Pensare la ricostruzione. La fragile anomalia abruzzese

Di Pierluigi Sacco - parte prima

10 Settembre 2010   12:01  

Del professor Pierluigi Sacco avevamo pubblicato già una analisi critica puntuale ed articolata, del Piano strategico per la ricostruzione.
Proponiamo ora a puntate un lungo e illuminante saggio dedicato alla ricostruzione aquilana nel suo complesso, nella convinzione che l'errore fatale che si può commettere oggi a L'Aquila è quello di avviare una ricostruzione senza pensiero e strategia. La ricostrzuione ha cioè bisgogno di politica, nel senso altissimo del termine.

Pier Luigi Sacco è professore ordinario di Economia della Cultura presso l'Università IUAV di Venezia, dove è anche direttore del Dipartimento delle Arti e del Disegno Industriale (DADI) e pro-rettore alla comunicazione e alle attività editoriali. Insegna anche presso l'Università "G. d'Annunzio" di Chieti-Pescara e ha insegnato nelle Università Bocconi di Milano, Firenze, Bologna, e presso la Johns Hopkins University, Bologna Center. E' direttore scientifico della Fund Raising School e coordinatore dell'area Economia della Cultura del Master in Arts and Culture Management della Trento School of Management. E' responsabile scientifico di goodwill, Bologna. Collabora alle edizioni giornaliere e al supplemento domenicale de "Il Sole 24 Ore" ed è membro del comitato scientifico o editoriale delle riviste "Etica ed Economia", "Mind and Society", "Economia della Cultura", "La nuova informazione bibliografica". E' l'autore dell'aggiornamento del lemma "Economia" per l'"Enciclopedia del Novecento" e del lemma "Economia della cultura" per l'opera "XXI Secolo" edite dall'Istituto dell'Enciclopedia Italiana.


Falso movimento?
Alcune considerazioni sulla strategia di ricostruzione in Abruzzo

Di Pier Lugi Sacco
Parte prima

"Un'ora, meno di un'ora di macchina separa l'Abruzzo da Roma; e tuttavia il viaggiatore ha la sensazione acuta di qualcosa di distante, distaccato, anche estraneo...Ma, esiste l'Abruzzo? La mia impressione è che vi sia nella situazione dell'Abruzzo un che di paradossale, forse unico in Italia".
Giorgio Manganelli, "Lenta ostinazione del tempo"  

L‘anomalia abruzzese: una eccezione destinata a rientrare?

Il terremoto del 6 aprile 2009 - e tutto lo sciame di eventi sismici che ha preceduto e seguito quella fatidica data - costituisce l'ultimo, traumatico evento di una lunga serie che, negli ultimi anni, ha progressivamente minato la relativa eccezionalità della vicenda di sviluppo abruzzese, mettendo a repentaglio le conquiste economiche e sociali ottenute nel corso di decenni. L'Abruzzo rappresenta
una situazione anomala nel contesto italiano, per svariate ragioni.

La prima, e più evidente, è quella storico-geografica: pur appartenendo geograficamente all'Italia centrale, nell'Italia pre-unitaria la regione ha fatto parte dello stato Borbonico e quindi si è caratterizzata, in senso socio-economico, come parte del Mezzogiorno. Ma si tratta di una condizione ibrida: non a caso, e si tratta di una situazione unica tra le regioni italiane (con la parziale eccezione del Molise che, a lungo accomunato all'Abruzzo in un unico organismo regionale, è soggetto alle stesse incertezze sia pure con una più marcata connotazione ‘meridionalistica'), la regione viene di volta in volta inclusa nell'aggregato dell'Italia centrale o meridionale a seconda dei diversi criteri di classificazione adottati.

Se all'inizio del secondo dopoguerra l'Abruzzo era, al di là delle caratteristiche geografiche, senza dubbio una regione del sud - povera, arretrata, fortemente agricola e poco urbanizzata - nel corso degli anni del boom economico e più ancora con gli anni settanta e ottanta la regione ha fatto registrare ritmi e qualità di sviluppo abbastanza sorprendenti, arrivando ad affrancarsi rapidamente dalle trappole del sottosviluppo locale che hanno penalizzato e spesso ancora penalizzano tante altre realtà del Mezzogiorno italiano e persino ad uscire tempestivamente - ben prima delle tempistiche dettate dall'allargamento comunitario - dal novero delle regioni ‘Obiettivo 1' dell'Unione Europea, ovvero quelle caratterizzate da deficit sostanziali di sviluppo e quindi particolarmente bisognose di iniezioni di spesa pubblica per sostenere un dinamismo economico altrimenti precario. Le ragioni che hanno permesso un simile risultato sono molteplici.

Un buon livello di capitale sociale che ha permesso per lungo tempo di tenere a bada le infiltrazioni della criminalità organizzata.

