Costantini, Chiodi e De Laurentiis. La sfida della comunicazione

di Franco Forchetti

07 Dicembre 2008   17:23  

Nella sfida comunicativa fra i tre grandi protagonisti della campagna per le elezioni regionali abruzzesi (Costantini, Chiodi e De Laurentiis) nessuno vince. Tanto che, alla fine, in assenza di un vero valore aggiunto della comunicazione, il risultato delle urne sarà determinato da altri fattori, astensionismo compreso. Ma cerchiamo di capire perché le tre campagne di comunicazione non giocheranno un ruolo così decisivo (né ai fini della vittoria finale né allo scopo di portare i cittadini al voto) e andiamo a vedere dove si annidano errori e ingenuità comunicative. E’ noto che ci sono altri tre candidati in queste elezioni, ma la scelta è stata quella di usare il microscopio della comunicazione solo su coloro che davvero si contendono le grandi cifre del consenso elettorale. Proviamo a interpretare le strategie di persuasione messe in campo dai tre sfidanti, seppure con la premessa che, in questo articolo, prendiamo in considerazione gli slogan (tecnicamente gli headlines) e i pay-off (nel gergo pubblicitario è la frase che chiude un messaggio) dei manifesti, delle affissioni, nonché le apparizioni video e televisive dei candidati, senza valutare, almeno per ora, le altre forme di comunicazione elettorale: dal canvassing (la propaganda elettorale face-to-face del candidato) al telemarketing al mailing postale ai siti internet.


