Habitat, Emiliano Dante si Racconta per la Prima Volta in un Film Autobiografico

06 Maggio 2016   12:28  

Habitat è il terzo lungometraggio di Emiliano Dante, regista e sceneggiatore aquilano.
È, innanzitutto, un film autobiografico e proprio per questo si trasforma in un film del film: parte della narrazione è la creazione della pellicola stessa, che serve a tratteggiare una delle tre storie che rappresentano la trama. E le tre storie parlano di tre ex compagni di tenda, che hanno vissuto in pieno le vicende successive al terremoto del 6 aprile 2009.
La prima è, appunto, la vicenda di Emiliano, regista, e del suo convivere con una nuova realtà cittadina, che lo costringe a lunghi spostamenti in auto, a passeggiate in solitudine col suo cane, all’apertura del divano letto che ha nel monolocale del progetto C.A.S.E. È proprio questo gesto scandisce le sue giornate. È in questo gesto che si concentra il concetto di “anormalità”.
La seconda storia parla di Alessio e del singolare percorso che lo porta da squatter ad agente immobiliare, l’amore per una ragazza, la difficoltà di trovare un alloggio che non abbia costi esorbitanti, i problemi di coppia. La normalità.
La terza storia racconta di Paolo, un pittore che prima viveva grazie a delle rendite, azzerate dal terremoto. Paolo incontra la realtà, incontra una donna, diventa padre. Eppure Paolo non riesce ad uscire dal suo guscio e torna al punto di partenza, o forse non se ne è allontanato mai.
Habitat è una storia di percorsi. Ognuno dei tre protagonisti compie il proprio personalissimo cammino verso una nuova consapevolezza di vita, ognuno dei tre la compie attraverso l’amore. Per Emiliano l’amore è una conclusione, una somma di fattori che genera un risultato, ma che arrotonda le linee taglienti dei suoi pensieri. Per Alessio l’amore è una spinta, è ciò che consente lui di trovare quel se stesso che prima era nascosto. Alessio non tradisce ciò che è, comprende che ciò che si è resta comunque, indipendentemente da alcune scelte. Per Paolo l’amore è qualcosa che non riesce ad abbracciare, chiuso in un sistema autoreferenziale che non gli consente di andare oltre. Arrivare a capire di non poter camminare è comunque una sorta di percorso.
Il regista compie scelte precise nella sua narrazione: utilizza il bianco e nero, cattura spesso immagini minimali (davvero notevole alcuni “quadri” come quello della cucina di Emiliano nella parte iniziale della pellicola) alternandole a riprese in movimento. Riesce così a restituire un quadro efficace delle distanze.
Scherzosamente disquisisce circa alcune scelte cinematografiche integrandole con la narrazione (e qui il film del film): il perché del bianco e nero invece del colore, o l’appunto di un produttore circa l’assenza di speranza.
Sono due gli elementi che hanno catturato la mia attenzione. Il primo è la neve: è presente in moltissime immagini, ma senza un “ruolo” definito. Esiste. Appare. La forza di questa neve è la sua persistenza, un retaggio della “città che era”. Il secondo è l’assenza di speranza: il regista afferma di non volerne perché egli non la percepisce. Eppure, alla fine, c’è anche la speranza che emerge. La speranza è rappresentata semplicemente dall’evoluzione dei protagonisti: si cambia, si va avanti, e o si fa nonostante tutto. E, quando ci si evolve, qualcosa accade, sempre.
Premiato in molti Festival e prodotto dalla Dansacro, Habitat riesce, con le sue atmosfere stranianti e surreali a volte, crude e spoglie in altre, a rendere uno spaccato efficace della vita di una comunità che, pur disgregata, cerca ogni giorno di recuperare, spesso fallendo, un nuovo assetto sociale.

Massimiliano Laurenzi
Twitter: @max_laurenzi


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