Il ''saggio'' Aldo Bonomi: ricostruzione è partecipazione

Pensare la ricostruzione

27 Ottobre 2010   13:00  

Pubblichiamo integralmente e caldeggiamo la lettura della relazione a firma del sociologo Aldo Bonomi, uno dei componenti della task force di consulenti della ricostruzione del cratere sismico aquilano. Pubblicata nel documento della Sge ''Azioni a breve termine.
Gli altri 'saggi'' sono Vittorio Magnano Lampugnani, urbanista, Cesare Trevisani, vicepresidente per le Infrastrutture di Confindustria, il professor Paolo Leon, economista, di cui pubblicheremo a breve le loro considerazioni.

Aldo Bonomi, è sociologo, fondatore e direttore del Consorzio AASTER (Associazione Agenti di Sviluppo del Territorio). Ha realizzato numerose ricerche sulle problematiche del territorio, dello sviluppo e delle forme di convivenza. Ha pubblicato i seguenti volumi: Il trionfo della moltitudine (1996), Il capitalismo molecolare (1997), Manifesto per lo sviluppo locale con Giuseppe De Rita (1998), Il distretto del piacere (2000), La comunità maledetta(2002), La montagna disincantata (2002), Per un credito locale e globale (2003), La città infinita insieme ad Alberto Abruzzese (2004), Che fine ha fatto la borghesia? insieme a Massimo Cacciari e Giuseppe De Rita (2004), Il passaparola dell’invisibile (2004), Il Capitalismo Personale insieme a Enzo Rullani (2005). È direttore della rivista Communitas e direttore scientifico di Itaca - quaderni del territorio - semestrale di UniCredit. È stato opinionista del Corriere della Sera e attualmente cura la rubrica Microcosmi su Il Sole 24 Ore, per cui ha pubblicato nel 2007 Famiglie SPA. Convivenza generazionale e longevità dell'impresa.


PER UNA MISSIONE DI COMUNITÀ ALL’INTERNO DELLA STRUTTURA TECNICA DI MISSIONE (STM)

Finalità generali e aspetti metodologici

Si delinea qui di seguito un’ipotesi di Missione di comunità, (di seguito MdC) che si connoterà come percorso di accompagnamento sociale, volto a produrre e rafforzare la partecipazione e la condivisione delle forze sociali ed economiche del territorio al programma di ricostruzione del centro storico di L’Aquila e dei comuni interessati dal sisma dell’aprile 2009.
La MdC, che dovrà ricercare adeguate forme di coordinamento e sinergia con le azioni più direttamente legate al rilancio delle attività produttive e alla progettazione urbanistica e infrastrutturale del territorio, si propone come percorso strutturato di interventi finalizzati a promuovere una coalizione sociale ed economica espressione del territorio, che interagisca fattivamente nella definizione dell’agenda della ricostruzione. Per rinviare a modelli d’azione già esperiti in differenti situazioni ambientali, la MdC ha lo scopo di promuovere logiche di “progettazione partecipata” o – se si preferisce – di concrete pratiche di democrazia partecipativa.

Le grandi catastrofi naturali come i terremoti non costituiscono infatti solo eventi che comportano la distruzione di vite umane, beni materiali, capitali e risorse convertibili in sviluppo, ma anche shock sistemici che determinano un allentamento o una rottura dei modi in cui l’agire economico (produzione, distribuzione, consumo) s’inquadra e radica degli assetti societari e nella vita quotidiana. Ciò può innescare una spirale negativa di effetti perversi e dissipazione di capitale sociale e di fiducia, ostacolando in ultima istanza gli stessi progetti di rilancio del territorio e incentivando, per converso, i fenomeni di abbandono o di rancorosa chiusura comunitarista.

D’altra parte, proprio gli eventi catastrofici possono generare inedite forme di mutualismo, rimettere in moto circuiti partecipativi e attivare legami sociali eccezionali, fondati su nuoveforme di “riconoscimento”, senso di appartenenza al territorio, coscienza di luogo. E’ quanto testimoniano ad esempio le decine di comitati di cittadini nati a L’Aquila nei mesi successivi al sisma e che costituiscono oggi una fragile ma visibile trama di società civile emersa dalle macerie del territorio.

I rischi più evidenti, nell’area interessata, consistono in due possibili derive tra loro speculari e che potrebbero mutuamente alimentarsi, in assenza di specifiche azioni volte a contrastarle.

1. Il principale rischio è che la società locale (ovvero le sue istituzioni pubbliche e della rappresentanza, il suo tessuto associativo antecedente o quello emerso nel dopo-sisma) si trovi nella condizione di “subire” passivamente la ricostruzione. L’efficienza nel ripristino delle infrastrutture civili ed economiche e l’efficacia delle azioni a sostegno di cittadini e imprese, naturalmente, hanno importanza imprescindibile e costituiscono indicatori sulla credibilità del sistema-paese.

