L'Aquila, la strada verso casa

09 Settembre 2009   12:15  

A cinque mesi dal terremoto il silenzio avvolge le rovine della città mentre le tendopoli fanno spazio alle nuove abitazioni. Ecco come si ricomincia dove il tempo si è fermato.

Gli aquilani le chiamano «le processioni». Sono le passeggiate che dai giardini de La Villa conducono al Duomo. A sinistra, sul viale che conduce alla piazza, un’inferriata limita l’ingresso al Cinema Massimo. In cartellone c’è Gli amici del bar Margherita di Pupi Avati e un foglietto appeso accanto al faccione di Diego Abatantuono porta la scritta «Oggi». Il tempo a L’Aquila s’è fermato il 6 aprile, giorno di un terremoto che qui ha portato via case, anime, mestieri, voci di cortile. Mentre percorrono questa loro singolare via crucis i pellegrini aquilani sono illuminati da qualche raggio di luce, quella poca che filtra tra la ragnatela delle impalcature che sorreggono le mura di case ancora traballanti. All’improvviso, al termine di questo tunnel di ferro, s’illumina la piazza e gli aquilani, quasi muti, portano la mano sugli occhi disabituati al sole e appoggiano i nasi tra gli spiragli delle reti metalliche. E qui sospirano. La malinconia e l’immaginazione fanno il resto, restituendo alla memoria i profili delle case, delle chiese, dei negozi. Questa è ancora la loro strada verso casa, ma è rimasto loro solo lo struggimento del tragitto, non il ristoro della raggiunta destinazione.

Don Alberto, sacerdote della curia aquilana, passeggiando nei vicoli della zona rossa, al di là della recinzione, fa ampi gesti con le mani come a voler disegnare con il solo accenno i colori e i suoni di una vita scomparsa. Quasi a volerla resuscitare don Alberto smozzica una litania di correlativi oggettivi: «Qui il trambusto. I tavolini. Quanti tavolini. E qui la birreria. I giovani. La baldoria. Qui correvano i bambini. E qui il via vai dei turisti. Laggiù c’era sempre baccano. E qui gli universitari si fermavano a Messa, dopo gli studi». Don Alberto scosta una porta della chiesa San Giuseppe Artigiano, in cui mucchi di macerie s’arrampicano sugli inginocchiatoi delle panche. Dentro e fuori dall’edificio la medesima assenza di rumori. Un silenzio così si trova solo o molto in alto o molto in basso: sugli alpeggi montani o negli abissi marini. L’Aquila è oggi una città senza rumori, senza chiacchiere da ballatoio, senza più nemmeno lo scalpiccìo dei passi, se si eccettuano i propri, se si eccettuano quelli di qualche operaio o di qualche vigile del fuoco, ancora impegnato nel mettere in sicurezza le case pericolanti. A mezzogiorno una fila di loro addenta un panino riposandosi sui gradini di un grande edificio che s’affaccia su una piazza. Non parlano tra loro, quasi timorosi di incrinare la quiete. «Quanta vita, quanta vita che c’era qui – accenna il sacerdote – tutto era musica e baccano. Ora solo silenzio». Nella zona rossa dell’Aquila non circola anima viva: anche gli animali sembrano essere sfollati. Nessun gatto percorre i cornicioni delle case, nei cortili nessun cane abbaia ai forestieri, anche gli uccelli sembrano essere sfollati. «Quando ritorneremo? Nessuno lo sa, siamo ancora nella fase dell’emergenza. La gente che qui aveva casa o un’attività cerca di ripartire altrove. Però hanno fatto bene ad aprire tra le rovine questo passaggio e quello di via XX Settembre. Gli aquilani avevano nostalgia della loro città».
A pochi chilometri di distanza, in piazza d’Armi, la gente ha cominciato a sfollare. Piazza d’Armi è la più grande tendopoli dell’Aquila. Dopo il sisma hanno qui trovato riparo, sotto le tende della Protezione civile e del ministero dell’Interno, duemila persone. Settimana scorsa erano un migliaio e nel giro di qualche giorno hanno raggiunto le loro nuove sistemazioni nella scuola della Guardia di Finanza a Coppito, quella stessa struttura che in luglio ha ospitato i grandi della Terra per il G8, oggi capace di accogliere più di 1.500 persone.
Sono i giorni del cosiddetto “sgombero”: chi ha una casa classificata come A o B, cioè con lievi danni, deve rientrare nella propria abitazione. Per gli altri, per tutti gli altri che hanno perso tutto o quasi – c’è gente che quella notte s’è salvata dal terremoto uscendo di casa in mutande – lo Stato ha provveduto consegnando abitazioni o sistemandoli in residence o alberghi. Il giorno del sisma si potevano contare 70 mila sfollati, che hanno poi trovato sistemazione nelle tende (26 mila persone) o negli hotel (32 mila) o da parenti e amici. Entro la metà di settembre, molti entreranno nei nuovi alloggi, di sicuro entro la fine dello stesso mese nessuno dovrà più rimanere sotto una tenda. «L’inverno si avvicina – dicono gli aquilani – e qui d’inverno si ghiaccia».

