L'Aquila non è Kabul, cronaca di un disastro annunciato

23 Settembre 2009   10:39  

La terra trema e L’Aquila crolla. È la notte del 6 aprile 2009, una data che rimarrà impressa nella storia della città. Il centro storico è distrutto, così come tanti paesi a pochi chilometri dal capoluogo: Paganica, Onna, Tempera, molti altri. Lentamente riemergono i morti: sono dieci, cinquanta, cento. Trecento, forse più.

Giuseppe Caporale, corrispondente della «Repubblica» in Abruzzo, è tra le prime persone ad arrivare nel cuore martoriato del capoluogo abruzzese, forse il primo giornalista.

È ancora buio, la percezione di quanto è successo non del tutto chiara. Nei giorni successivi tutta Italia verrà a conoscenza della situazione surreale in cui la città era piombata fin da Natale: una serie infinita di piccole scosse continue, il famigerato sciame sismico, aveva tolto il sonno e la serenità a molti. Gli aquilani l’aspettavano da mesi, e alla fine il terremoto è arrivato davvero. Eppure in molti l’avevano detto. Tecnici, giornalisti, amministratori.

E forse chi doveva dar loro ascolto non l’ha fatto fino in fondo. Ma si può parlare davvero di tragedia annunciata? Le responsabilità umane esistono o si tratta solo di un terribile capriccio della natura? I soccorsi sono stati rapidi ed efficienti come avrebbero dovuto, e come è stato raccontato? A queste e ad altre domande risponde Caporale, stendendo un diario sul campo che parte dalle settimane immediatamente precedenti alla scossa fatidica e che arriva fino ai giorni del G8 di luglio


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