Ciò che occorre evitare, anzi tutto sotto il profilo metodologico, è un design della ricostruzione progettata secondo schemi top-down. Ogni ricostruzione dall’alto incorpora sempre una sottovalutazione delle richieste locali e dell’importanza di fare crescere, insieme alle opere, le capabilities (le capacità potenziali e le risorse per l’azione) della società locale e dei suoi gruppi dirigenti. La progettazione “non partecipata”, anche quando tecnicamente efficace, genera quasi sempre un deficit di trasparenza e nei casi più deteriori – peraltro frequenti nella storia del nostro paese – logiche opportunistiche, uso distorto delle risorse, primato delle logiche a breve sui più efficaci risultati di medio periodo. L’approccio metodologico proposto (ricerca-azione), viceversa, si fonda sull’ipotesi per la quale solo un adeguato grado di mobilitazione della società locale e il suo riconoscimento come soggetto protagonista del processo di ricostruzione può combinare efficacemente qualità tecnica ed equità, di efficienza e controllo democratico.

2. Un secondo effetto negativo dei processi di ricostruzione dall’alto è la riduzione dei soggetti collettivi e delle istituzioni locali a “ceto di domanda”, la cui funzione “pubblica” si esaurisce nel rivendicare e negoziare risorse particolari e programmi prioritari o straordinari. Senza peraltro negare l’oggettiva presenza in Abruzzo di condizioni “straordinarie”, l’approccio che proponiamo assume positivamente (nella prospettiva della formazione di un’opinione pubblica locale) la presenza di eventi collettivi di protesta. Se a questa dinamica non sarà tuttavia data la possibilità di esprimersi sul terreno del confronto sui contenuti degli interventi di ricostruzione, finirà prevedibilmente con il restare prigioniera di un sindacalismo territoriale che premierebbe, sul medio periodo, gli intermediari più abili nel gestire l’interscambio col centro, logiche distributive di tipo selettivo e, nei casi peggiori (ma, nuovamente, tutt’altro che eccezionali) clientelismo e corruzione.

Le “opportunità” della situazione sono speculari ai rischi sopra rimarcati. Il percorso di ricostruzione costituisce infatti l’occasione per fare emergere dal ricco e variegato tessuto associativo della società abruzzese una “comunità di progetto” in grado di esprimere le aspettative e gli interessi locali nel confronto con i livelli superiori di governo nella definizione dell’agenda della ricostruzione.

Ciò presuppone un’azione organizzata di facilitazione e accompagnamento. La formazione e l’accompagnamento di questa coalizione è, in estrema sintesi, lo scopo della Missione di Comunità.

Brevi cenni operativi

Per sua natura processuale, l’azione di comunità stabilisce i suoi obiettivi sulla base della concreta interazione con gli attori locali. E’ problematico dettagliare a priori l’articolazione delle iniziative da realizzare nell’ambito delle linee d’intervento proposte. In generale ma ancor più nella concreta situazione, una Mdc si caratterizza come “processo” che attiva e fa interagire più livelli d’azione interdipendenti. Indicativamente si opererà attraverso l’implementazione di due distinte linee di azione.

1. Un attività organizzata di “ascolto del territorio”, finalizzata all’individuazione di un repertorio di problematiche e di azioni relative alla ricostruzione, nonché alla definizione di un’agenda prioritaria.

2. La costituzione di un tavolo di lavoro, che consenta un confronto strutturato tra la coalizione locale e gli organismi di livello superiore preposti alle attività di ricostruzione.
Sul piano metodologico è importante soffermarsi sulla prima linea d’azione, che si avvarrà degli strumenti propri della ricerca-. Un processo, in altri termini, che punta a creare le condizioni di una partecipazione allargata alla progettazione degli interventi e degli assi di sviluppo futuro del territorio. La società locale, in questo senso, è interpretata al medesimo tempo come soggetto e oggetto del cambiamento laddove i tecnici (gli agenti di sviluppo), prima che detentori di saperi specifici, sono “facilitatori” e risorse a disposizione degli attori locali. Più concretamente, nel caso specifico, si procederà attraverso:

- una fase di ascolto dei soggetti locali e di animazione territoriale, al fine di favorire la partecipazione e il coinvolgimento attivo dei soggetti interessati;

- la socializzazione delle informazioni raccolte attraverso l’organizzazione di specifici eventi strutturati di micro-concertazione (focus group, ecc.);

- l’implementazione di processi cooperativi tra gli attori locali e l’elaborazione, sulla base delle indicazioni raccolte nel corso delle prime fasi, di un’agenda per il territorio;

In prima istanza dunque, l’operatività della MdC consisterà nell’apertura di un confronto strutturato con l’associazionismo, parti sociali, le istituzioni pubbliche, le rappresentanze economiche e degli altri interessi presenti sul territorio, gli enti formativi, gli istituti di credito.

