"Per fare memoria, con amore appassionato", il messaggio dell'Arcivescovo a 8 anni dal sisma

05 Aprile 2017   10:02  

Per celebrare questo ottavo anniversario del sisma non basta la rievocazione del dramma accaduto e delle 309 vittime che ha trascinato con sé. Ognuno di quei volti resta impresso per sempre nella memoria della nostra gente, perché disegnato sul cuore con i colori indelebili dell’amore. La ricorrenza odierna non si limita a ricordare un evento disastroso, lasciato però definitivamente alle spalle, perché, come tutti sanno, le sequenze di scosse, che si sono susseguite dal 24 agosto 2016 fino a poche settimane fa, hanno riportato l’esperienza del terremoto di lacerante attualità e, in popolazioni-sorelle, a noi vicine, hanno provocato un’altra angosciante scia di morte.

Sappiamo che, oltre a quelle “geologiche”, esistono anche “faglie” psicologiche e sociali: “sismiche” pure esse! A lungo andare, possono generare la “sindrome del terremoto”, che “carica” negativamente il sistema emotivo della gente e attiva reazioni eccessive e disadattanti.

L’incertezza, come nube tossica, rischia di avvolgere l’esistenza (individuale e collettiva), rendendola precaria; così come, l’esposizione   rischio imprevedibile e incombente può provocare un “effetto-eclisse” sull’avvenire, facendolo apparire oscuro e inaffidabile.  

Leggendo un articolo sulle “lesioni psichiche” provocate dall’ “impatto-terremoto” nel vissuto personale e comunitario di tante persone, ho trovato una riflessione incisiva, che cito per intero: «L’evento traumatico sconvolge, anzitutto, le normali sicurezze su cui implicitamente ognuno di noi basa la propria vita: diamo per scontato che la terra rimanga salda sotto i nostri piedi e che la casa, luogo simbolico del rifugio, ci protegga e non ci crolli addosso. In questo senso i sussulti distruttivi della terra costituiscono un’esperienza di panico totale, tanto più ardua da affrontare quando essa non rimane isolata e le scosse si ripetono per mesi. …Tutto ciò può condurre a un lacerante sentimento di smarrimento e di abbandono, che determina una frattura psichica profonda nella propria identità e nel senso della propria vita»[1].

Per questo, è di vitale importanza mantenere viva, nella popolazione, la fiamma di una “fondata speranza”, poiché, quando questa luce viene meno, l’orizzonte comunitario si annebbia e, inevitabilmente, si piomba nel buio di attese deluse e di promesse tradite.

Va pure detto che, quando è sfidato da vicende drammatiche, il cuore umano è capace di manifestare risorse nascoste e sconosciute anche a chi le possedeva. Ognuno di noi ha “miniere di bene”, depositate negli strati profondi del suo cuore. E spesso i fatti che determinano “crepe”, nella struttura mentale e affettiva, fanno emergere queste ricchezze depositate nei sotterranei dell’anima. Talvolta, capita pure che ad essere portati in superficie siano filoni di ribellioni scomposte e di depressi cedimenti al destino.

Gli eventi accaduti (e i ricordi che li accompagnano) vanno immersi nel dinamismo trasformante della Pasqua, perché non si traducano in patologie morali, ma siano imbevuti di eternità e restino custoditi nella vittoria di Gesù sul male e sulla morte. Misteriosamente, infatti, il dolore vissuto con amore ha un valore redentivo ed è sempre fecondo di gioiose vittorie.

La sofferenza degli Aquilani non è stata vana: rifluirà, come grazia, sulla città e susciterà nuovi germogli di vita anche altrove. Non sappiamo dove e quando: ma siamo certi che sarà così.

Proprio avendo sullo sfondo delle vicende scritte dal terremoto sulle pagine della nostra storia, ho pensato il Messaggio per la Pasqua, invitando i credenti a “leggere”, secondo il Vangelo, i fatti e le stagioni che scandiscono la nostra esistenza, sapendo scoprire i “doni di Dio”, non solo nelle esperienze che rispondono ai desideri, ma anche negli episodi segnati da una sfibrante amarezza. Infatti, la Parola di Dio ci assicura che il Signore tutto fa concorrere al bene di coloro che rispondono al Suo amore (cfr. Rm 8, 28).

In questa luce, faccio mie le parole commosse recentemente pronunciate da Papa Francesco: «c’è chi si lascia chiudere nella tristezza e chi si apre alla speranza. C’è chi resta intrappolato nelle macerie della vita e chi con l’aiuto di Dio solleva le macerie e ricostruisce con paziente speranza»[2].

L’Aquila esce rafforzata dalla prova: come un organismo che, avendo superato un evento infettivo, si dota di anticorpi e sviluppa un sistema immunitario più robusto.

La nostra gente è stata duramente colpita, ma non è stata sconfitta; ha sopportato il peso di un patibolo straziante ma non ha abbassato la testa. Testimonia, con fierezza e tenacia, che la vita, ancora una volta, ha la meglio sulla logica della disfatta e della morte.

Per questo, dalla “cattedra della croce”, portata con fedeltà evangelica, L’Aquila può offrire lezioni di coraggio e di fattiva prossimità a coloro che sono stati visitati dalle stesse ustionanti calamità.

Vista “dall’esterno”, oggi L’Aquila appare una “foresta” di gru. Questi “alberi meccanici”, che si innalzano, offrono visivamente una inedita sintesi tra il volto antico della città e le tecnologie della modernità.

La popolazione sa che la partita decisiva non si gioca solo sul terreno del semplice rifacimento murario, ma sul campo della “edificazione migliorativa” della propria identità, spirituale e sociale. Se L’Aquila vedesse ricostruiti i suoi edifici, ma non salvasse la sua cultura, cristiana e umana, cambierebbe inesorabilmente la sua fisionomia: L’Aquila non sarebbe più L’Aquila. Si trasformerebbe in una città senz’anima: un termitaio urbano.

Il compito di salvaguardare questo patrimonio straordinario, religioso e culturale, non può essere delegato ad altri: spetta a tutti gli Aquilani, nessuno escluso. Dunque a ciascuno di noi spetta l’obbligo di vigilare perché la vita di questa città cresca rapidamente, resa ancora più rigogliosa e bella dalle potature che ha dovuto subire.

Il Signore ha scritto il tuo nome sul palmo della Sua mano, L’Aquila, e si prende cura di te con tenerezza immensa. Nel Suo cuore di Padre trovano casa i tuoi vivi e i tuoi morti.

Anche io ti abbraccio con Lui! Ti voglio bene, L’Aquila!

 

 Arcivescovo    Giuseppe Petrocchi

                                                                                             


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