L'Aquila, zona rossa. Sette mesi dopo.

24 Novembre 2009   14:45  

Se c'è qualcosa che colpisce lo sguardo attento di chi si trova circondato da un teatro di devastazione qual è la zona rossa dell'Aquila, al di là della stravolgente e terrificante quantità di crolli, sono i dettagli apparentemente insignificanti. Quelli che sfuggono ad un primo sguardo. Ma che pesano come macigni se osservati con gli occhi di chi guarda una realtà come questa dopo oltre 7 mesi dal sisma.

I primi tra di essi sono i panni stesi ad asciugare al sole. In un altro luogo, o in un imprecisato periodo del passato, sarebbero uno dei tanti simboli di quotidianità. Nel centro storico dell'Aquila assumono, ineluttabilmente, un significato diametralmente opposto: sono il sintomo clinico dell'abbandono, dell'impossibilità di accedere a ciò che per anni è stata la propria casa. Neanche per recuperare quei pochi beni di prima necessità.

La prima tappa del viaggio in zona rossa è la chiesa di Santa Maria di Paganica, la meno attenzionata dalla stampa, sebbene la più martoriata. Le mura perimetrali esterne sono l'unico lascito di questo monumento ricostruito ex-novo dopo il terremoto del 1700.
Il lessico italiano è privo di sostantivi o aggettivi in grado di rendere l'entità del disastro, dello stupro selvaggio subito da beni monumentali come questo. Anche le immagini, seppure intrinsecamente stravolgenti, fanno fatica a tradurre le sensazioni che si è costretti a subire una volta catapultati lì dentro.



Le macerie al suo interno (che riusciamo a testimoniare dopo un breve tira e molla con i responsabili della Protezione Civile per i Beni Culturali) arrivano a coprire in altezza quasi metà dell'abside.







Una quantità non superiore a quella che sovrasta l'intera piazza antistante.



Uno spettacolo quantomai simile a quello fornito da tutte le altre piazze di ciò che resta del centro storico del capoluogo abruzzese: cumuli di detriti ammassati in ogni spazio possibile, impalcature, pochi implacabili uomini al lavoro. E silenzio.
Quel silenzio che annichilisce il ricordo del chiasso di quelle strade una volta brulicanti di famiglie al passeggio e di studenti universitari.

Piazza Palazzo non fa eccezione. Con la mole di detriti lungo un intero lato della piazza e con l'altra che quasi occlude il passaggio verso Santa Margherita.





E neanche Piazza San Pietro, la sua omonima Chiesa e l'edificio di ciò che qualche mese fa era uno dei ritrovi più gettonati dei ragazzi dell'Aquila: lo Student Bar.




Eppure, contro ogni più fervida, lugubre immaginazione, la triste immagine di questo scorcio finisce per annullarsi di fronte all'agghiacciante testimonianza fornita da Via Roma e dalle vie adiacenti a Piazza San Pietro (Via Pretatti e Via San Pietro in primis).





I Vigili del Fuoco che ci accompagnano ci confidano che una enorme porzione dell'abitato aquilano (molto più vasta di quanto si possa pensare) non è accessibile neanche al più esperto e sconsiderato degli addetti ai lavori. Moltissime case sono destinate ad implodere. Nella maggior parte dei casi con i numerosi beni familiari imprigionati al suo interno.




La città segue questa connotazione tipica da "città fantasma" in ogni angolo della zona rossa: Via Roma, con i libri di Diritto Amministrativo e gli appunti di Economia dei Pubblici Servizi lungo il ciglio della strada, Via Giovanni XXIII, con ciò che resta di macchine sottoposte ad una devastante pioggia di mattoni, Via Fontesecco con i suoi crolli estesi e così via.





Piazza Duomo, quello stesso luogo dove quattro mesi fa Michelle Obama e Carla Bruni duellavano in una patetica gara del look istituita dalla stampa nazionale, costituisce la solita parziale eccezione, con i suoi cantieri sempre all'opera e con un senso di ordine post-sisma invidiabile.
Casualmente è anche la piazza più frequentata dai giornalisti di tutta Italia, prima e dopo la parziale apertura al pubblico.

Basta spingersi pochi metri più in là, lungo Via Roio e Via Sassa e lungo le tante stradine trasversali per assistere ad una realtà profondamente diversa, fatta di abbandono (più mediatico che operativo). Il destino di ogni zona della città priva di chiese e ricca di abitazioni.

L'uso così frequente del termine "ricostruzione" in riferimento alla realtà della città più tristemente celebre d'Italia è una scelta oltraggiosa se solo si considera ciò che l'intero nucleo urbano dell'Aquila e di tutto il comprensorio, dentro e fuori le diverse zone rosse, è oggi. Basta un'occhiata fugace per capire all'istante che il termine "ricostruzione", da queste parti, ora come ora, è un privilegio inesistente, oltre che un'offesa beffarda.

Durante la visita di Obama in zona rossa Il Sole 24 Ore titolava "L'Aquila come Ground Zero".
Un paragone pretestuoso per qualcuno, appropriato per altri.
Rispetto alla tragedia dell'11 settembre, L'Aquila porta sulle proprie spalle il peso di un numero minore di vittime. Ma si fa carico della stessa angoscia.
E della stessa rabbia che contraddistingue i pensieri di chi è costretto a comprendere solo a posteriori ciò che poteva essere fatto ed è stato invece disatteso.


PS: Ringrazio di tutto cuore i Vigili del Fuoco che mi hanno accompagnato, per la cordialità, la gentilezza e la disponibilità straordinarie che hanno dimostrato in ogni singolo istante.


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