Ultimo appuntamento con la Stagione di Prosa 2011/2012 al Fenaroli di Lanciano

In programma "La fiaccola sotto il moggio"

24 Aprile 2012   17:22  

Giovedì 26 aprile alle ore 21.00 ultimo appuntamento con la Stagione di Prosa 2011/2012 del Teatro Fenaroli di Lanciano. In programma "La fiaccola sotto il moggio" di Gabriele D’Annunzio, regia di Serena Sinigaglia, compagnia ATIR Milano. Note di regia …l’ineluttabile distruzione dell’essere… prima forte impressione… primo importante spunto di riflessione…. Viviamo in un’epoca di crisi economica e culturale, dove la corruzione e la menzogna sono gli unici punti fermi su cui “contare”.

D’Annunzio scrisse quest’opera nel 1905, più di un secolo fa, eppure il senso di decadenza che pervade l’antico castello di Anversa, dimora della famiglia dei Sangro, dove tutto è “vetusto, consunto, corroso, fenduto, coperto di polvere, condannato a perire”, è lo stesso di questi nostri tempi bui. Il disfacimento fisico del luogo è metafora di quello umano. L’umanità che abita il castello è un’umanità malata e debole o colpevole e maligna. La purezza si ammala, la verità si corrompe, e tutto frana come sotto una scossa di terremoto. Esistono punti di non ritorno nella vita di un uomo così come nei cicli storici, momenti irripetibili di crisi assoluta dai quali ci si può rialzare solo dopo la piena distruzione, il crollo definitivo, insomma. Questo sembrano suggerirci le parole tragiche di D’Annunzio. Mettere “la fiaccola sotto il moggio”, nella bibbia, significa occultare la verità. Però quando Gigliola decide di alzare la fiaccola e di far emergere l’atroce verità che pesa sul capo del padre Tibaldo e della matrigna Angizia, la situazione, invece di migliorare, precipita.

La forza della verità non fa che accelerare il processo di disfacimento, quel crollo, già in atto da tempo, della casa e della famiglia. Dunque la verità non salva, non cura, ma finisce l’opera che la menzogna e il crimine hanno cominciato. Per chi, come me, è cresciuto nella convinzione che il dialogo, l’accoglienza, la tolleranza, il cambiamento e soprattutto la verità siano e debbano essere la giusta via per porre rimedio ai mali dell’uomo e del mondo, le opere di D’Annunzio risultano scomode. Pensare di dover distruggere per poter rigenerarsi è un pensiero violento e assolutista che, ragionevolmente, non piace e spaventa. Eppure oggi mentre lo rileggevo pensavo che, indipendentemente da come la si pensa, tutto questo è accaduto e può accadere. Farci i conti è il solo modo per sperare di poterlo cambiare. …ed ora più concretamente…come procedere…a quale forma teatrale tendere… Lavorerò con cinque attori sempre presenti sulla scena, anche quando il testo non lo prevede. Sempre in scena, come se fosse impossibile sfuggire a quel declino. Come se non esistessero vie di fuga, esattamente come D’Annunzio sembra volerci suggerire. Un fato ineluttabile che incombe sui protagonisti e che non può essere evitato. Due uomini e tre donne che ricopriranno un doppio ruolo ciascuno. Luce e ombra, musiche di tensione e di potenza emotiva, pochi oggetti simbolici che nuotano in uno spazio vuoto di macerie e ruderi. Gli attori, vestiti a lutto, saranno gli officianti di questo rito di distruzione e sacrificio che, su precisa indicazione dell’autore, accade in occasione della Pentecoste cristiana (dove viene celebrato l’invio dello Spirito Santo, da parte di Gesù risorto, su Maria e gli apostoli. Il colore dei paramenti di questo rito e’ il rosso, simbolo dell’amore dello Spirito Santo. Il suo elemento è il fuoco o meglio “lingue di fuoco”, proprio come quello delle fiaccole. “Lingue di fuoco si divisero e andarono a posarsi su di loro - così recitano gli Atti degli Apostoli- da quel giorno essi poterono predicare il vangelo in lingue che non conoscevano”. Ancora fino al XIX c’era l’usanza di far piovere sui fedeli, durante la messa, dei petali di rose rosse, per evocare appunto la discesa dello Spirito Santo).


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