Le attività di ascolto del territorio e di censimento delle aspettative degli attori consultati saranno realizzate attraverso brevi colloqui/intervista, rivolti ai seguenti gruppi di attori.

1. Le amministrazioni pubbliche del territorio interessato dalle attività di ricostruzione. In questa prospettiva si sottolinea come il progetto, pure riconoscendo l’importanza simbolica e materiale della ricostruzione del centro storico di L’Aquila, assumerà come riferimento l’intero territorio interessato dal sisma. La formazione di una coalizione dei sindaci, anzi, può essere considerata il primo e basilare obiettivo ricercato dalla MdC.

2. I Comitati dei cittadini formatisi negli scorsi mesi, che costituiscono un’importante risorsa aut organizzata e di partecipazione civica, e che vanno riconosciuti come soggetti portatori di interessi con diritto di parola e orientati a logiche proattive e progettuali (non di mera testimonianza rivendicativa).

3. Le Associazioni di rappresentanza degli interessi economici del territorio (Industria, Agricoltura, Commercio, Artigianato, Cooperazione, ecc.).

4. Il mondo delle professioni organizzate e le rappresentanze di altri eventuali interessi digruppo o stakeholder territoriali.

5. Le organizzazioni Sindacali dei Lavoratori e altre eventuali rappresentanze sociali (es. consumatori, volontariato, settore no profit, associazionismo culturale, religioso, ricreativo, sportivo, altre organizzazioni giovanili, degli anziani, degli stranieri, delle donne, ecc.)

6. Altri attori rilevanti per lo sviluppo del territorio, quali Istituti di Credito, CCIAA Università e altri.

Duplice obiettivo di questa fase di ascolto e di animazione sarà, come suesposto, i) la costruzione di una mappa delle aspettative e delle priorità percepite dalla società locale e ii) l’implementazione di un processo coalizionale in grado di esprimere la complessa realtà sociale e degli interessi economici del territorio e interagire proficuamente con le strutture tecniche di missione e le autorità di livello superiore preposte alla ricostruzione.

L’azione di comunità e gli agenti di sviluppo in Italia. Brevi cenni di una storia professionale.

La vicenda professionale degli agenti di sviluppo e il campo operativo dell’azione di comunità, nel caso italiano, è coinciso inizialmente con le regioni del Mezzogiorno e con le aree periferiche del Centro-Nord, ma esperienze importanti sono state implementate anche nelle periferie urbane. Pure correndo il rischio di un eccessivo schematismo, possiamo distinguere (nel nostro paese) tre fasi dello sviluppo socioeconomico cui corrispondono altrettanti profili operativi dell’Agente di Sviluppo.

Le esperienze degli Anni ’50 e ‘60

Le esperienze negli anni ’50 e ’60 (tra cui quelle particolarmente significative che ebbero per protagonisti e animatori figure come Adriano Olivetti e Danilo Dolci) si costituirono intorno all’obiettivo di accompagnare la crescita economica del paese creando le infrastrutture sociali per lo sviluppo - che le sole politiche industriali non erano in grado di assicurare nelle regioni meno sviluppate o periferiche.

L’azione di comunità nasceva dall’esigenza, da una parte (nelle aree più sviluppate) di armonizzare lo sviluppo industriale con la crescita civile e sociale, e dall’altra (nelle regioni sottosviluppate) di creare l’infrastruttura sociale per lo sviluppo, che le sole politiche statali non erano in grado di assicurare. Centrali erano i problemi dell’educazione e della crescita culturale della popolazione. L’agente di sviluppo (o l’operatore di comunità) si caratterizzava soprattutto come promotore delle condizioni “a monte” dello sviluppo; l’inchiesta sociale, i progetti per l’alfabetizzazione e per la creazione delle strutture sociali e educative a livello territoriale, quelli per la micro-infrastrutturazione economica del territorio, questi gli attrezzi e gli obiettivi della sua azione.

La “committenza” (economica, ideologica, culturale) degli agenti di sviluppo e degli operatori di comunità era composita. In alcuni casi, valga per tutti l’esempio di Olivetti, era costituita dalla grande impresa che aveva l’esigenza di innalzare la qualità sociale del territorio e investire sul più importante “bene collettivo” per la competizione, la conoscenza e la formazione (sebbene sia giusto ricordare come gli obiettivi politici e gli esiti operativi del Movimento di Comunità
fondato dall’imprenditore canavesano andarono ben oltre questa motivazione di partenza).

In altri casi, come le missioni di comunità di Danilo Dolci, si trattava di una “committenza” culturale (promuovere la crescita civile e sociale delle aree sottosviluppate del Mezzogiorno). Altrove la committenza dell’Agente di Sviluppo era costituita dal soggetto pubblico, locale ma anche statale.

