Emigrazione: intervista a Giuseppe De Rita del Censis

23 Settembre 2008   10:54  

I flussi migratori da e per l’Italia, i modelli di politica migratoria attuati dai Paesi europei e la "percezione" dei migranti da parte della società; la struttura delle comunità italiane all’estero, le nuove migrazioni e il "peso" dei loro interessi nella politica italiana. di questo e tanto altro Giuseppe de Rita, Segretario generale del Censis, ha parlato con Simone Nastasi che lo ha intervistato per "L’Italiano", quotidiano diretto da Gian Luigi Ferretti, che ha pubblicato l’intervista nell’edizione di sabato scorso. Di seguito la versione integrale dell’articolo.

"La penisola italiana è attualmente meta ambita per un numero consistente di arrivi, talvolta indiscriminati, provenienti da paesi meno abbienti. Un flusso così consistente da smentire la convinzione diffusa, secondo la quale l’arretratezza di alcune regioni potesse rendere poco probabile un trend migratorio pari a quello degli altri paesi europei. E finendo per essere il punto essenziale dell’attuale programma governativo, intento ad eliminare quella percezione diffusa di paura, reale o presunta, in gran parte della popolazione. "Il problema non è nel numero di immigrati, ma nella loro selezione". L’analisi del Presidente del Censis Giuseppe De Rita al fenomeno che maggiormente ricorre nelle agende politiche italiane, è chiara, e pone l’accento, non sul numero, ma verso la posizione sociale che i molti immigrati presenti in Italia arrivano ad occupare nella società italiana. Al numero confortante di quanti giungono nel territorio nostrano con ambizioni lavorative rivolte alla migliore integrazione con il tessuto sociale, si contrappone infatti un dato altrettanto elevato di coloro per i quali, il contatto con il suolo italiano, finisce per essere motivo di emarginazione e degrado. Tanto da sollevare il dibattito se all’uopo sia appropriato considerare il fenomeno come una vera e propria emergenza.
D. Dottor De Rita, nell’eventuale analisi dell’immigrazione in Italia, è corretto utilizzare il termine "emergenza"?
R. Ritengo che ci fosse un senso di emergenza maggiore a fine anni 80’, quando ero alla Presidenza del Cnel. Probabilmente oggi le presenze sono maggiori. Ricordo quando Donat Cattin alla Conferenza Nazionale dell’immigrazione ammise che in Italia erano presenti quasi quattro milioni di immigrati. Dal 92’ ad oggi i ritmi sono diventati più intensi, anche se non ritengo probabile la cifra preconizzata da Donat Cattin. La gravità non è nel numero di immigrati, ma nella loro selezione. L’immigrato, in quanto tale non può essere percepito come un’emergenza. Noi come Censis consideriamo che ci sia un immigrazione "morbida", riferibile al contesto industriale, oppure a quello familiare, dove l’"immigrato" si inserisce nel tessuto lavorativo, o come nel secondo caso entra a far parte di un contesto abitativo. Ci sono poi i "fuori sacco", intesi come coloro che vivono ai margini o al di fuori della vita sociale, vivendo di espedienti o compiendo reati. In Italia gli immigrati hanno una distribuzione disomogenea.
D. Per quanto riguarda la gestione del fenomeno, l’Europa conosce alcuni modelli. Quello inglese, basato sul multiculturalismo, il francese assistenzialista, oppure il tedesco, che vede il lavoratore come un ospite, ai quali è possibile aggiungere anche un ultimo, l’integrazionismo olandese. L’Italia possiede un proprio modello di gestione?
R. No. Non ha un modello di gestione perché non ha un modello di riferimento unico. La Germania fa riferimento alla grande impresa che s’impegna a gestire anche il personale che arriva. È successo così con i turchi arrivati in Germania. La Francia ha una cultura statalista, che è capace di fare assistenza. L’unico fallimento è inquadrabile con le banlieu. In Inghilterra, vince una vecchia cultura coloniale che ha assorbito nel tempo le varie comunità, in prevalenza indiane e pakistane. Noi non abbiamo sotto questo aspetto un nostra cultura. Potremmo dire che in Italia vince ancora il modello familiare. Con gli anni potremo avere una doppia anima, la piccola impresa e la famiglia sui quali costruire un modello.
D. Nel 1998 il Censis ha pubblicato un rapporto nel quale emergeva che il 26,6% della popolazione considerava gli "immigrati" come fattore destabilizzante per la pace sociale. Attualmente qual è la percezione degli italiani nei loro confronti?
R. Si dovrebbe aspettare uno o due anni. Negli ultimi anni la questione della sicurezza legata all’immigrazione è stata troppo enfatizzata. L’attuale governo, avendo vinto le elezioni, ha voluto dare una risposta adeguata alla paura percepita nella popolazione, insediando l’esercito nelle strade o rilevando le impronte digitali anche ai bambini. Tra uno o due anni quando sarà terminato questo clima potremo cercare di comprendere le percezioni degli italiani.
