Il futuro in un fiore: la biodiversità del Parco Nazionale Gran

10 Gennaio 2007   14:56  
Quando Fabio Conti ci fa entrare nell’erbario del Centro Floristico dell’Appennino di Barisciano, di cui è il direttore, per un attimo ci vengono in mente le biblioteche immaginifiche ed improbabili descritte da Luis Borges. Negli scaffali, grazie a venti anni di viaggi e ricerche in tutta Europa, sono conservati ben 40mila campioni di piante, essiccate e catalogate in bell’ordine dentro fogli di giornale, su cui ingialliscono i volti di vip e uomini politici di cui nessuno ricorda più le gesta o i misfatti. I petali e le foglie al contrario testimoniano con il loro inchiostro di clorofilla, epoche lontanissime e futuri possibili. In una parola la biodiversità del Parco nazionale del Gran Sasso Monti della Laga. “In questo territorio – ci spiega Fabio – sono state censite ben 2364 piante: dalle più arcaiche, le felci, alle più evolute, le orchidee. E´ un numero straordinario, significa infatti che il nostro Parco è quello con la maggiore biodiversità in tutta Europa”. Qualche numero per capire: il territorio italiano, tra i più ricchi, conta 7600 piante note, il Parco del Cilento e del Gargano possiedono meno di 2000 entità, solo 1000 ne detiene il Parco delle Dolomiti Bellunesi. “Una passeggiata nel Parco – spiega Fabio - ha l’ampiezza di un viaggio dalla Calabria al circolo polare artico”. Il Gran Sasso è dunque un crocevia di climi ed habitat che hanno dato benefica ospitalità a specie arboree migrate da opposte latitudini. Crocevia come il Mediterraneo che lo circonda, i cui abitanti, scrive Fernand Braudel, “non sono mai stati soltanto marinai o soltanto contadini: terra e mare, entrambi insufficienti per campare. Terra e mare quindi, inestricabilmente dipendenti, anche se a parte l’ulivo, la vite e il grano, tutte le sue piante arrivano da lontano”. Con le glaciazioni migrarono le piante tipiche della tundra che hanno resistito fino ad oggi in alta quota. Una di queste è la silene acadis, un morbido muschio trapuntato di fiorellini rosa, arrivato chissà come dal circolo polare per sfuggire all’avanzata dei ghiacciai. E vivono in questi climi estremi, aggrappate alle rocce e sferzate dal vento anche il genepì dell ‘Appennino e la driade, il salice retuso e la stella alpina, piante forti e tenaci come lo sono state le genti del Gran Sasso. Da sud arrivarono invece nei modi più picareschi ed avventurosi (comune destino a tutti i migranti clandestini) la daphne sericea dal fiore rosa profumatissimo e velenoso e il corbezzolo, che come ci informa Ovidio, protegge i neonati dall’assalto notturno delle mostruose strigi. Fabio ci mostra anche una pianta carnivora, la pinguicula, che si nutre di insetti che cattura con le sue allettanti foglie viscose. Il goniolinum italicum, pianta a forte rischio di estinzione, ha invece meritato la ribalta delle cronache perché ha impedito, grazie alla sua rara presenza, la realizzazione di una cava nei pressi di Capestrano. Ne sono rimasti pochissimi esemplari, circa 310, e scampato il pericolo delle ruspe, la loro sopravvivenza è minacciata dal proliferare di una varietà di fico d’India, specie esotica ed invadente che rischia di soffocare altre piante autoctone. Un piccolo nucleo di goniolinum è poi messo a rischio da una campagna di scavi archeologici. Chiediamo a Fabio, con spocchia bassamente antropocentrica: “Ma è poi così grave per noi se il goniolinum o altre specie dovessero scomparire? “Si dice – risponde Fabio - che da ogni pianta dipende la vita di dieci animali. Le conseguenze di un’estinzione non può essere prevista dagli uomini e molto gravi possono esserne le conseguenze”. Una specie che scompare, insomma, è una perdita paragonabile all’incendio della biblioteca di Costantinopoli o al crollo della Basilica di Collemaggio. Difficilmente però i quotidiani ci dedicherebbero un titolo a sei colonne ed un accorato editoriale dal titolo: “Scomparso il goniolinum: l’umanità è ora più povera!”. Eppure una basilica è anche possibile ricostruirla, mentre l’estinzione di una specie arborea è irrimediabile e con essa viene meno per sempre un patrimonio genetico unico. E’ noto a tutti che più è alta la biodiversità, maggiori sono le possibilità di scoprire principi attivi utili alla medicina e alla scienza, o varietà di sementi che potrebbero risultare decisive per il futuro alimentare dell’umanità. Recentemente si è scoperto che la lenticchia di Santo Stefano ha proprietà anti-tumorali, all’Università di Chieti stanno testando le varie specie di genziana, alcune rarissime, per capire qual è la più adatta alla coltivazione. Alcune varietà di iperico contengono principi attivi contro la depressione, e si potrebbero fare tanti altri esempi. Su uno scaffale dell’erbario sono conservate specie già estinte, che provegono dall’Istituto Vincenzo Comi di Teramo, raccolte dal preside della scuola, emerito botanico per passione. Ci colpisce il chartamus tinctorius, oggi rarissimo, un tempo utilizzato per tingere di giallo oro la lana. L’onthanus marittimus è invece scomparso assieme alle splendide dune cancellate dalla cementificazione selvaggia. Sarà un caso, ma quando c’era l’onthanus la costa adriatica era molto più bella. Filippo Tronca

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