L'Aquila-Haiti: le sventure esponenziali dei terremotati

di Antonio Gasbarrini

21 Gennaio 2010   12:42  

 

A vedere quelle inenarrabili scene apocalittiche haitiane tinte di grigio (polvere e macerie), rosso (sangue) e nero (morti), senti il tuo corpo – di terremotato aquilano scampato fisicamente alla tragedia del 6 aprile – pervaso dalle stesse scosse di un elettrochoc inferte ad un malato mentale. La realtà da cui sei attorniato non coincide più, dopo il Big One, con il topos, il luogo in cui credevi di aver ben impiantato le salde radici della tua sfuggevole esistenza terrena: “un’affacciata di finestra”, come dice saggiamente un proverbio marsicano.

Rivivi così al rallentatore la zigzagante dinamica di una traumatica sofferenza, amplificata fino al parossismo da numeri usciti fuori controllo con le centinaia di migliaia di morti e feriti ed i milioni senza cibo né tetto. Al momento, nelle discariche a cielo aperto ne hanno buttati dai camion, come inerti sacchi d’immondizia, 70.000. Subito ricoperti dal sordido lavorio delle ruspe in quelle fosse comuni della collinetta di Tytanien, già ampiamente utilizzate per altre decine di migliaia di oppositori, dai dittatori Duvalier, padre e figlio. L’impressionante cifra coincide con gli ex abitanti dell’intera città dell’Aquila: tutti sotterrati, quindi!

La tua impotenza e quella degli sventurati fratelli e sorelle haitiani di fronte alle ferocia devastatrice di una natura maligna – sono sempre i più poveri, i diseredati dimenticati da qualsivoglia dio, a “crepare” per primi – ti obbliga, comunque, una volta di più a guardarti intorno.

Il tuo piccolo cosmo di riferimento, il Paese dell’anima (Silone), visto dalla costa teramana in cui sei tuttora esiliato, è ancora la città natale, L’Aquila, o meglio la “Grande Aquila” comprensiva delle sue frazioni. Distrutta subito dopo la sua edificazione nella metà del Duecento da Manfredi, nuovamente legittimata poi da Carlo I D’Angiò (“Sey anni stette sconcia”, Buccio di Ranallo), ancora “messa giù” nei quattro secoli successivi da alcuni terribili terremoti, come quello del 1703.

Ma, l’aggettivo “terribile” non regge più di fronte all’ipertragedia haitiana, dove il peggio del peggio del Male è riuscito a scatenare tutte le energie negative d’una furibonda Natura, non contrastabili né da preghiere riparatrici, né tanto meno da esorcizzanti riti vudoo. Il vocabolario, d’ora in avanti, avrà bisogno di nuovi lemmi per significare l’orrore di tutto ciò che oltrepassa le inimmaginabili soglie del lutto, della sofferenza e della disperazione. Lo sterminio nei lager nazisti di circa 6 milioni di ebrei, zingari e omosessuali, ha già insegnato nel secolo scorso qualcosa in merito (si rileggano, in proposito, alcune pagine esemplari di George Steiner).

Un difficile confronto speculare tra il sisma aquilano delle 3.32 e quello haitiano delle 16.53, sembra mettere in luce due inconciliabili realtà: il “Paradiso terremotato” dei ricchi (i bianchi, occidentali aquilani, con le loro tende, casette, camere d’albergo, sotto la paterna ala protettiva emergenziale targata Protezione Civile) e l’ “Inferno sismico” dei pezzenti (i neri, caraibici haitiani, senza acqua, cibo, ospedali, medicine, ricoveri di fortuna; in un paio di parole, alle prese, da sempre, con la trionfante anarchia istituzionale).

Ti accorgi, inoltre, come le macerie, ogni tipo di macerie, si somiglino in modo impressionante. Perciò Haiti = L’Aquila, anche per quanto riguarda il cemento “disarmato”, taroccato dalla cupidigia dei costruttori-assassini, attecchiti, come nefasta gramigna, in ogni parte del globo.

