume utile alla promozione della moltitudine, e non si limitano a lasciare a gesti di sensibilità individuale, peraltro sempre meritori, la creazione d'una città amabile.

Occorre tra tutti gli attori della nuova Aquila un patto sociale che poggi sui pilastri della responsabilità e della sussidiarietà.
Una città responsabile dove i cittadini tornino a rioccupare il centro della scena politico, economico, sociale e religiosa pronti a sporcarsi le mani piuttosto che ad alzarle dicendo l’incivile frase “non sono io il responsabile”.
Una città della sussidiarietà declinata nella frase ascoltata da monsignor Brigantini “Solo tu puoi farcela, ma non puoi farcela da solo”. Siamo convinti che la città di Federico e Celestino, che ha nella Perdonanza la sua forza etica e morale, potrà trovare le modalità di una traduzione civile, partecipata e corretta delle emergenze sociali, economiche, religiose che si trova ad affrontare e, nel contempo, a trovare soluzioni nel segno della carità e della verità.

Roberto Museo, direttore coordinamento nazionale dei Centri di Servizio per il  Volontariato (CSVnet)

IL SITO DEL CENTRO SERVZI VOLONTARIATO DELL'AQUILA

 


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