La paura di tornare nelle case
A piazza d’Armi si ha la riprova di quanto la paura per il terremoto non sia ancora passata. In molti non vogliono andarsene. Spiegano: «Sì, siamo stanchi di vivere sotto le tende. Sì, lo sappiamo che arriva il freddo. Sì, lo sappiamo che dobbiamo rientrare in casa. Ma più di tutto, abbiamo paura». Si può solo constatare questo timore irrazionale, che si rintraccia in tutti i personali racconti degli aquilani. «Ogni rumore mi sembra una scossa», racconta una donna che ha arrangiato alla meglio la propria tenda per darle una parvenza di “casa”. Si dovrà arrendere anche lei e trasferirsi a Coppito, si dovrà arrendere a ricominciare come, in realtà, hanno già fatto in molti. La mattina dello “sgombero”, piazza d’Armi è stranamente silenziosa, s’odono solo gli strascichi delle scope con cui i militari puliscono i teli delle tende smontate e appoggiate al suolo. «Questo silenzio è un buon segno – spiega un ragazzo della Protezione civile – perché significa che la gente non è qui, ma a lavorare. Significa che ha ricominciato. Così come ricominceranno i bambini il 21 settembre, giorno di riapertura delle scuole».
Chi non ha mai smesso di lavorare sono gli ottomila operai che, di giorno e di notte, hanno messo a punto le abitazioni che ospiteranno 18 mila aquilani. Il capo della protezione civile, Guido Bertolaso, ha descritto l’Aquila come «il più grande cantiere del mondo». Cinquanta imprese edili hanno aperto quarantacinque cantieri nei pressi della città che, in un tempo record, hanno fatto crescere dal nulla palazzi di case che solo una certa demagogia definisce «di cartone». Nulla di più lontano dal vero, come ha potuto constatare anche Tempi, visitando quelle che sorgono a Bazzano, paese a due passi dall’Aquila. «Sono abitazioni ad alta tecnologia antisismica, con pannelli fotovoltaici, costruite in calcestruzzo, coibentate acusticamente e termicamente», spiegano a Tempi Alberto Palmucci, responsabile della commessa dell’impresa Mattioli, e l’ingegnere Luigi Patanè, amministratore di Soles, entrambi del consorzio Consta. Palmucci era con il premier Silvio Berlusconi sul tetto dell’edificio il giorno in cui è stata issata la bandiera italiana. Il premier è stato a Bazzano tre volte, una volta persino a Ferragosto, arrivando senza preavviso. Qui si racconta con un certo orgoglio dello stupore del premier: «Ma come, lavorate anche in un giorno di festa?» e dell’arguta risposta di un operaio: «Certo, presidente, e non perché sapevamo della sua visita».
L’edificazione di questi alloggi è, in effetti, al di là di ogni intento retorico, un piccolo grande caso di efficienza italiana. In poco più di due mesi, le imprese qui impegnate hanno costruito una nuova città antisismica, fornendo alloggi molto confortevoli e di diverse metrature (dai 45 ai 110 metri quadrati) che saranno consegnati completamente arredati. A seconda delle esigenze e del numero dei componenti del nucleo familiare, saranno assegnati monolocali, bilocali, trilocali e persino dei quadrilocali. «Case di cartone? – risponde ironicamente Patanè – senta qui». L’ingegnere apre una finestra e da fuori arriva il fracasso delle ruspe, dei camion, dei martelli degli operai che battono sul ferro. Chiude la finestra. Silenzio assoluto. «Mi sono spiegato? E l’insonorizzazione non è solo verso l’esterno, ma anche tra una camera e l’altra. Insomma, questi alloggi sono più belli di casa mia».

