Bullismo e scuola. Intervista alla maestra Bianca

La violenza come linguaggio

12 Giugno 2009   14:46  
Un paio di giorni fa sul Messaggero è stato scritto un articolo sul bullismo al femminile. Si parlava di una scuola di Roma dove un piccola banda di ragazze si era resa colpevole di furti, molestie telematiche e aggressioni fisiche alle compagne giudicate “troppo per bene”.  Codici adolescenziali enfatizzati dall’energia ormonale dell’età vengono ripresi e demonizzati dai media come fossero leggi mafiose. Nell’articolo del noto quotidiano la giornalista incaricata di fare luce sulle nuove forme di bullismo tra ragazze ha descritto il fenomeno come in aumento, dimenticandosi forse delle lotte sottili, dolorosamente ambigue e spudoratamente femminili che un tempo venivano condotte nelle scuole e nei collegi di tutto il mondo, al riparo dallo sguardo autoritario di docenti, genitori e personale amministrativo, opportunamente tenuti allo scuro di quelli che erano, almeno nell’ottica delle protagoniste ,veri e propri regolamenti di conti.

Spettatori e genitori indignati puntano l’indice ora sulla scuola ora sui tempi atroci, difficili e folli in cui siamo costretti a vivere. Emotivi, distratti e spesso poco informati si scagliano contro l’indifferenza di un sistema sociale che non sa educare i propri giovani, rendendoli dispotici,viziati, in arte bulli. Per quanto mi riguarda l’unica cosa che realmente trovo cambiata è l’habitat scelto per la violenza. Prima rigorosamente privato, oggi pubblico e pubblicizzato, lo scenario delle proprie gesta viene allestito dove anche la comunità (docenti e compagni compresi) possa assistere. Non più un regolamento di conti dettato dal desiderio di prevaricare o dimostrarsi forti, ma esibizione narcisistica del proprio io, laddove il potere non è comando ma notorietà, visibilità mediatica, riconoscimento sociale. Più che "fenomeno in aumento", il bullismo femminile di cui parla con tono apocalittico la collega del noto quotidiano , a me sembra un problematica vecchia come il mondo che ha semplicemente mutato parvenza. Modi e tempi tecnici si sono conformati alla velocità della Rete, all’onnipresenza della fonia cellulare, alla stucchevole e lasciva esibizione dell’emotività televisiva. Per il resto, niente di socialmente orribile si profila all’orizzonte, se non la sconfortante consapevolezza di come solo le cattive gesta riescano a magnetizzare l’interesse mediatico, a dispetto dei tanti atti di giustizia sociale e amore per il prossimo di cui gli adolescenti d’oggi pure si rendono partecipi.

L’intervista a B.P. di Pescara, laureata in Scienze religiose e maestra di scuola dell’infanzia, mette in luce l’importanza di educare la persona fin dalla tenera età, quando assieme ai piccoli coetanei viene chiamata, da famiglia e istituzioni, a “sviluppare comportamenti civilmente e socialmente responsabili nei confronti della realtà umana e ambientale”.

Maestra Bianca, nell’articolo sopracitato la tipica “bulla” moderna viene definita come intollerante, razzista, cattiva e avente uno “spirito malformato”. E d’accordo?

“Mi sembra non le abbiano dato alcuna chance. Come se la violenza espressa dalla ragazza fosse una sua caratteristica innata, caratteriale, identitaria, piuttosto  che un comportamento presumibilmente generato da particolari condizioni di vissuto e habitat familiare … non si mettono i sigilli su una personalità in formazione, specie se si tratta della terribile fase adolescenziale. Non a caso la chiamano ‘seconda nascita’: il giovane si chiede chi sia, dove si trova, quale sia il proprio posto nel mondo, se si piace o meno, diventa preda di un conflitto molto doloroso, difficile da gestire”.

Numerose scuole di pensiero insistono sulla tenera età come fase decisiva per l’apprendimento di determinati codici comportamentali. Qual è il comportamento di un bambino la cui educazione viene coltivata?

“E’ subito riconoscibile. Si siede composto, rispetta la fila, evita di infastidire gli altri e soprattutto mostra di ascoltare e riconoscere l’autorità che in quel momento si interfaccia con lui. Non prevarica, piange e si arrabbia nella norma, senza attaccare l’altro”.