D. Storicamente la popolazione italiana, fino alla fine degli anni settanta, aveva conosciuto alcune grande ondate migratorie. Primo e secondo dopoguerra, con l’aggiunta poi di un’emigrazione interna da Sud a Nord, a partire dagli anni ’50. Verso la fine degli anni ’70 il territorio italiano è cominciato ad essere meta di molte nazionalità. È possibile individuare analogie tra i due fenomeni?
R. L’Italia ha conosciuto due tipi emigrazione. La prima quella disperata e personale, in cerca di avventura. La seconda quella europea. Quando venne firmato il Trattato di Roma, la delegazione italiana, s’impegnò molto perché venisse inserito nel Trattato il capitolo sulla libera circolazione della manodopera. Questo avrebbe evitato l’immigrazione avventuriera e disperata, poi avvenuta comunque negli anni successivi del boom economico. Oggi in Europa la mobilità territoriale non ha più un valore. L’europeo oggi non si muove più, al contrario invece dei "disperati". Abbiamo di fronte un problema di una società che ha la maggiore accumulazione possibile sul fatto migratorio, perché siamo stati emigranti, abbiamo accettato gli immigrati, ma non abbiamo idea di cosa possa essere. Uno dei limiti della Cina, nella quale è impossibile spostarsi da una città ad un’altra, potrà essere in futuro proprio a fronte del grande sviluppo economico, la mancanza di un’adeguata mobilità territoriale. Dovremo quindi ripensare alla mobilità territoriale, astraendoci dalla parola immigrazione, e considerare la stessa come la fisiologia della società moderna.
D. L’Italia ha conosciuto quindi migranti ed immigrati, è stata allo stesso tempo punto di partenza e di approdo. Attualmente molti italiani vivono e risiedono all’estero, costituendo la comunità degli Italiani nel Mondo. Il Censis si occupa anche di loro?
R. Non ce ne occupiamo da tempo. La ragione può essere riscontrabile nel carattere della Comunità. Gli italiani all’estero sono una comunità molto chiusa, siamo stati spesso in disaccordo. Anche quando avevamo i contratti con il Ministero degli Esteri. Ricordo che ci fu un aspro scontro, all’epoca del Sottosegretario Foschi. Pur avendo fatto diverse iniziative ed avendo il governo favorevole ad un rapporto stabile, non siamo mai riusciti a costruirlo.
D. Nel vostro ultimo rapporto è presente una parte dedicata agli italiani giovani o adulti, che decidono di lasciare l’Italia per motivi di studio o di lavoro, sentendo quindi la madrepatria come incapace di dare loro il futuro che vorrebbero. Come spiega questo fenomeno?
R. È opportuno distinguere coloro che decidono di lasciare l’Italia, dagli italiani all’estero. I primi al contrario dei secondi, non cercano la rappresentanza, anche politica. I secondi si sentono probabilmente eredi della vecchia emigrazione, quella, per fare un esempio che richiede anche le coperture INPS. I fattori? Possono essere ancora rintracciati nel concetto di mobilità. Precisamente nel blocco della stessa, ma non a livello orizzontale, ma verticale. Manca la possibilità di crescita, nei vari ambiti professionali. L’Italia è una società adattiva, quindi adattandosi copre un po’ tutto. Un esempio può essere la famiglia che copre le scelte banali, a livello universitario dei figli, che poi hanno difficoltà nel trovare lavoro. Molti restano in famiglia, gli altri decidono di andare via. Non vanno certo a Milano, dove la stratificazione sociale è molto forte.
D. Tornando alla comunità degli italiani all’estero, che tipo di rapporto permane con la madrepatria? Quali possono essere le eventuali politiche di rientro?
R. Non occupandomene da tempo, mi resta difficile rispondere in maniera esauriente. La mia idea è comunque quella per cui le Associazioni degli Italiani all’Estero sono più una polizza assicurativa, che una vera scelta.
D. Da qualche anno è prevista la Circoscrizione Estero, che concede la possibilità alle comunità italiane presenti nel mondo di partecipare alle tornate elettorali. Spesso accade che i votanti all’estero non abbiano un’adeguata conoscenza dei programmi politici e diano il voto per motivi esclusivamente personali. Che valore assume quindi il voto degli italiani all’estero, di strumento politico o è un modo per restare ancorati alla madrepatria?
R. La maggior parte delle decisioni avviene per opinione generale. Le ragioni del voto sono quelle delle appartenenze dei circuiti degli italiani all’estero. Il circuito può avere interessi lobbistici, che in una situazione di incertezza politica italiana, possono essere sfruttati. In un contesto politico, ben definito, come quello attuale l’influenza del loro interessi, espressa attraverso il voto, non assume una valenza rilevante".

Fonte AISE


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