Un uso abbastanza oculato dei fondi pubblici che negli anni della Prima Repubblica aveva dato vita ad una sorta di ‘clientelismo gentile' caratterizzato da una bassa propensione predatoria - l'Abruzzo è stato storicamente un serbatoio sicuro di voti per la Democrazia Cristiana, governato per lungo tempo da ‘luogotenenti' profondamente radicati nella cultura del territorio, che hanno saputo assicurare nel tempo un flusso di risorse per gli investimenti infrastrutturali largamente superiore al peso economico-politico della regione, e che in assenza di gravi infiltrazioni criminali sono state per lo più realizzate in tempi e modi congrui.

Una particolare conformazione geografica che racchiude in pochi chilometri mare, collina e montagna di qualità, per lungo tempo relativamente ben conservate, nonché alcune delle più e importanti e incontaminate riserve naturali dell'intero paese. Una buona combinazione di alta qualità e basso costo della vita, in
un contesto sociale caratterizzato da una forte cultura dell'ospitalità e da un basso livello di conflitto.

Un buon livello di capitale umano, con tassi di scolarizzazione superiore tra i più alti del paese. Insomma, una regione per lo più immune da molte delle laceranti contraddizioni che hanno afflitto e affliggono gran parte del nostro Mezzogiorno. Anche dal punto di vista economico, l'Abruzzo ha trovato spunti degni di nota. Nel momento d'oro dell'Italia dei distretti, soprattutto le valli a nord della regione, al confine con le Marche, hanno saputo inserirsi nel nuovo modello di sviluppo locale, cogliendone le opportunità.

Altri poli di sviluppo si sono creati nella Val Pescara, nell'area di Vasto-San Salvo, e in alcune aree dell'Abruzzo interno che per una significativa stagione sembravano riuscire a cogliere i vantaggi della delocalizzazione, ospitando persino poli della ricerca e dell'alta tecnologia.

Sembravano dunque esserci tutte le condizioni per portare definitivamente l'Abruzzo nell'orbita delle aree più avanzate e promettenti del paese, nella scia del percorso compiuto dal suo dirimpettaio settentrionale, le Marche appunto, che soprattutto nella seconda fase dell'era distrettuale avevano saputo affermarsi come il ‘nuovo Veneto', ovvero come il nuovo campione della ‘via Adriatica' alla prosperità.

La storia più recente, tuttavia, sembra aver sostanzialmente tradito queste aspettative, facendo riemergere debolezze e contraddizioni mai completamente superate. In primo luogo, il forte dualismo territoriale della regione, che contrappone la costa all'interno, caratterizzati da modelli culturali e climi sociali molto diversi tra loro. Poi, la debolezza della cultura imprenditoriale della
regione, che ha prodotto buoni risultati nella fase di crescita caratterizzata da buoni margini competitivi, ma che ha rivelato tutta la sua fragilità di fronte alle nuove sfide imposte dall'accelerazione della competizione globale.

Ancora, il relativo cedimento delle forme di controllo sociale del territorio, che ha aperto spazi sempre più ampi alla penetrazione di una criminalità organizzata ‘esogena', estranea cioè alla cultura locale, ma non per questo meno aggressiva e pericolosa.

E inoltre, la scarsa capacità di sfruttamento di una localizzazione geografica potenzialmente strategica, all'intersezione tra la dorsale adriatica, della quale la principale area urbana della regione, il sistema Pescara-Chieti, costituisce una sorta di centro geografico ideale (e non a caso Pescara si ritrova dotata di una stazione ferroviaria di dimensioni paragonabili a quelle delle principali città del paese), e l'asse orizzontale Pescara-Chieti/Roma (reso possibile più dalla grande e moderna arteria autostradale che da un sistema ferroviario vecchio e inadeguato).

L'inesorabile spopolamento delle aree interne, con la progressiva erosione di culture e sistemi sociali di lunghissima tradizione. La divisione un po' artificiosa, chiaro frutto di un compromesso politico con poche alternative, delle funzioni di governo del territorio tra L'Aquila e Pescara: il capoluogo ufficiale, città d'arte straordinaria ma poco popolata e tenuta in vita sostanzialmente dalla concentrazione delle funzioni amministrative e dal polo universitario, e il capoluogo ‘reale' per demografia, peso economico, dinamismo sociale.

Ma il principale problema irrisolto, quello da cui discendono, di fatto, tutti gli altri, quello che racchiude in sé tutte le possibili contraddizioni, è quello dell'identità. Un problema sottile, apparentemente astratto e inafferrabile, ma dalle conseguenze gravi e decisive. Prima della tragica notte del 6 aprile 2009, infatti, l'Abruzzo era, per molti italiani, una specie di ‘terra incognita'.

