IRPINIA L'AQUILA E RITORNO - Davanti alle tue macerie

di MIno De Vita

06 Luglio 2010   10:26  

Mino De Vita, scrittore irpino, testimone e vittima del terribile terremoto del 1980, racconta per Abruzzo24ore.tv la sua esperienza a l'Aquila, dove Mino è venuto a fare il volontario, all'indomani del sei aprile 2009. Un viaggio nella memoria e in un destino comune a crateri diversi.
De Vito è autore di "Quel minuto che ci ha cambiati" Mediaworld  - 2000 e di "Farina di ghiande" Plectica - 2008. Ha partecipato a "La ricostruzione della memoria" Plectica - 2000

IRPINIA l'AQUILA E RITORNO -parte seconda 

Davanti alle tue macerie

Finalmente mi arriva la telefonata che aspettavo, mi chiamano da Pescara e mi dicono che posso andare a L’Aquila. Finalmente!

Non so come ho fatto a prepararmi e cosa ho messo in valigia, non so cosa ho portato di utile e di futile, ma la cosa che porto è il mio senso di angoscia e di speranza, la paura e la gioia, il desiderio di ritrovarmi sopra le macerie, di rivederle quelle fisiche, le stesse che ho nell’anima, da molto tempo, le stesse che ho negli occhi, le stesse di sempre, le stesse macerie …

A L’Aquila non ci sono mai stato, ho sempre pensato che fosse una città freddissima, da quando ero bambino, il meteo diceva che l’Aquila e Bolzano registravano le temperature più basse, accidenti!
Il viaggio parte dai miei monti ancora spolverati, qua e là di neve, e già penso al freddo che troverò, ai disagi, non i miei, ma quelli di chi è costretto dalle vicissitudini e sopportarli. Il viaggio è un tiro breve, ma il mio compagno di viaggio, guida lento, vorrei che facesse presto, non vedo l’ora di arrivare, come se la città scappasse via, come se prendesse il volo …
Il viaggio.

Sembra non terminare più, inerpicandoci su per la valle del Liri e poi il Fucino verso nord.
La strada è disseminata di cartelli rossi, segnaletica mai vista prima, cerco di comprendere, è la segnaletica della protezione civile, dall’autostrada nessun segno del dramma, nessuna ferita nella terra, eppure intorno regna un’aria cupa, fitta.

Dopo alcune gallerie eco comparire, adagiata a due costoni di montagna la Città. I monti intorno sono coperti di neve, sono i miei monti, uguali, parlano degli stessi colori e sfumature, di stagliano contro lo stesso cielo plumbeo, mentre un elicottero sorvola impassibile, ronzando monotonamente come un fastidioso, inutile moscone.
intorno a noi macchine rosse di vigili del fuoco, guardo in silenzio, riconosco i sintomi del dramma, il via vai incessante di mezzi , al casello nel vedere la macchina piena di cose utili ( o futili) ci invitano a passare senza pagare il pedaggio. Poi dritti verso Murata Gigotti.

Le strade sono un pullulare di mezzi meccanici e di gente in piedi che sorveglia, sono militari, poi più avanti carabinieri, poi Corpo Forestale dello Stato, poi, Guardia di Finanza, poi polizia, poi …
Ma cosa fa tutta sta gente ? Sembra Sarajevo, le macerie più in là: i segni dell’evento.
Ci fermiamo e chiediamo: “ Per Coppito …” ci guardano con sospetto, ma sereni riprendiamo il viaggio, ci siamo quasi, vedo la Murata squarciata in un lato per consentire l’accesso ai mezzi, chiedo di entrare, mi riceve Cesare, con il quale avevo parlato al telefono prima di arrivare. Mi indica la mia tenda dove prendiamo posto e poi al “quartier generale” per sapere cosa dobbiamo fare.

Già! Da dove si comincia, intanto guardo intorno , guardo negli sguardi silenziosi e sbigottiti, spaesati nella loro stessa terra, intimoriti da uno spavento che so io stesso riconoscere a distanza di decenni.
Nel silenzio della gente, che incede per le strade transennate di Coppito, rivivo la stessa tensione, risento nell’aria l’odore del provvisorio, di un provvisorio che potrebbe divenire duraturo.

MI auguro che non sia così. Il campo è uno come tanti dove riconosci i volontari che si danno da fare, mentre i vecchietti si avviano verso il refettorio, la tenda centrale più grande, li seguo, in silenzio, vado a vedere cosa posso fare. Mi si avvicina un ragazzo dal marcato accento veneto, mi si presenta e con mia grande sorpresa mi dice di chiamarsi Francesco  Esposito. È il responsabile della cucina e mi dice che sono già in lista per il mio turno di lavapiatti. Bene intanto torno nei magazzini dove c’è tanta roba da sistemare.

La roba, quella di sempre, la riconosco nei suoi soliti scatoloni con tanto di scritta: “ PRO TERREMOTATI …………” cambia solo la destinazione ma i terremotati sono sempre quelli. Medicinali, scarpe, indumenti latte, scarpe, pasta, vino, olio, passato di pomodoro, mi fa un ragazzo: “ ma preservativi niente?” prima gli sorrido e poi scopro che la sua non è una domanda sciocca, avranno pur diritto di fare l’amore i terremotati? Già!

Eccome se ne hanno diritto, credo che ne abbiano più bisogno degli altri, devono riconciliarsi con la natura, con la stessa natura che li ha duramente castigati.

I detersivi e il sapone di Marsiglia, ma come faranno a lavarsi se mancano ancora i bagni, non in questo campo, ma mi dice qualcuno che ci sono tre docce per mille terremotati. Eppure è passato un mese, ci sono solo tende dove convivono pakistani e peruviani, marocchini e singalesi, ucraini, moldavi, armeni, sik e induisti, aquilani … un melting pot di sfollati costretti a sopportarsi nella puzza reciproca, puzza dovuta alla sola mancanza di docce.

La prima notte in un sacco a pelo avrebbe potuto ridestare reminiscenze di un passato mai dimenticato, invece la stanchezza mi coglie facendomi sprofondare in un sonno pesante come le macerie che regnano ovunque.

La mattina successiva un la nebbia a e la pioggia ci spruzzarono tutti come foglie di lattuga nella ciotola, armati di k way andiamo a preparare la colazione, qui incontrai i ragazzi, vispi come tutti i ragazzi, la frangia più forte degli sfollati, i più camaleontici, quelli che riescono a superare meglio le traversie della vita, forti del loro futuro, e delle loro speranze, mentre i vecchi ingobbiti sul loro bicchiere di latte caldo sorseggiano a fatica quel calice.

Poi una sfilata di nomi e volti, donne , bambini ragazzi e ragazze, nel loro vociare di termini e espressioni familiari, sembra quasi che i dialetti siano scivolati lungo l’osso d’Italia fino ad arrivare al mare, sento frasi e idiomi che mi fanno sentire a casa mia, mi sento ancora di più uno di loro, ma che dico! uno di noi.


Mino De Vita

 


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