Rapporto Censis: ritardi nella ricostruzione dell'Aquila

05 Dicembre 2009   12:26  

Dopo il terremoto all'Aquila la gestione dell'emergenza è stata efficace, ma ci sono gravi ritardi nella ricostruzione degli edifici. Lo dice il 43esimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del paese. L'indagine promuove la sistemazione dell'alto numero di sfollati e la realizzazione delle nuove case. Ma per quanto riguarda il centro storico, spiega, e la ricostruzione cosiddetta "pesante" degli edifici distrutti o gravemente inagibili (74% del totale), si rileva un ritardo e 'quello che fino al 6 aprile era il cuore pulsante del capoluogo è ancora oggi sostanzialmente una citta' fantasma, presidiata dall'esercito e inaccessibile senza permessi'. Ecco i l passaggio integrale del Rapporto:

’' Aquila dopo il 6 aprile: problemi e prospettive. La fase dell’emergenza dopo il sisma ha riguardato la sistemazione di un numero altissimo di sfollati. La popolazione direttamente assistita dalla Protezione civile nei 6 mesi si è quasi ridotta ad un terzo, passando dalle 67 mila unità di fine aprile alle 24 mila unità di ottobre. Le tende hanno ospitato nel momento di massimo disagio circa 35 mila persone, scese a poco più di 2 mila a fine ottobre. Ma in tutti questi mesi migliaia di aquilani (erano 33 mila a maggio, sono diventati circa 22 mila ad ottobre) sono stati ospitati, al costo di circa 50 euro al giorno per persona, in alberghi e case private soprattutto della costa abruzzese. Gli alloggi stabili realizzati successivamente, da destinare alle famiglie con una casa distrutta o inagibile, sono circa 6.900 tra Map (Moduli abitativi provvisori, ovvero prefabbricati in legno destinati ai Comuni minori e alle frazioni del capoluogo) e insediamenti del progetto Case (Complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili) destinati alla città dell’Aquila. Ora gli interrogativi riguardano la fase di ricostruzione. Gli alloggi parzialmente o temporaneamente inagibili sono il 15%, ma gli edifici distrutti o gravemente inagibili nel centro storico dell’Aquila sono il 74% del totale.''

CONSIDERAZIONI GENERALI DEL RAPPORTO CENSIS 2009: SIAMO UNA SOCIETA' REPLICANTE

Viviamo in apnea, ma siamo sempre gli stessi. Leader prigionieri dell’opinionismo, tornano gli interessi agiti «in presa diretta». I processi di trasformazione che preparano il dopo: la dura ristrutturazione del terziario e il silenzioso sfarinamento del lungo ciclo dell’individualismo

Roma, 4 dicembre 2009 – La società italiana è una società testardamente replicante. Quel «non saremo più come prima» che un anno fa dominava la psicologia collettiva è mutato in un «siamo sempre gli stessi». Abbiamo resistito alla crisi riproponendo il tradizionale modello adattativo-reattivo: non abbiamo esasperato il primato della finanza sull’economia reale, le banche hanno mantenuto un forte aggancio al territorio, il sistema economico è caratterizzato da una diffusissima e molecolare presenza di piccole aziende, il mercato del lavoro è elastico (si pensi al sommerso) e protetto (si pensi al lavoro fisso e agli ammortizzatori sociali), le famiglie sono patrimonializzate. La crisi ha finito per rallentare il processo di uscita dal puro adattamento intravisto lo scorso anno, quando all’orizzonte si presentava quasi una «seconda metamorfosi», dopo quella degli anni fra il ’45 e il ’75. Sono però in corso alcuni processi di trasformazione.

