Cristina Iamperi, la catastrofe di Haiti e noi aquilani

18 Gennaio 2010   15:56  

Si è lasciata dietro le spalle l'oceano, un'alba da incubo e un'isola lontana dalla magica bellezza devastata da un terremoto e bagnata di sangue. E' tornata nel suo verde e accogliente Abruzzo, altra terra che pure ha conosciuto le ferite profonde causate dalla terra che trema. E si è sentita in salvo, Cristina Iamperi, di Civitella del Tronto, funzionaria Onu ad Haiti. E' atterrata ieri a Roma insieme al figlio Leonardo, al padre Bruno, al marito Misha, accolta dai parenti e delle autorità.

''Sono stata fortunata - ha commentato - innanzitutto perché sono sopravvissuta. Io quando c’è stato il terremoto, - la scossa è stata fortissima e lunga circa un minuto - ero a casa perché avevo chiesto qualche ora di permesso al lavoro. E il mio ufficio è completamente distrutto. Ma sono fortunata anche perché la casa ha retto e avevamo viveri e acqua potabile. Poi, dopo due giorni, ci siamo trasferiti nella base logistica dell’Onu''.

 

Cristina racconta poi di interi quartieri rasi al suolo, di una tragedia difficile da immaginare, con quasi due milioni di senza tetto, di quasi centomila morti, e forse molti di più. Di persone ancora vive e coscienti che non potranno essere tirate fuori da sotto le macerie, perché non ci sarà il tempo, i mezzi, le forze. Di migliaia di persone, il 30 per cento dei ricoverati, che rischia di morire perché non ci sono dottori e medicine per salvarli . Di migliaia di bambini che stanno subendo amputazioni per evitare la cancrena degli arti.

Personalmente, in qualità di post-terremotato, Haiti mi ha fatto prendere coscienza di essere stato tutto sommato fortunato, come Cristina Iamperi.

Ho perso casa, certo, ma me la ricostruirà lo Stato. All'indomani del sisma non ho avuto problemi per bere e mangiare, mi è stato dato un tetto di tela poche ore dopo il sisma, e una mensa che ti offriva un pasto completo e abbondante. Non mi sono trovato davanti a persone che morivano dissanguate senza che nessuno li potesse aiutare, a donne stuprate da bande di sciacalli armati di machete e pistole, non ho visto bambini nudi abbandonati tra le macerie, risse tra disperati che cercano di accaparrarsi i viveri lanciati dal cielo,  cataste di cadaveri gettati come sacchi  sui camion e seppelliti in fosse comuni nell'indifferenza di chi è oramai abituato a convivere con la morte e il dolore.

E istintivamente mi viene da sorridere quando penso a chi a L'Aquila, nella tendopoli, si lamentava platealmente per la qualità del cibo, per la pasta scotta, per la lunghezza della fila alla mensa e per altre quisquilie del genere. Mi sento in imbarazzo se penso alla signora che ha protestato, trovando anche eco sulla stampa, perché nell'appartamento del progetto C.A.S.E. aveva trovato niente meno che il telecomando nel forno.

Per questo dico che non è vero, come è stato scritto, che nessuno più di un terremotato aquilano può capire quello che è avvenuto ad Haiti. Perché quando la terra trema, gli effetti sugli umani non dipendono solo dalla magnitudo, ma anche dai meridiani terrestri. Haiti è un paese poverissimo, del terzo mondo, disseminato di bidonville, stritolato dalle ingiustizie e dal debito pubblico, depredato dagli avidi caudilli locali e dai viceré delle multinazionali, francesi in particolare. E questo moltiplicherà gli effetti già devastanti del sisma. Lo diceva anche il nostro Ignazio Silone: non siamo tutti uguali davanti ad un terremoto.

Noi aquilani quel terremoto non possiamo immaginarcelo, e non solo perché il terremoto lì è stato molto più devastante, ma perché non possiamo immaginare cosa significa vivere in una bidonville attraversate da fogne a cielo aperto, senza cibo a sufficienza e acqua potabile, in uno stato di natura dominato dalla violenza e dalla sopraffazione. Non possiamo immaginarcelo. E forse poco ci interessa, da ricchi occidentali egoisti quali siamo, che ad esempio non ci siamo mai indignati a sufficienza per il fatto che in casa nostra, in Italia, nel 2010, esiste ancora la schiavitù, nelle piantagioni di mandarini e pomodori di Rosarno, Foggia e Caserta, negli opifici clandestini delle nostre metropoli, nonostante il fatto che i giornalisti, quelli veri, avevano più volte raccontato e documentato, a rischio anche della loro vita, questa vergogna.

Queste cose non si potrebbero dire. Ne sono consapevole: non ha senso confrontare e soppesare due distinte tragedie. Non si dovrebbe dire perché ora la paura inconfessata ed imbarazzante, soprattutto da parte del governo, e che si verifichi una flessione di interesse per il terremoto aquilano, e che gli aiuti internazionali e le donazioni pertanto diminuiranno e prenderanno altri lidi. E allora il problema della mancanza di risorse economiche per la ricostruzione dell'Aquila emergerà nella sua imbarazzante drammaticità.

Nel villaggio globale anche la solidarietà risponde alle leggi della concorrenza e il terremoto aquilano non è più competitivo.

Ma forse, chissà, può essere anche un bene. Qui a L'Aquila un eccesso di aiuto può avvelenare l'anima, favorire l'indolente abbandono all'assistenza, all'aiuto dal cielo. E ciò nel medio-lungo termine significa condannare a morte una città che, già prima del sisma, era già davvero poco reattiva e intraprendente. Può essere l'occasione anche per ripensare e razionalizzare le strategie di assistenza. L'assegno mensile per l'autonoma sistemazione, viene dato, legittimamente, anche a persone benestanti e possidenti che però non ne avrebbero nessun bisogno. Ad Haiti quei soldi servirebbero per salvare vite umane.

E a noi aquilani servirebbe, oltre l'aiuto di cui abbiamo comunque diritto, anche il dimostrare al mondo la nostra capacità di aiutare chi è stato ancora più sfortunato di noi. Meritandoci davvero la fama di persone forti e gentili.

Filippo Tronca

 


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