Quartieri nuovi di zecca
Tutto intorno sorgeranno prati e ogni abitazione può resistere senza danni a scosse sismiche anche di grande intensità (i pilastri su cui poggiano le case possono oscillare anche di trenta centimetri). «Quando siamo arrivati qui – racconta con un sorriso Patanè – eravamo messi peggio dei terremotati. Una squadra di trecento persone cui è stato solo detto: voi dovete costruire qui. Abbiamo portato generatori di corrente, container per dormire, camion con serbatoi d’acqua, allacciato fognature per allestire il nostro campo base. Sì, abbiamo lavorato giorno e notte a partire dall’11 luglio ed entro il 15 settembre consegneremo le case».
Gli aquilani attendono e preparano le valigie. Un semplice giro per le vie della città aiuta a rendersi conto di quanto “vivano sospesi” gli abitanti della città sventrata. Le tendopoli che vengono smontate, le lunghe file di roulotte e camper sui bordi delle strade, i cartelloni pubblicitari delle banche con offerte di mutui agevolati. «L’Aquila tornerà a volare», è lo slogan di questo nuovo inizio, ripetuto anche dal maestro Riccardo Muti che, gratuitamente, è stato in città per dirigere un concerto cui hanno assistito novemila abruzzesi.

Se riparte Onna riparte l’Abruzzo
Gli aquilani sostengono che «se riparte Onna, riparte l’Abruzzo». Onna è il paesino che è stato più colpito dal sisma: quaranta morti. Uno dei suoi abitanti è Giustino Parisse, giornalista del quotidiano locale Il Centro che quella notte ha perso il padre e i due figli. Parisse vede oggi una nuova Onna sorgere accanto alle macerie della vecchia: quarantacinque case di legno per un totale di novantaquattro alloggi. Le abitazioni hanno una metratura che varia dai 40 ai 70 metri quadrati «a seconda di quanti si è in famiglia. Io sono rimasto solo con mia moglie e quindi ho una casa con una camera da letto, un bagno, un ripostiglio, un ingresso cucina e anche uno spazio di verde davanti all’ingresso». Pronto anche un asilo di cinquecento metri quadrati, edificato grazie ai fondi trovati dal giornalista Bruno Vespa, e una chiesa, ancora in costruzione. «Noi onnesi – dice Parisse – siamo contenti, anche se consideriamo questa una sistemazione provvisoria. L’obiettivo è ricostruire il vecchio paese».
Parisse è diventato l’aedo di questa tragedia ed ha da poco dato alle stampe il libro Quant’era bella la mia Onna, cronache da dentro il terremoto, raccolta dei suoi articoli usciti sul quotidiano tra il 14 aprile e il 7 luglio. In esso, spiega l’autore a Tempi «parlo di Onna, della sua ricostruzione, del mio viaggio in tutti i paesi della zona. Narro dei centri storici devastati dal sisma, dei cuori fragili dell’Aquila, Paganica, Tempera, Poggio Picenze, Villa Sant’Angelo. E dei loro abitanti, dai giovani che hanno tanta voglia di fare ma che rischiamo di perdere per la mancanza di lavoro, agli anziani che spesso si fanno sopraffare dai ricordi e dalla nostalgia. E poi racconto molto delle persone della mia generazione che hanno visto in pochi istanti sparire tutto quello che avevano costruito nella vita: i cari, la casa, le “cose” che uno mette insieme durante l’esistenza. E parlo di questo shock iniziale che ci ha distrutti tutti, ma anche di questa nuova vita che ricomincia oggi, nella consapevolezza che non tutto quel che siamo e che abbiamo fatto possa essere abbandonato».

fonte: www.tempi.it


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