Ti si stringe il cuore poi, quando ti tocca constatare come nella tua “fu città”, a circa 10 mesi dal sisma, i cumuli delle rovine stiano ancora tutti sparsi là, misurati e misurabili in tonnellate e metri cubi smaltibili in vari anni. Nel frattempo le crepe delle miglia di case non puntellate, si sono allargate a vista d’occhio. Con l’arrivo della inclemente stagione invernale, tra uno spanciamento e l’altro dovuti a piogge e gelo, case, palazzi, chiese e monumenti continueranno a cadere a pezzi o a crollare del tutto nelle disabitate zone rosse ancora presidiate da militari, quasi fosse ancora in corso una guerra: tra chi e che?

Ti viene irresistibile, allora, la voglia di urlare alla Münch. Più del 70% dell’ingente patrimonio monumentale, artistico e architettonico accumulato in circa 8 secoli dai progenitori, sta irrimediabilmente andando in rovina: lo ha coraggiosamente denunciato qualche giorno fa, con un’apposita lettera indirizzata al Capo del Governo, il Presidente d’Italia Nostra Alessandra Mottola Molfino, reclamando il varo di una legge speciale, finanziabile con il dirottamento dei vari miliardi di euro che saranno fagocitati dal faraonico Ponte di Messina. Né sono stati da meno il Presidente del Consiglio Nazionale del Ministero dei Beni Culturali Andrea Carandini ed il consigliere Gianfranco Cerasoli nel chiamare in causa l’esclusiva responsabilità della Protezione Civile per i mancati stanziamenti, inesistenti anche per la semplice copertura delle chiese sventrate (per tutte, l’ex gioiello della martoriata chiesa Capo quarto di S. Maria Paganica).

Di fronte all’oltraggio perpetrato, al limite del sacrilegio, ti chiedi e lo chiedi ad alta voce ai tuoi concittadini, cosa fare per rimediare a tanto scempio. Dovresti alzare le mani in segno di resa, come hanno già fatto molti aquilani beneficiati dal sisma. Nelle disgrazie collettive c’è sempre qualcuno che ci guadagna. Eppure non puoi non ribellarti. Quei Beni culturali che stanno andando in malora, facevano parte integrante del “tuo intangibile patrimonio spirituale”, una sorta di uso civico da te goduto gratuitamente sin dalla più tenera infanzia, allorché giocavi a pallone davanti al gigantesco spazio antistante la Basilica di S. Maria di Collemaggio, anch’essa ridotta a brandelli.

Poiché sei stato offeso ed impoverito difenditi, attaccando. Continuando a denunciare tutte le malefatte governative sulla inesistente ricostruzione dell’Aquila-città-fantasma. Chiedendo di nuovo i danni, materiali e morali, con una Class action azionabile non solo da te e dagli aquilani tutti, ma da coloro che nel futuro, se non cambierà la direzione di marcia, saranno privati per sempre della ineguagliabile Bellezza emanata da quelle pietre imbevute di storia e di memoria, ora declassate ad anonimi sassi. Smentire la fatale attrazione gravitazionale d’una tremante terra maledetta, con una bella frase dello scrittore Erri De Luca: “La macchina che negli alberi spinge linfa in alto è bellezza, perché solo la bellezza in natura contraddice la gravità”.

Bellezza vs Ignoranza. Già. Crassa ignoranza di chi (sig. b. in primis) ha semplicemente chiuso gli occhi, fatto finta di “non udire” i crescenti rantoli di quegli affreschi sminuzzati, di quei quadri e sculture ancora seppelliti, di quelle bifore, capitelli, portali, altari smembrati dalla incontenibile furia degli elementi. E tutto ciò, non già a causa di un destino cinico e baro, ma per l’insipienza, la superficialità, il dilettantismo, la tirchieria governativa in fatto di risorse finanziarie non-messe a disposizione per la “vera ricostruzione” di un’intera città, dove al momento non c’è più posto né per gli aquilani, né tanto meno per fantasmi e spettri. Dopo i reiterati, quindicennali bluff sulla riduzione delle tasse promesse dall’imperturbabile faccia bronzea del sig. b., risulta patetico il persistente lamento mantrico del Sindaco dell’Aquila Massimo Cialente sulla indifferibile istituzione di una tassa di solidarietà nazionale finalizzata alla riedificazione del Centro Storico. Tassa ch’era accettabile dagli italiani a stretto ridosso del sisma generatore anche di una forte onda emozionale, diventata vieppiù improponibile dopo lo sconquassante terremoto haitiano. Ridimensionante, con le sue vertiginose immagini mediatiche, l’evento aquilano, peraltro già scomparso dall’attenzione dei mass-media, com’è già percepibile dai ridotti servizi del TGR3 Abruzzo.