Quali sono invece i segni comportamentali di un bambino non educato a sufficienza?

“Non rispetta le regole. Non ne comprende la funzione, non le conosce. Spesso è un bambino che si distrae, che disturba gli altri, che non ascolta, che usa le mani, riflettendo un contesto familiare poco attento alla trasmissione delle regole”.

La corrispondenza tra comportamento scolastico e famiglia d’origine è spesso al centro del dibattito educativo. Più sinergia significherebbe molto per la crescita armonica dell’adulto di domani. Secondo lei quanto conta il nucleo familiare nello sviluppo del bullismo?

“Molto. Con le dovute eccezioni è chiaro. Un bambino violento non è semplicemente un bambino poco educato. Seppure in miniatura è una persona infelice che respira un clima inadatto alla sua età, difficile. Spesso il piccolo bullo mette in moto comportamenti da lui stesso subiti. In aula si guarda attorno, sceglie le sue cavie e fa loro ciò che in qualche modo è stato fatto a lui”.

Qual è l’atteggiamento che una maestra deve assumere per conquistare la sua attenzione?

“Al di là degli aspetti caratteriali, che pure vanno presi in considerazione, con il tempo mi sono resa conto che rimproverare con fermezza, trasmettere l’idea che non si tornerà sui propri passi, dimostrare coerenza, sono comportamenti che inducono il bambino aggressivo a riconoscere l’autorevolezza di chi lo segue, lo cura, lo guida.. . Il bambino è innocente, ma anche un abile ricattatore, si spinge la dove gli permetti di spingersi. Quando si parla di un bambino con grosse problematiche caratteriali il discorso cambia. Va aiutato”.

 

Cosa succede quando è una realtà difficile la responsabile di certi comportamenti? Come fa un'insegnante, soggetto più esterno alla coppia genitoriale, ad aver presa su un bambino violento?

“Anche in questo caso la scuola può fare la sua parte. Non dimentico mai la storia di un bambino rom che ho avuto la fortuna di aiutare. Intelligente, abile nello sport, scriveva e disegnava molto bene per i suoi 5 anni. Aveva il problema di impossessarsi prepotentemente delle cose altrui. Quando lo avvicinai per parlargli di questo suo comportamento mi raccontò che suo padre era in prigione per il furto di un motorino. Andare con la mamma ai colloqui per vederlo lo faceva soffrire. Un giorno ne fece una delle sue e delicatamente gli spiegai che qualora avesse continuato a ‘rubare’ anche lui da grande avrebbe ricevuto i familiari in prigione. Era intelligente e capì subito. Si adeguò immediatamente alla condotta richiesta perché gli avevamo spiegato le conseguenze che il suo agire avrebbe comportato nel futuro, ma la sua educazione è passata anche dall’apprezzamento delle sue qualità, ‘a scuola diventerai qualcuno, perché sei bravo’ gli dicevamo. Avvisare sulle conseguenze che le proprie azioni avranno sulla realtà e rispettare la persona in miniatura che è il piccolo alunno, sono ingredienti indispensabili per un buon rapporto educativo”. 

 

Mai avuto a che fare con piccole o giovani ‘‘bulle’’?

“Per quella che è stata la mia esperienza non parlerei di vero e proprio bullismo. Tra le bambine però c’è quasi sempre una leader, quella che le altre imitano, adulano, prendono ad esempio. Questo tipo di bambina forma gruppi, seleziona aiutanti e vallette a scapito di certe compagnucce meno alla moda. La rabbia delle bambine si esplica per reazione: se vengono private di qualcosa che appartiene loro o disturbate possono reagire con particolare violenza. E allora morsi, tirate di capelli, pizzichi e spinte prendono il posto dei calci e dei pugni che i maschietti si infliggono. Una volta ci siamo trovati di fronte ad una bambina dal comportamento molto preoccupante. Rovesciava tavoli e sedie con violenza inaudita. Ancora una volta però era l’habitat familiare a spiegare tali eccessi di ira: avendo assistito all’omicidio di entrambi i genitori portava addosso i segni di un trauma incancellabile … ma il bambino racconta, disegna, si esprime, l’adolescente trattiene, depista, si sente costretto a mentire mostrando il suo lato peggiore. Occorre molta più pietas per poterlo aiutare”.




Giovanna Di Carlo

 

 


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