Fare “centro” con le idee ma non con gli slogan. La campagna di De Laurentiis


L’uno contro tutti del candidato alla presidenza della Regione Abruzzo per l’UDC-UDEUR, Rodolfo De Laurentiis, svoltosi su RETE 8 nella sera di giovedì 26 novembre, ha fatto capire che De Laurentiis avrebbe potuto essere un eccellente governatore regionale, se soltanto fosse stato il candidato di un’alleanza più larga e se soltanto il destino delle elezioni regionali (ma non solo regionali) non fosse legato a logiche di scelta bipolare. De Laurentiis conosce bene i temi dello sviluppo economico e della governance territoriale e dimostra di non volere necessariamente cavalcare i tormentoni di questa campagna elettorale (che riflettono sì i problemi reali e cruciali dell’Abruzzo ma che rischiano, laddove divengano egemoni, di monopolizzare il dibattito): dalla riorganizzazione della sanità alla riduzione del deficit al riassetto amministrativo alla trasparenza del governo regionale .De Laurentiis insiste, invece, sul fatto che la vera sfida è quella di far ripartire lo sviluppo, attraendo nuove imprese, con provvedimenti di fiscalità di vantaggio per i territori dell’entroterra e mediante l’istituzione dell’Agenzia di Sviluppo Regionale: un tema poco “mediatico” in queste elezioni, che però, adombra un problema reale: quello del lavoro. Nessuno può negare che il collasso dell’occupazione in Abruzzo può essere scongiurato solo da una politica di crescita economica e sviluppo del territorio
Dal punto di vista della comunicazione televisiva dei contenuti, De Laurentiis appare poliedrico: logico e persuasivo nei ragionamenti, accalorato ed energico in molti frangenti, ironico e divertente in altri. Forse potrebbe nuocergli alla lunga l’immagine troppo istituzionale. I suoi consiglieri della comunicazione avrebbero dovuto suggerirgli non già i contenuti della campagna (che lui conosce bene e che sembrano ben focalizzati) ma le forme di una persuasione più dinamica. A cominciare dal look che appare troppo “istituzionale” e “serioso”: il suo consenso presso segmenti elettorali più giovanili e meno storicamente legati all’UDC aumenterebbe se De Laurentiis adottasse un’immagine più informale. Ma lui è in buona compagnia non essendo l’unico tra i candidati presidente a sbagliare stile e forme della comunicazione non verbale (quel fattore che due guru del management italiano, i coniugi Varvelli, indicano come “fattore vestibilità” nell’ottica del marketing di se stessi).
Così come non mi sono apparsi particolarmente originali gli slogan portanti della sua campagna: il primo (“Né destra, né sinistra, solo Abruzzo”), oltre a riproporre la strategia casiniana dello “stare al centro” e della medietà comunicativa, evoca, perfino, la terza via bossiana allorché il Senatur aveva coniato lo slogan “Né con Roma-Polo, Né con Roma-Ulivo”. Si tratta, dunque, di Déjà vu.
L’altro slogan “Niente più Scuse. Trasparenza.Meritocrazia. Efficienza” appare più critico nei confronti delle esperienze precedenti di governo regionale e cerca di intercettare e canalizzare la rabbia e il risentimento degli elettori delusi dalle vicende del 14 luglio 2008. In basso a destra compare il pay off “L’Abruzzo che vogliamo” ma, dal punto di vista visuale, non sembra egemone nel messaggio. Lo slogan appare molto distonico rispetto al primo. Se il primo richiama la nota strategia della ricerca della terza via (con il tentativo di delegittimazione della categorie semantiche della destra e della sinistra e con l’enfatizzazione sul bene comune “Abruzzo”) o, se si preferisce, la riproposizione di un terzo polo centrista (ennesima reincarnazione del tentativo di “rifondazione” democristiana) fondato sui valori della medietà e dell’equilibrio, il secondo slogan è meno politically correct. Questo si presenta, infatti, come un messaggio di rottura più vicino paradossalmente a un partito oltranzista e, gioco del destino, più contiguo, perfino, alla visione “dipietrista” della comunicazione politica. Tuttavia uno slogan così “fuori dalle righe”, oltre a essere poco nelle corde di un UDC più aduso a toni morbidi, viene quasi rinnegato dalla fotografia del candidato che appare troppo “pacifico” e sorridente: se si sceglie uno slogan di rottura o contrapposizione occorre che l’immagine del candidato sia coerente con il senso del messaggio (la cosiddetta coerenza semantica di forma e contenuto). Del resto De Laurentiis guadagna in capacità persuasiva allorché nei confronti televisivi assume toni duri e rinuncia al suo abituale stile conciliante, alternando al suo tipico understatement momenti di dialogo acceso. C’è troppa enfasi sulle tre parole che dovrebbero caratterizzare il programma UDC (“trasparenza, meritocrazia, efficienza”): sarebbe stato meglio usare brevi frasi al posto del mero elenco di parole per il semplice motivo che una frase, se ben congegnata, può diventare una sorta di “ritornello” per la memoria dell’elettore mentre un termine è destinato a essere dimenticato.  E soprattutto non c’è nessun riferimento enfatico a quello che poi avrebbe rappresentato un cavallo di battaglia del De Laurentiis televisivo: il tema dello sviluppo. Se lo staff dell’onorevole De Laurentiis avesse scientificamente progettato un profilo del candidato oscillante tra una linea di basso profilo (understatament), coerente con gli aspetti di medietà e moderazione sia del suo background che della storia del partito, e una linea di contrapposizione energica alle proposte degli altri schieramenti, è probabile che ne sarebbe originato un ibrido comunicativo capace di intercettare più cluster (segmenti) elettorali. Stare sì al “centro” ma fluttuando.

Il simbolo che non c’è e la campagna “iocentrica” ad alta densità di contenuti. La campagna di Costantini