La dura ristrutturazione del settore terziario. È la prima nella storia dell’Italia moderna. Lungo i tanti rivoli del confuso mondo terziario sono confluiti nel tempo servizi alle imprese sovradimensionati rispetto alle esigenze, «qualcosisti» del terziario avanzato, precari della Pubblica Amministrazione alla ricerca del posto fisso, assunzioni nella scuola per risolvere la troppo drammatizzata disoccupazione intellettuale. Il rallentamento dello sviluppo, dei consumi, delle disponibilità di spesa ha oggi ridotto quelle «cavalcate espansive». Nel terziario si affermano meccanismi di selezione e razionalizzazione, con «una concentrazione qualitativa della domanda che mette fuori gioco una parte consistente di una offerta da sempre abituata ad una falsa facilità del mercato». E nel pulviscolo di piccole e piccolissime imprese operanti nel commercio, nel turismo, nell’artigianato di servizio già si conta un rilevante numero di «vittime».

Il protagonismo del mondo delle imprese. È poi in atto un ulteriore passo in avanti nel riconoscere al sistema d’impresa un ruolo di traino e leadership complessiva della società. Il segmento più dinamico dell’imprenditoria italiana ha saputo combinare le strategie di presenza sui mercati mondiali (delocalizzazione, logistica, concentrazione sul momento distributivo, catene commerciali monobrand, privilegio del mercato del lusso e di alta qualità) con strategie innovative (velocizzazione dei tempi, capacità di giocare «fra le linee», cioè cercando spazi e varchi non usuali, attitudine ad operare anche in termini di scambi reali, talvolta assimilabili al baratto). Si rafforzano molti big player, molte medie imprese e anche una quota di piccoli imprenditori.

Il ritorno agli interessi agiti «in presa diretta» rispetto al primato dell’opinione. Gli interessi si coagulano sempre meno nella loro rappresentazione all’interno del mondo dell’opinione, cercano piuttosto una agibilità diretta nella dinamica socioeconomica. Il mondo della rappresentanza ha perso la sua carica identitaria (di classe, di gruppo sociale, di movimento) e «ritorna in piena nudità e senza pudori la seconda gamba, quella degli interessi reali». Non solo tra i big player, ma anche nelle grandi filiere (si pensi alle vicende energetiche e nucleari), nelle intese internazionali, nei territori (non a caso la cultura leghista fa «sindacato del territorio»). E irrompono anche interessi «privatistici» nel pericoloso mix fra politica e affari in delicati settori pubblici, dalle infrastrutture alla sanità.

«Viviamo in un mare tumultuoso di opinioni». Tuttavia, le componenti sociopolitiche, partitiche o giornalistiche, anche quando non cedono al degradarsi verso il gossip, restano prigioniere nell’esasperazione di un diffuso antagonismo (talvolta a forte tasso di personalizzazione) che non permette loro di uscire dal recinto dell’opinionismo. Nell’«antagonismo vissuto colpo su colpo», i soggetti politici perdono il ruolo di ricerca, sintesi interpretativa e proposta che solo può legittimarne la leadership. Non abbiamo nessuno spazio di autorità condivisa, e non bastano a restituire allo Stato autorità e fiducia isolati episodi di un buon governo del fare. «La corrosione esercitata dal primato dell’opinione ha comportato un grande deficit di interpretazione sistemica, di capacità e volontà di definire una direzione di marcia su cui orientare gli interessi in gioco».