Gli anni ’80 e ‘90

Nel corso degli anni ’80 l’agente di sviluppo definisce il proprio ruolo soprattutto in qualità di animatore e consulente dello sviluppo locale per conto delle amministrazioni pubbliche.

Alla fine degli anni ’70 e nel corso degli anni ’80, con lo scricchiolio e talvolta la crisi conclamata della via allo sviluppo basato sulla “produzione di massa” e sulle grandi concentrazioni industriali, l’attenzione di molti studiosi si orientava all’analisi dei sistemi territoriali che avevano intrapreso una via allo sviluppo sotto molti aspetti “alternativa”, basata sui sistemi a “specializzazione flessibile”, che avevano favorito il decollo delle regioni del Nord-Est e del Centro. Anche nelle regioni meno sviluppate cambiava la visione: volgeva al termine la stagione dell’intervento straordinario e dello sviluppo esogeno, a forte regolazione politica, caratterizzato dagli investimenti pubblici e dagli incentivi per il trasferimento d’impianti industriali dal Centro-Nord. Alcuni territori sperimentavano una specifica via allo sviluppo basata su sistemi locali a specializzazione flessibile e più in generale si infittivano i segni di una
coscientizzazione dello sviluppo, che darà vita, negli anni ’90, alla stagione dei Patti Territoriali e a numerosi tentativi (non è il caso in questa sede soffermarsi sugli esiti) di innesco di processi di crescita in condizioni avverse. Più in generale sul territorio cresce, spesso in contrasto con un’amministrazione statale rimasta nell’essenziale centralista, una cultura dello sviluppo bottom up, fondato sulla mobilitazione di risorse endogene al territorio e sul
protagonismo degli attori locali. L’agente di sviluppo in questi anni definisce il proprio ruolo soprattutto in qualità di animatore e consulente dello sviluppo locale, principalmente su committenza pubblica.

I giorni nostri

Appare evidente in questi anni l’apertura di una nuova fase. Il territorio ci appare sempre più come un mosaico d’interdipendenze attraversato da interessi non facilmente componibili, e dove assume sempre più rilevanza il conflitto tra flussi e luoghi. Tale movimento produce nuove e mutevoli zonizzazioni dello sviluppo, trasforma economie e società locali, alimenta strategie territoriali d’adattamento, di reazione e talvolta di resistenza nei confronti del mutamento.

L’economia dei flussi agisce infatti, rispetto agli assetti consolidati nelle società locali, come un potente fattore di de-costruzione, che da una parte indebolisce i legami interni ma dall’altra rafforza il bisogno d’apertura verso l’esterno. Ciò modifica lo scenario operativo e il profilo “tecnico” dell’agente di sviluppo (o dell’operatore di comunità), che pure affondando le radici nella storia dello sviluppo locale cui si è fatto breve riferimento, si arricchisce di nuove prerogative che rendono necessario il rinnovamento delle sue attitudini.

A partire dagli anni ’90 e con maggiore evidenza nel decennio in corso, è emersa una nuova generazione di agenti di sviluppo. La sua missione, sempre più, sarà fondata sull’ipotesi che fra lo spazio dei flussi e i luoghi (territori, attori locali) non necessariamente esista conflitto d’interessi.

Certamente questa fase richiede ai progettisti dello sviluppo una superiore capacità d’inquadrare, rispetto a quanto accadeva in passato, le iniziative locali all’interno del frame determinato dalla nuova qualità dei processi di accumulazione globale, delle nuove zonizzazioni centro-periferia, dalla per molti aspetti inedita matrice dei vincoli e delle opportunità per i territori in posizione di svantaggio e per i gruppi subalterni.

La progettazione delle iniziative di sviluppo economico locale, in altre parole, richiede sempre più – nella compressione delle coordinate spazio-temporali operate dai processi di globalizzazione dell’economia, della comunicazione, degli oggetti culturali, dalle migrazioni – agli agenti di sviluppo di operare connessioni continue tra quanto si fa e si osserva localmente e i fattori non locali che concorrono a determinare il set dei vincoli e delle opportunità per il territorio.

L’attività degli agenti di sviluppo, in questo contesto, a ben vedere, può essere concettualizzata come azione diretta a creare o rafforzare le condizioni per la produzione di “beni collettivi”, intesi nella duplice accezione di beni pubblici, vale a dire beni non escludibili e fruibili da ciascun membro della comunità locale, e di beni collettivi per la competizione locale, intesi come risorse a sostegno della comunità economica, dei progetti e delle iniziative imprenditoriali. Un approccio, in altri termini, che assume come presupposto fondativo l’idea che lo “sviluppo umano” richieda una certa coerenza ed equilibrio tra efficienza economica, coesione sociale, diritti di cittadinanza.




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