Il simbolo scelto è una sezione di triangolo bicolore (verde e azzurro) contenuta in un cerchio e all’interno di questo l’headline “Costantini Presidente”: è il richiamo al logo della regione Abruzzo. Si tratta del simbolo scelto dal candidato presidente Carlo Costantini. Il simbolo è troppo geometrico e poco semantico: in altri termini comunica poco o nulla ai suoi interpreti. Esso appare più adatto al branding aziendale o sportivo che alla simbologia partitica che ha bisogno, invece, di loghi più identificabili e suggestivi. Non appare alcun riferimento al Partito Democratico che pure è nella coalizione: forse perché la corsa di Costantini per la Regione è iniziata prima della celebrazione delle nozze difficili con il PD. Il logo del partito o della coalizione deve tradurre visivamente i valori e le mission che sono alla base degli stessi e, soprattutto, deve essere immediatamente comprensibile dall’elettore. In termini aulici, il logo deve rispecchiare il logos, quello che per gli antichi greci è il discorso della ragione e per i cristiani il principio divino supremo: senza una corrispondenza biunivoca tra il simbolo grafico (logo) e il suo significato profondo non si compie il “miracolo” della comunicazione. Il simbolo della coalizione esige una semantica predefinita ossia deve essere capace di comunicare significati ben precisi: il simbolo sta al posto di quei significati e, a loro volta, quei significati devono trovare la loro quintessenza grafica nel simbolo medesimo. Potremmo dire, quasi, che l’elettore subisce la “rivelazione” del simbolo e in questo si identifica a livello subliminale. Occorre, perciò, che nel logo vi sia un’immagine che non imponga un’interpretazione difficile da parte dell’elettore.
La scelta dello slogan “Dalla parte dei cittadini” non brilla certo per originalità: l’espressione costituisce un altro déjà vu della comunicazione. Il lay out della sua campagna è in fondo dominato dal volto di Costantini, lasciando in ombra simbolo e slogan. D’altro canto la fotogenia del candidato è fuor di dubbio e sarebbe stato un errore non sfruttarla. Ma, ovviamente, non si tratta di una campagna governata dal fattore “estetico” perché Costantini sceglie, alla stregua di quello che fece Riccardo Illy, candidato alla Presidenza del Friuli-Venezia Giulia alle elezioni del 2003, una campagna ad “alta densità di contenuti”. Costantini, in occasione dei dibattiti televisivi, espone, con un eloquio efficace e un tono di voce persuasivo, i punti del suo programma, dimostrando di conoscere le tecniche della comunicazione televisiva. Anche se, sovente, commette l’errore di fare “ipercomunicazione” ovvero di voler riempire il suo spazio comunicativo con troppi contenuti, rischiando un effetto di overloading (sovraccarico) della memoria dell’elettore che rischia di non ricordare nulla di preciso proprio per aver ricevuti troppi  input. Senza ignorare che, così facendo, Costantini rischia di apparire come il candidato che promette troppo e che annuncia una palingenesi del sistema (ovvero una sua rifondazione globale): i comunicatori lo definiscono “overclaiming” e sostengono che l’eccesso di promessa può essere interpretato da un elettorato, già disincantato e demotivato, come il poco credibile annuncio mosaico della terra promessa. Né si può ignorare il fatto che nelle performance televisive Costantini utilizza spesso, all’inizio di ogni frase, il pronome “io” (“io credo”, “io penso”, “io voglio”), quasi a porre enfasi sulla forte personalizzazione della sua campagna elettorale e a sottolineare, implicitamente, la sua distanza dai partiti che lo sorreggono. Una campagna “iocentrica” che si presta a molte interpretazioni sia benigne che maligne: escamotage elettorale o sintomo di un malessere della coalizione?