Tre cicli al tramonto. Le tre grandi culture cui si è abbeverato lo sviluppo italiano degli ultimi centocinquanta anni sono sempre meno spendibili come fattori di mobilitazione sociale e politica. La prima è la cultura risorgimentale, quella che ha fatto storicamente l’Italia e gli italiani, per cui il futuro del Paese era legato alla centralità dello Stato come grande soggetto facitore di regole omogenee sottoposte a costante controllo e rispetto. La seconda è la cultura riformista nata nel secondo dopoguerra, per cui le classi dirigenti modificano le strutture pubbliche in risposta ai bisogni sociali. «Ma oggi chi ha bisogno di garanzie per la sua vita anziana non crede che il suo problema verrà risolto dalla riforma pensionistica, chi ambisce a dare ai figli livelli formativi competitivi non crede che servirà la riforma della scuola e dell’università, chi avverte la drammaticità della propria posizione occupazionale non crede nella riforma del mercato del lavoro, chi avverte la inefficienza degli apparati burocratici non crede che sarà una riforma della Pubblica Amministrazione a ridare agevolezza al rapporto fra cittadini e Stato». Infine, dagli anni ’70 in poi si è affermato il terzo ciclo, quello del protagonismo individuale, con la crescita esponenziale del lavoro autonomo e della piccola e piccolissima impresa, del soggettivismo nei comportamenti, della personalizzazione del potere politico, della ideologia della competizione e del mercato. Ma anche il primato della soggettività è destinato a sfarinarsi silenziosamente. «L’individualismo vitale è sempre meno capace di risolvere i problemi della complessità che lo trascende, il soggettivismo etico mostra la corda rispetto all’esigenza di valori condivisi, la spietatezza competitiva e la carica di egoismo che derivano dal primato della soggettività hanno creato squilibri e disuguaglianze sociali che pesano sulla coesione collettiva».

Cosa verrà dopo? «Nella psicologia collettiva c’è nel profondo un dolente mix di stanchezza e vergogna per i tanti fenomeni di degrado valoriale, o almeno comportamentale, che caratterizzano la vita del Paese. E c’è di conseguenza la speranza di uscirne, con una propensione a pensare al dopo, a una società capace di migliorarsi». Ma le discussioni in corso «guardano indietro», sono cioè condizionate dalla inerziale permanenza dei tre cicli precedenti, oppure «fuggono in avanti, rincorrendo una fantasmatica ipotesi di nuova ontologia», individuata talvolta nel fondamentalismo dei valori e della loro radice religiosa, talvolta nel fondamentalismo della scienza.

RAPPORTO CENSIS 2009: AUMENTA LA DISOCCUPAZIONE

Le strategie a medio termine del mercato del lavoro in affanno. Nei primi due trimestri dell’anno diminuisce il numero degli occupati (-1,6% rispetto allo stesso periodo del 2008) e aumenta contemporaneamente il tasso di disoccupazione (dal 6,7% al 7,4%). Cresce anche il numero delle persone in cerca di occupazione (+8,1%). La crisi occupazionale ha fatto sentire i suoi effetti con un’ulteriore contrazione del lavoro femminile (-0,7%). Nel Mezzogiorno si rileva un tasso di disoccupazione più alto che nel resto del Paese (12%). E si conferma la debolezza dell’Italia all’interno dell’Unione europea (tasso di occupazione al 58,7% contro il 65,9% medio dell’Ue27).

La crescita del tempo di non lavoro. Gli effetti del rallentamento dell’economia sul mondo del lavoro hanno riguardato anche la dimensione del tempo complessivamente dedicato alle prestazioni lavorative. Le ore di Cassa integrazione guadagni ordinaria passano dai 77 milioni del 2005 a 369 milioni. La Cassa integrazione straordinaria aumenta, nello stesso arco di tempo, del 162%, quella dell’edilizia del 129%. Sia nei servizi che nell’industria le ore effettivamente lavorate nelle grandi imprese diminuiscono rispettivamente del 2,4% e dell’1% tra luglio 2008 e luglio 2009. Analogamente, calano dello 0,4% sia le ore di sciopero, sia quelle dedicate al lavoro straordinario.

Il valore della risorsa umana nei processi di internazionalizzazione. Le imprese che rafforzano le strategie di internazionalizzazione investono non solo su reti logistiche e distributive nella prospettiva di conoscere meglio il cliente, ma anche sulle risorse umane utilizzate. Le imprese che hanno una significativa attività all’estero sono anche quelle che adottano più delle altre i contratti standard (il 96,6% contro il 92,5%) e meno i contratti flessibili (il 3,4% contro il 7,5%). In esse il significato stesso del salario si lega in proporzioni maggiori al concetto di valorizzazione del merito. Il personale all’estero, a parità di qualifica, viene pagato di più di quello in Italia: un dirigente che lavora in Italia guadagna poco meno di 87 mila euro annui, un dirigente di un’impresa italiana all’estero ne guadagna quasi 140 mila.

