Delitto Sanaa. Il dramma della seconda generazione

18 Settembre 2009   23:25  

E’ trascorsa soltanto una settimana dalla conferenza internazionale sulla violenza contro le donne, e già un nuovo orrore bussa alla porta degli italiani, sollevando paure, accendendo dispute, spaccando le anime già troppo divise di questo Paese dormiente, sempre pronto a stupirsi, indignarsi, e quasi mai a prevenire.

E’ successo a Montereale Valcellina, Pordenone, lo scorso martedì. Una giovane cittadina italiana di origine marocchina e fede islamica viene sgozzata dal padre El Ketawi Dafani, 45 anni, accanto al bosco di Grizzo, ultimo e tetro scenario di una vita spezzata in nome della violenza. La vittima è Sanaa, prima figlia di una coppia di immigrati da tempo inseriti nel tessuto sociolavorativo italiano. Come molte delle sue coetanee  la giovane desidera emanciparsi dalla famiglia d’origine coltivando il sogno universale di innamorarsi e mettere su una famiglia sua, magari con regole e prassi nuove, distanti dagli schemi rigidi che l’hanno costretta in casa a crescere le sorelle minori piuttosto che scoprire il mondo, confrontarsi e divertirsi come gli altri.

Ma Sanaa è una guerriera. A scuola ha preso coscienza di sé, della propria forza, del proprio diritto alla vita e all’autodeterminazione. Non solo. Avendo cresciuto le sorelline ed essendo stata gravata da maggiori responsabilità familiari rispetto alle amichette italiane, Sanaa trascende la propria età anagrafica apparendo più matura e determinata ad un mondo maschile che inizia a notarla, a stimarla e scoprirne la bellezza di donna seria e al tempo stesso libera. Un mix di fascino che strega Massimo De Biaso, ristoratore italiano di 13 anni più vecchio, simpatizzante della lega ma molto più di Sanaa che presenta subito ai genitori senza possibilità di equivoco.

Sanaa ha il mondo in mano. Lavora- apprezzatissima- in un bar, ed ha trovato l’amore. Un amore adulto e vero il cui padre, fornaio, decide di benedire offrendo alla coppia la casa dei sogni, già pronta, destinata all’unico scopo cui dovrebbero esser destinate tutte le case, la celebrazione del nucleo familiare, tradizionale, misto, allargato che sia. Due radici diverse si fondono in un abbraccio. Roba da film. Invece è vero,  e Sanaa non intende rinunciarvi. Lascia la casa paterna annunciando una tragedia che forse si sarebbe potuta evitare. Forse. Ma la politica nostrana è restia alle indagini sociali e i media danno già la caccia la mostro. Così allo scempio si aggiunge altro scempio, mentre rigurgiti xenofobi imbrattano rete e salotti televisivi dove il primo scopo è quello di sconcertare, stupire, sedurre lo sguardo sempre più annoiato dello spettatore italiano.

E’ così che il sindaco di Azzano Decimo, residenza del marocchino assassino, si è lasciato andare ad un facile quanto pericoloso  “con i musulmani è impossibile convivere”, che la Santanchè ha proposto di impedire alle donne musulmane di entrare col burqa al Vigorelli in occasione della fine del Ramadan, che la Carfagna ha scelto di costituirsi parte civile al processo contro qualcuno che gli stessi conterranei non esitano a definire come “affetto da evidenti problemi psichiatrici” piuttosto che in qualità di fondamentalista islamico.

Ma oltre agli evidenti squilibri psichici del marocchino, l’omertà di una donna più moglie che madre, e quella di una comunità che sembra non essersi accorta del letale crescendo di rabbia e abominio che pure si affacciava dagli occhi di un uomo sempre più stanco e snervato, una complessa quanto misconosciuta sindrome andava prendendo piede nel nucleo familiare della vittima, una problematica che sociologi e ricercatori sociali hanno già da tempo individuato ma che media e politica continuano ad ignorare, contribuendo al persistere dell’intolleranza e della discriminazione sociale e religiosa. 

IL DRAMMA DELLA  GENERAZIONE 2

Si chiama “Generazione 2”. Sono le figlie e i figli italiani degli immigrati giunti in Italia al solo scopo di cambiare vita o più semplicemente sopravvivere. Nati e cresciuti all’interno del sistema sociale nostrano, ne prendono la fisionomia culturale, i sogni, le aspettative, i costumi. Stretti nella morsa tra il codice culturale d’origine e quello cui fanno riferimento nel presente, sono spesso le vittime sacrificali di un’integrazione che non sempre riesce, e che rimane -indipendentemente dall’esito- profondamente dolorosa, difficile, lenta. Persino a Montereale, paese modello e asilo di svariati rifugiati politici, dove fior di associazioni si occupano di insegnare l’italiano agli stranieri, sostenendoli e lanciandoli nel caotico ma dinamico tessuto lavorativo del Nord.

In Italia però la famiglia è una cosa privata. Fino agli 80 il delitto d’onore era nel codice. Ancor di più quella mediorientale. Blindata, inquieta, timorosa di quelle indomabili ragazze italiane, sboccate e “lascivamente vestite” che attentano alla purezza della propria prole, agnelli indifesi da sacrificare al volere paterno. La vera guerra non è tra musulmani e italiani. Ma tra prima e seconda generazione di immigrati. Si combatte al chiuso, lontano dai riflettori, negli stessi tribunali domestici che fino a poco tempo fa straziavano le famiglie meridionali, oggi molto più aperte alla parificazione dei ruoli. Una guerra destinata a fare altre martiri in assenza di una mediazione culturale adeguata. Uno strumento che nei Paesi nordici come l’Olanda funziona da vent’anni. Si contattano le famiglie che vengono seguite e istruite sull’ineluttabile trasformazione sociale cui la prole andrà incontro: la spinosa vicenda umana di un padre che non si sente “continuato” dal figlio, e di un figlio che non si riconosce nel padre. Un patriarca che ha perso autorità, carisma, controllo. E che a volte impazzisce.






Giovanna Di Carlo

 

 


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