La campagna soft di Chiodi e la sindrome da incumbent

Nemmeno la comunicazione messa in campo dal candidato Gianni Chiodi appare strutturata in modo tale da poter spostare, per sua intrinseca virtù, consenso e voti. Viene scelto il claim “il presidente” che, peraltro, rappresenta un leitmotiv di diverse campagne di comunicazione regionale (simile allo slogan “Il Presidente c’è”, scelto da Enzo Ghigo, governatore uscente di Regione Piemonte, alle Regionali piemontesi del 2005, quando questi sfidò senza successo il candidato del centrosinistra Mercedes Bresso): con la differenza che, mentre Ghigo vestiva i panni dell’incumbent ovvero del presidente uscente, Chiodi non è, nei fatti, un vero e proprio incumbent, avendo alle spalle solo l’esperienza di governo del comune di Teramo. Peraltro il claim appare poco incisivo dal punto di vista grafico e del carattere tipografico (lettering). Ma lo slogan preponderante nella campagna elettorale di Chiodi è “Casa Abruzzo. Si governa tutti insieme”: concepito probabilmente con l’intento di far apparire Chiodi come una sorta di “presidente-buon padre di famiglia” che reggerà le sorti della regione chiedendo agli elettori di partecipare attivamente al governo della stessa.
Quando nella pubblicità e nella comunicazione si usa il termine “casa”, si sa che si sta sfruttando un topos della persuasione pubblicitaria: il “dove c’è Barilla, c’è casa” è assurto a vero e proprio tormentone entrato a far parte dell’immaginario collettivo e dei nostri comuni modi di dire. Ed è naturale supporre che chi ha pensato lo slogan di Chiodi abbia voluto giocare sulla capacità del termine “casa” di evocare significati ed emozioni agli elettori. Si voleva far percepire una nuova idea di regione:  non già come palazzo del Potere ma come grande casa dei cittadini. L’idea avrebbe potuto essere efficace in un contesto politico ed emotivo diverso da quello in cui versa l’Abruzzo. Il PDL avrebbe potuto sfruttare meglio il clima creato dalle vicende del 14 luglio, elaborando una comunicazione più forte e aggressiva. Invece ha scelto una linea morbida, rassicurante che, come si notava altrove, stride con l’efficace campagna “Rialzati Abruzzo”. Il pay off “si governa tutti insieme” rischia di essere percepito in modo neutro e poco emotivo: sarebbe stato meglio utilizzare la formula esortativa “governiamo insieme” .
Nelle ultime settimane, accanto al claim “Casa Abruzzo”, appare sovente quello di “Cantiere Abruzzo”, con il risultato di contrapporre due slogan che, a livello subliminale, collidono. E’ vero che una casa nasce da un cantiere, ma un conto è dire “facciamo il cantiere Abruzzo per far rialzare la regione” e un conto è dire “governiamo tutti in casa Abruzzo”: nel primo caso ci si propone come coloro che arrivano e salvano l’Abruzzo, marcando la differenza col precedente governo; nel secondo si punta sì su una visione democratico-partecipativa della governance ma si smorza l’effetto di contrapposizione alla giunta uscente. E non dimentichiamo che il PDL è pur sempre lo sfidante, il challenger, per dirla in termini velici, che avrebbe dovuto condurre una campagna elettorale all’attacco. Più efficace è lo slogan esortativo “Stai con Gianni Chiodi” che spezza la linea soft della campagna e punta alla personalizzazione delle scontro politico.
D’altro canto non si può negare che la campagna comunicativa è coerente con il profilo di personalità politica di Gianni Chiodi: il tono “familiare”, “moderato” e “democratico-partecipativo” degli slogan è in sintonia con l’understatement del candidato. Chiodi è sicuramente percepito dall’elettorato medio come un bravo amministratore, dai modi signorili e dallo stile moderato, che coniuga cultura economica e umanistica. Anche nei confronti televisivi Chiodi appare cortese, pacato nell’eloquio e poco proclive alla polemica feroce: un gentleman della politica che rivendica a se stesso il fatto di non parlare male degli avversari (diversamente da quanto fa Costantini che esercita sistematica la vis polemica) e di volersi occupare solo della sfida ai problemi della regione Abruzzo. Un personaggio politico oscillante tra lo stile comunicativo di basso profilo di Chiamparino (all’epoca della sua candidatura a sindaco di Torino), il proverbiale understatement di Gianni Letta e il modo di argomentare prodiano: paradossalmente lontano, quindi, dallo stile del Cavaliere. Solo negli spot video Gianni Chiodi sceglie di imitare lo stile televisivo di Berlusconi, facendosi riprendere seduto dietro una scrivania. Ma mancano sia il sorriso smagliante del Cavaliere (che, fuor di ironia, ha sempre rappresentato un elemento vincente nel suo modo di far comunicazione) sia la stanza di lavoro del medesimo. L’arredamento del set televisivo di Chiodi sembra evocare più lo studio di un libero professionista che la stanza di comando di un leader. Il tono è amichevole, quasi fraterno, corroborato dal messaggio che incita l’elettore a dare il suo contributo per la “casa Abruzzo” e dallo slogan per cui “si governa tutti insieme”.  Lo spot rischia di essere percepito come una pallida imitazione degli spot nazionali di Silvio Berlusconi. Sarebbe stato meglio individuare una location diversa: magari uno spazio aperto che avrebbe comunicato all’elettorato un’immagine più dinamica del candidato. Tuttavia si può ipotizzare, senza entrare nel merito della vicenda, che il caso del video “tutti i giovani del presidente”, assurto alle cronache nazionali, ha contribuito a “mediatizzare” il personaggio Chiodi, rendendolo più popolare e sottraendolo al limbo “buonista” determinato dai toni moderati della campagna comunicativa posta in essere: cosicché l’effetto di amplificazione mediatica ha fatto sì che “tutti i giovani del presidente” diventassero “tutti gli articoli sul presidente”. Ma, esulando da tale evento, non si può negare che la campagna di Chiodi è stata svolta nel segno dell’understatement. Un understatement forse compensato sia da una più energica strategia di canvassing del candidato sia dalle campagne, più convincenti, di alcuni esponenti di Alleanza Nazionale  (si è già parlato dell’efficace e originale campagna di Alfredo Castiglione) che, pur sapendo di non aver potuto rivendicare un altro candidato presidente in quota AN, avevano, comunque, accarezzato l’idea di proporre un altro nome in luogo di Chiodi. Ma si presume che il conto verrà presentato ad elezioni avvenute quando, nell’ipotesi di vittoria, ex forzisti ed ex di alleanza nazionale  si “conteranno” in termini di peso politico-elettorale.