Verso una nuova previdenza per i professionisti. Anche le Casse di previdenza dei professionisti italiani, privatizzate da più di dieci anni, si stanno ponendo l’obiettivo di ripensare il loro welfare interno. Tra il 1997 e il 2009 il numero di professionisti iscritti agli Ordini e ai Collegi professionali ha conosciuto un incremento del 35,9%, passando da 1,476 milioni a 2,006 milioni (circa 530 mila nuovi iscritti), mentre nello stesso periodo l’occupazione nel nostro Paese è cresciuta solo del 14,8%. Resta auspicabile raggiungere anche le professioni senza regolamentazione che si collocano ai margini del mondo professionale ordinistico e che hanno bisogni di tutela ancora scoperti.

Le imprenditrici terziarie, fattore strategico per l’economia. Le donne imprenditrici del settore terziario costituiscono il vero elemento innovativo nel contesto dell’occupazione femminile degli ultimi decenni. Costituiscono il 67,1% del totale delle aziende gestite da donne, occupano sempre meno spazi di mercato legati al commercio e sono sempre più proiettate su settori un tempo monopolizzati dagli uomini, come la logistica (il 17% delle donne imprenditrici), i servizi professionali intellettuali (12,1%) o il turismo (12%). Dal secondo trimestre del 2004 allo stesso periodo del 2009 gli imprenditori nel complesso sono diminuiti del 4,1% e quelli del terziario del 3,2%, mentre le imprenditrici terziarie sono scese solo dell’1,3%, mostrando una capacità di contrasto alla crisi più alta. Fra le imprenditrici terziarie si registra un aumento significativo di formule societarie diverse dall’impresa individuale, ad esempio la società di persone (41,5%), mentre le società di capitali costituiscono lo 0,5% delle imprese femminili terziarie, aumentate del 126% dal secondo trimestre del 2004 allo stesso periodo del 2009.

RAPPORTO CENSIS 2009: LA SANITA' IN PESSIMA SALUTA

La sanità nell’anno della crisi. Nell’anno della crisi si segnala una crescita delle spese per la salute degli italiani (molto per l’11,5%, abbastanza per il 27,5%, poco per l’8,3%), in misura maggiore tra i soggetti nelle fasce di reddito più basso. Poco meno di un terzo degli italiani spende di più anche per le prestazioni a carico del Ssn per le quali è previsto il ticket, mentre il 27,8% indica un aumento di spesa per analisi e radiografie a pagamento intero, il 29,4% per il dentista, il 31% per i farmaci senza ricetta, il 35,6% per le visite specialistiche a pagamento intero. L’impatto della crisi sembra dunque concretizzarsi in un peggioramento delle possibilità di accesso ai servizi sanitari, anche pubblici, che pesa di più proprio sui meno abbienti. Quasi il 40% dei soggetti di livello socio-economico basso è stato costretto a rinunciare per motivi economici a prestazioni sanitarie e il 37,8% ha ridotto l’acquisto di farmaci a pagamento.

Le cure primarie per ripartire dal territorio. L’ospedale mantiene il ruolo di catalizzatore della risposta sanitaria. Sono circa 55.000 al giorno gli accessi al Pronto soccorso. Solo nel Lazio nel 2008 gli accessi al Pronto soccorso hanno toccato quota 2.125.823, in gran parte ascrivibili a codici verdi (72,9%) e bianchi (9,7%). La strutturazione della primary care risulta invece in difficoltà, ancora troppo caratterizzata da accessibilità limitata e da isolamento professionale. Ma i medici di medicina generale godono di un ampio favore tra gli italiani: il 75,9% esprime soddisfazione circa l’adeguatezza del servizio.