Chi scrive ha ad esempio pazientemente verificato negli anni che anche sui media principali e più accreditati, una città di medie dimensioni come Pescara, come si è detto la più rappresentativa della regione per abitanti, economia, vita sociale e culturale, veniva regolarmente collocata nelle Marche oppure nel Molise. Un ‘buco nero' nella percezione collettiva.

Una regione lontana dalle cronache della quotidianità, nella quale ‘non succede nulla' degno di nota. Per certi versi, una regione insulare, pur non essendo un'isola: una caratteristica che in gran parte ha contribuito a preservarne la qualità paesistica.

Una regione centrifuga, i cui flussi principali vanno cioè dal centro verso e
oltre i confini: Pescara per la fascia costiera, Roma per l'interno centro settentrionale, Napoli per l'interno meridionale.

A questa carenza di percezione esterna non si contrappone, come avviene invece in altre regioni ‘al margine' come ad esempio la Sardegna, una identità culturale forte e consapevole, ma al contrario una speculare auto-percezione di irrilevanza e di marginalità, che si frammenta disciplinatamente in poche, deboli anime: il tradizionalismo nostalgico, il provincialismo auto-referenziale e qualche
momento intenso ma episodico di sperimentazione cosmopolita.

Nel momento d'oro della regione, quello in cui il ‘grande salto' sembrava possibile e addirittura a portata di mano, è stata questa debolezza identitaria ad incanalare la regione verso una traiettoria di tranquilla mediocrità piuttosto che verso il perseguimento di obiettivi più ambiziosi: sembrava quasi che un destino diverso fosse fuori dalla portata di un territorio che sembrava fatto apposta per esistere al di fuori dei riflettori.

Ma la conseguenza di questa scelta è stato un lento ma inesorabile scivolamento all'indietro: nelle logiche dello sviluppo locale, purtroppo, chi non cerca di correre non resta sul posto, ma arretra.

E così, nel giro di pochi anni, l'Abruzzo si è trovato a sperimentare una nuova stagione di recessione e deindustrializzazione, soprattutto nella parte interna, con il venire meno degli incentivi economici che avevano reso inizialmente possibili le scelte delocalizzative delle grandi aziende settentrionali e straniere, un crescente degrado della qualità amministrativa che ha portato all'interruzione anzitempo del mandato del governatore regionale e, in rapida successione, del sindaco di Pescara,
una sempre più chiara difficoltà di valorizzazione della qualità ambientale all'interno di un modello sostenibile di attrazione turistica e residenziale, con un conseguente presidio sempre meno efficace di quest'ultima: un chiaro segno di circolo vizioso dello sviluppo, di qualità e segno opposto a quello che aveva caratterizzato la stagione dorata della regione.

Questa prospettiva poco confortante, che preesiste ai fatti tragici del terremoto, è anche il risultato di molte occasioni perdute: l'ultima della quale è quella dei Giochi del Mediterraneo 2009 di Pescara, un evento che, inserito in una adeguata prospettiva di pianificazione strategica, avrebbe potuto contribuire in modo significativo a rafforzare la visibilità internazionale dell'Abruzzo e a migliorare la dotazione infrastrutturale del territorio, e che, dopo una lunga e sofferta vicenda di tensioni e conflitti istituzionali, saliti spesso alla ribalta della cronaca locale, si è risolta in un evento in tono minore la cui eco mediatica si è essenzialmente concentrata sui toni pietistici del post-terremoto e che lascerà ben poche tracce sulle traiettorie di sviluppo di medio e a maggior ragione lungo termine.

E in effetti uno degli esiti più dolorosi e laceranti del terremoto può essere proprio il fatto che una  regione dall'identità debole possa finire per acquistare, nella percezione comune, una sua dimensione soprattutto in termini di un evento tragico, diventando cioè ‘la' regione terremotata, che ora tutti conoscono e sanno collocare, ma per ragioni che hanno poco a che fare con la capacità di esprimere un progetto di futuro, e anzi, al contrario, proprio per le ragioni che più direttamente lo
minacciano.

La catastrofe del terremoto si inserisce dunque in un quadro già in via di compromissione, e rischia di amplificarne la portata in modo preoccupante. Gli anni che verranno saranno quindi decisivi per capire se l'eccezione abruzzese è in via di ridimensionamento, avviando un ciclo di ‘ri-meridionalizzazione' della regione, ovvero se, al contrario, i tragici eventi dello scorso aprile avranno almeno dato al territorio una scossa capace di riattivarne le energie e le capacità progettuali che nel tempo si erano appannate.

Qualunque ragionamento sulle strategie di ricostruzione deve dunque partire da una precisa consapevolezza della situazione preesistente al terremoto, per evitare alcuni errori di prospettiva che rischiano di vanificare ogni sforzo e anzi di esasperare le contraddizioni già esistenti. (Segue)

 

 


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