Il Cavaliere alla crociata d’Abruzzo. La “berlusconizzazione” delle elezioni regionali

Le grandi manovre comunicative dei tre candidati presidenti continuano. Pochi giorni ci separano dal responso delle urne. Ma, come annotavo molti giorni fa nel mio blog e come saggiamente non manca di ricordare il direttore del Centro, Luigi Vicinanza, citando il politologo Paolo Segatti, uno spettro si aggira per l’Abruzzo ed è quello dell’astensionismo. Il non voto andrà ad “inquinare” simbolicamente l’esito delle urne.
Perché – ci si chiede - né da una né dall’altra ci si è preoccupati di fare anche una campagna di comunicazione sulla necessità di recarsi ai seggi e di partecipare con il proprio voto al governo regionale?
In realtà sull’Abruzzo si allungano le ombre della politica nazionale. Noi siamo, pur sempre, alla periferia dell’impero, per usare un fortunato titolo di Umberto Eco. Il PDL ha scelto di far arrivare il Cavaliere in Abruzzo che ha “benedetto” il candidato Chiodi. Avevo già fatto annotato, giorni or sono, quanto potesse essere pericoloso per il PDL abruzzese “berlusconizzare” la campagna elettorale, rischiando di allontanare quegli elettori che voterebbero Chiodi ma che potrebbero non farlo per motivi di avversione al Cavaliere.  Se c’è una coalizione che poteva anche non invocare la discesa del leader nazionale, questa è il PDL che scommette sulla possibilità di intercettare anche il voto moderato di coloro che avevano votato centrosinistra alle passate regionali e che, ora, per le note vicende legate a Del Turco, potrebbero orientarsi per Chiodi. Ma un Berlusconi onnipresente e pervasivo nella campagna di comunicazione del PDL può compromettere questo prevedibile deflusso di voti dagli ex elettori del centrosinistra. Per non dire altresì dell’effetto boomerang di un Berlusconi che non sembra non avere il consenso plebiscitario delle trionfanti elezioni politiche e che si rende conto che alcuni errori di decisionismo esasperato del proprio governo – in connivenza con alcune “gaffe” comunicative – hanno indebolito il gradimento dei cittadini. Del resto, Claudio Valente, giornalista del Messaggero, ha osservato, in un programma televisivo, come il rischio per Chiodi sia quello di rimanere schiacciato dalla personalità di Berlusconi.
Ma se è vero che non necessariamente Chiodi trarrà linfa vitale dal Cavaliere, è innegabile che questi ha tutto da guadagnare “scendendo in campo” in Abruzzo, ben sapendo che la vittoria del PDL sarà anche la sua vittoria e quindi una conferma del suo gradimento elettorale in Italia.