Conviene fare figli in Italia? Il tasso di fecondità italiano rimane tra i più bassi d’Europa: il numero di nati per 1.000 donne in età fertile nel 2007 è pari a 40,3 contro 41,9 per 1.000 in Grecia, 43,1 in Spagna e 54,8 in Francia. Dopo il primo figlio, mediamente partorito in età relativamente avanzata, molte madri italiane non ne hanno altri pur desiderandoli: il 20,6% per motivi economici, il 9,5% a causa del lavoro. Il sistema di tutele della maternità appare inadeguato e troppo legato al vincolo della condizione professionale. Dai dati disponibili (al 2005) emerge che il 55,2% delle madri che avevano avuto un figlio era costituito da donne occupate: a loro è spettato l’84% delle prestazioni economiche per la maternità, pari mediamente a poco meno di 5.000 euro. Ma alle disoccupate (il 5,2% delle madri) è spettato il 2,1% dell’importo e a quelle in condizione non professionale (il 39,6% delle madri) il 13,9% delle prestazioni, pari a circa 1.137 euro (assegni di maternità erogati per le donne disoccupate e in condizione non professionale).

Politiche per l’inclusione sociale: le difficoltà delle comunità territoriali. Il disagio sociale è fortemente territorializzato, come emerge dalla graduatoria provinciale ottenuta in base a un indice sintetico costruito a partire da 14 indicatori semplici. Il gap tra le province del Centro-Nord e quelle del Sud è marcato e relativo a tutte le dimensioni del disagio considerate, da quelle private (reddito e consumi) a quelle di natura collettiva come le infrastrutture. I contesti provinciali più problematici sono: Palermo, Agrigento, Matera, Lecce, Caserta, Crotone, Vibo Valentia e Caltanissetta, mentre Trieste, Aosta, Belluno e Siena sono le province con livello di disagio sociale più basso. In Italia 1 milione 50 mila famiglie (pari al 4,4% del totale) vivono in condizione di «povertà alimentare», con un divario territoriale enorme tra regioni come Veneto (2,3%), Toscana (2,4%), Lazio (2,7%), Trentino Alto Adige (2,9%) e altre come Calabria (6,2%), Basilicata (9,1%), Sicilia (9,2%) e Sardegna (10,8%).

Meno risorse e più conflitti nella distribuzione della spesa sociale. La crisi avrà sicuramente l’effetto di rendere più acuta la competizione sociale e territoriale per le risorse destinate alla protezione sociale. La dinamica degli ultimi 6 anni ha visto una crescita ridotta delle voci «anzianità e superstiti» e «sanità» (rispettivamente aumentate a un tasso medio annuo dell’1,6% e del 3,5%, contro l’1,9% e il 3,6% della Ue15) e incrementi più consistenti per le funzioni «disabilità» (+1,9% in Italia, +1,7% medio europeo), «famiglia e minori» (+5,2%, +2%), «housing ed esclusione sociale» (+9,3%, +4,2%) e soprattutto «disoccupazione» (+5,3%, +0,9%). Per stabilizzare il rapporto pensioni/Pil occorrerebbe un tasso di crescita medio annuo per il triennio 2008-2010 pari all’1,8%, lontano dagli andamenti previsti per i prossimi anni. Gli italiani sono tra i meno convinti della capacità del sistema di protezione sociale di assicurare una copertura adeguata (il 37% contro un valore medio dell’Europa a 27 pari al 48%). D’altra parte, l’impatto della crisi sulla previdenza complementare ha determinato un rallentamento delle adesioni nei primi 9 mesi del 2009 (appena +3% rispetto al mese di dicembre 2008) e diffusi problemi nei pagamenti: circa 520 mila iscritti non hanno versato o hanno versato in ritardo i contributi previsti.

 

 

 


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