Il sole ingrigito dalle polveri haitiane oscurerà per sempre – non ci teniamo ad essere malauguranti profeti – i nitidi azzurri sovrastanti i solidificati silenzi della città-morta, geograficamente posizionata alla latitudine di 42,21 ed alla longitudine di 13,23: numeri magici la cui rispettiva somma, pari a 9, ha favorito da parte di alcuni studiosi, una lettura esoterica legata alla genesi del taumaturgico numero 99.

Avrà buon gioco allora, ne siamo sicuri, la propaganda governativa tesa ad esaltare il “miracolo italiano-aquilano” della sistemazione di 15.000-16.000 concittadini nelle “verdeggianti oasi delle c.a.s.e.tte”, miracolo da contrapporre al caos, alle violenze di ogni tipo ed alla completa disorganizzazione dei soccorsi in terra haitiana. Sottacendo un particolare non secondario: L’Aquila faceva e fa parte integrante dell’Italia e dell’Europa, cioè dell’Occidente opulento; l’Haiti francofona, da secoli sfruttata colonialisticamente ed i cui abitanti già soffrivano la fame prima del sisma, è, invece, tra i Paesi più poveri e arretrati del mondo. Un confronto, perciò, improponibile. Per di più offensivo per le decine e decine di migliaia di orfani isolani che costituiranno un vero banco di prova per la verifica di una non-pelosa, interessata solidarietà internazionale. L’infido neo-capitalismo globalizzato, soprattutto finanziario, sa perdere il pelo, ma non il vizio.

Anche se a prima vista potrà sembrare un paradosso, la riedificazione di buona parte della capitale Port-au-Prince e degli altri centri minori “appoltigliati” dal sisma di magnitudo 7.3 del 12 gennaio, presenterà aspetti problematici meno complessi di quelli facenti capo al Centro Storico dell’Aquila.

Là, infatti, è solamente un problema quantitativo, data la marginale presenza di edifici di pregio. Con risorse adeguate, peraltro provenienti esclusivamente dal sostegno finanziario di altri Paesi, sarà possibile ripianificare e riqualificare urbanisticamente il distrutto, senza prevedibili complicazioni di rilievo. Qui, a L’Aquila e negli altri centri storici dei dintorni, la salvaguardia dell’aspetto qualitativo (sintetizzabile nella parola d’ordine “dove era e come era”) sarà propedeutica ad una riuscita, sana e salvifica resurrezione. Non si tratterà semplicemente di ricostruire la città e gli altri centri storici minori devastati con criteri antisismici più affidabili e meno malandrini di quelli del passato. Piuttosto urge e sempre più sarà indifferibile, riprogettare ab ovo, ripensare con agguerriti strumenti scientifici, intellettuali e creativi, una città-territorio al momento inopinatamente smembrata dagli avventati, sciagurati, insediamenti popolari delle 19 little-towns (come continuo a definirle, al posto di new-towns).

Di nuovo, questi anonimi, standardizzati, costosissimi alloggi (chi e quanto ci ha guadagnato?), non hanno proprio niente, mentre di piccolo-piccolo, molto. Ad iniziare dalla caratteristica di essere, e lo saranno ancora per vari anni, dei semplici ghetti-dormitorio dove sarà consentito ai precari occupanti di sopravvivere alla meno peggio.

Un futuro meno opprimente per loro, per gli altri concittadini già rientrati in zona nelle loro abitazioni e per i circa 30.000 desparecidos nelle autonome sistemazioni e negli alberghi, ha un solo nome e cognome – L’Aquila / Città d’Europa – ed un univoco indirizzo: Centro Storico.

 

* Critico d’arte – Art Director del Centro Documentazione Artepoesia Contemporanea Angelus Novus, fondato nel 1988 (L’Aquila, Via Sassa 15, ZONA ROSSA). Attualmente “naufrago” sulla costa teramana. antonio.gasbarrini@gmail.com

 


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