Un uomo solo al comando

Nella visione dell’imperatore romano Costantino accanto alla croce compaiono miracolosamente le parole “In hoc signo vinces”. Passando dal sacro al profano, nel sogno del candidato Costantini pare  che non ci sia alcun emissario del Partito Democratico che lo esorti a vincere in nome del Partito Democratico stesso. Non è ben chiaro se la strategia della coalizione sia quella di coinvolgere, nella parte finale della campagna elettorale, i big della politica nazionale per provare a rompere il muro dell’astensionismo e a conquistare ulteriori voti per Costantini, oppure quella di non condurre un finale con i fuochi d’artificio. Costantini, come Coppi, è un uomo solo al comando, cui è affidata la titanica sfida di battere la corazzata Chiodi-Berlusconi. Ma Costantini è felice di esserlo perché sa di aver già vinto la sua battaglia: il risultato elettorale non lo condannerà anche in caso di sconfitta perché è indubbio che la sua campagna ha generato più consenso di quanto ne abbia fatto perdere.
Il problema vero è a Roma. Viene il sospetto che l’Abruzzo sia stato sacrificato agli interessi del PD nazionale. Sapendo che si trattava probabilmente di un’elezione perduta in partenza, nessun leader romano avrebbe voluto giocare fino in fondo una partita dall’esito infausto. Se Veltroni si fosse sovraesposto in queste regionali, contrapponendosi indirettamente a Berlusconi, avrebbe rischiato, in caso di sconfitta, di divenire un padre della sconfitta, con inevitabili riflessi nella lotta intestina al PD tra veltroniani e dalemiani. Né sembra che gli ex DS, dal canto loro, abbiano intenzione di impegnarsi in una sfida che sembra perduta: tanto più con un congresso PD alle porte dove qualcuno paventa una notte dei lunghi coltelli. Ma alcuni potrebbero obiettare che questa è mera dietrologia politica o paranoia partitica. Ma “a pensar male” ricordava Giulio Andreotti “si fa peccato ma spesso si indovina”. Dopotutto Costantini è, pur sempre, il candidato imposto da Di Pietro alla coalizione. Se sconfitta deve essere – potrebbero pensare alcuni nel PD – che sia la sconfitta di Costantini contro Berlusconi.

“No, we can’t”. Il vento di Obama non è arrivato in Abruzzo. La partita comunicativa del PD

Ma, lasciando ai politologi le dietrologie politiche, poniamoci, invece, delle domande da comunicatori puri. Che cosa avrebbe potuto fare la coalizione e, specificamente, il PD, a livello comunicativo, per dare maggiore linfa vitale al marketing elettorale?
Qualcuno era solito dire che le idee sono sempre nell’aria e la bravura è nell’intercettarle. Anche in questo caso le idee c’erano ma sono rimaste sospese nell’atmosfera.
Dando per scontato che una maggiore empatia politica tra PD e IDV, in grado di scongiurare il teatrino del gioco delle parti, avrebbe generato nell’elettorato l’idea di una coalizione più affidabile e solida, non c’è dubbio che si poteva puntare sul vento “democratico” che spira dagli USA. Il fenomeno “Obama”, in grado di suscitare consensi in modo trasversale, è stato una boccata di ossigeno per il PD nazionale e avrebbe dovuto esserlo anche per il PD regionale. Come mai nessuna forma di comunicazione locale ha evocato il nome di Obama anche al fine di intercettare quei segmenti elettorali (non necessariamente riconducibili al bacino ideologico del centrosinistra), sensibili alla  novità “Obama” e che, presumibilmente, andranno a ingrossare il partito dell’astensione?
Nessun manifesto o spot del  PD (tra quelli impiegati per fini marcatamente elettorali) sfrutta l’effetto “Obama” che pure esercita un ascendente sull’immaginario collettivo. Non molte settimane fa la manifestazione di Veltroni a Roma e i cortei studenteschi di protesta contro Tremonti e Gelmini avevano rotto l’incanto della luna di miele tra Berlusconi e il paese. Dopo è arrivato lo storico successo di Obama. Mentre a Trento il centrosinistra si afferma alle elezioni provinciali. Il vento c’era ed era forte ma molti nel PD non hanno issato lo spinnaker e forse hanno sussurrato: “No, we can’t”.

 

Prof. Franco Forchetti
Docente di Comunicazione
Esperto di Comunicazione politica
forchetti@inwind.it
blog: http://abruzzopolitica.digitlearning.com
sito web: www.digitlearning.com
 
 

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