L'orogenesi del massiccio del Gran Sasso, sotto osservazione

Il telescopio sismico Underseis ha visto qualcosa

14 Ottobre 2009   12:56  

Teramo / Il Re degli Appennini è vivo! L’orogenesi del massiccio del Gran Sasso, sotto osservazione. La parte orientale della piattaforma Laziale-Abruzzese ha accelerato dopo il terremoto di Avezzano 1915, inducendo un forte aumento della deformazione nell’Appennino settentrionale e quindi della probabilità di terremoti. Che cosa ha visto il potente sistema investigativo “Underseis” nel Laboratorio Nazionale del Gran Sasso? Frutto della collaborazione Infn-Ingv con le università di Siena, Salerno e Bologna, venti sensori permettono di “illuminare” la montagna. Imponente è il flusso di dati acquisito per lo studio della catena appenninica: osservazioni geodetiche, geofisiche e geologiche con esperimenti di modellazione numerica, sono in corso. Servono agli scienziati per definire una procedura per la stima deterministica della pericolosità sismica. L’ipotesi è che la probabilità di forti terremoti (di magnitudo superiore ai 5.5° Richter), aumenti significativamente in risposta a scosse intense in zone connesse con l’Appennino. La massima probabilità di accadimento di terremoti indotti coincide con l’arrivo, nelle zone sismiche, del picco del tasso di deformazione. Il principale risultato atteso dalle attività del progetto Underseis, è la definizione di una procedura per la stima deterministica della pericolosità sismica nella catena appenninica. Siamo pronti alla creazione di una “FEMA” europea: un’Agenzia di grande prestigio e di ampi poteri istituzionali ed operativi sul territorio degli Stati dell’Unione.

di Nicola Facciolini

Nel cuore del Gran Sasso, la ricerca sismologica italiana segna il passo nel quadro dei progetti internazionali Infn-Ingv per lo studio dei terremoti e dei processi deformativi nella crosta terrestre lungo la dorsale appenninica. L’imponente flusso di dati, già prima del sisma di L’Aquila del 6 aprile 2009, irradiato dalle osservazioni nella catena del Gran Sasso, richiederà decenni di elaborazione. Senza contare i dati post sisma. Le rilevazioni geodetiche, geofisiche e geologiche e gli esperimenti teorici, servono agli scienziati Infn-Ingv a definire una procedura per la stima deterministica della pericolosità sismica del nostro territorio. Il Re degli Appennini, il Gran Sasso d’Italia, è una montagna viva! E non un “Gigante che dorme”, espressione abulica, scientificamente scorretta. L’orogenesi degli Appennini continua, la radiazione sismica lo dimostra: forse tra cento, mille, diecimila, centomila anni, un istantaneo scatto “tettonico” libererà non solo dalla radici del Gran Sasso e dei Monti della Laga, energie tali da generare un sisma di grande magnitudo (Big One) in Abruzzo, un evento finora ignoto nella memoria storica. Non resta che prepararsi con la conoscenza, sostenendo il lavoro degli scienziati che inviano il classico “avviso” ai naviganti, associabile al classico messaggio in bottiglia. Un carattere ricorrente dei terremoti del nostro territorio è di avere la scossa principale più forte, preceduta anche da mesi di scosse minori. Sia chiaro, non si osserva per ora nulla di preoccupante sul Gran Sasso, ma la Natura consiglia prudenza ed attenzione. Esperimenti e progetti sono in corso per studiare i segreti della sottile crosta terrestre sulla quale “galleggiamo” e viviamo. Frutto di una collaborazione tra Infn e Ingv con le università di Siena, Salerno e Bologna, le osservazioni del telescopio Underseis sotto il Gran Sasso da anni “illuminano” i più piccoli eventi sismici nella nostra regione, insieme all’altro esperimento Gigs d’interferometria laser. Coordinatore scientifico del programma di ricerca è il professor Enzo Mantovani dell’Università di Siena. La “ragnatela di sensori” a piccola apertura di Underseis, potente strumento ad alta sensibilità, è progettata e installata nelle sale dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso, nelle radici del monte Aquila, come un unico sistema di monitoraggio per indagare l’attività sismica dell’Appennino centrale, in particolare del massiccio del Gran Sasso e dell’intero Abruzzo. I venti sensori di Underseis consentono di “vedere” lunghezze d’onda comprese tra 1800-500 metri che corrispondono a velocità di fase tra 0.2 e 10 km/s (1-20 Hz). E qualcosa hanno visto e registrato prima del 6 aprile 2009. Il professor Roberto Scarpa dell’Università di Salerno, responsabile dell’esperimento sismologico UnderSeis, ha presentato le conclusioni del convegno dell’European Geophysical Union tenutosi a Vienna lo scorso aprile. In Abruzzo UnderSeis prima del terremoto (magnitudo 6.3°) di L’Aquila, ha effettivamente visto qualcosa. “La mappa illustra la concentrazione spaziale dei terremoti registrati al sistema UnderSeis nel periodo 2006-2008 – fa notare il professor Scarpa – e nella figura viene evidenziata la distribuzione di eventi sismici lungo la zona di frattura attivata il 6 aprile. Il massiccio del Gran Sasso costituisce uno dei sistemi sismogenetici a più elevato potenziale della regione. Da un punto di vista scientifico, l’energia sismica accumulata nella zona di L’Aquila non si è esaurita con l’evento del 6 aprile 2009, ma continua ad accumularsi nella crosta terrestre e nelle faglie adiacenti”. Gli scienziati per faglia del Gran Sasso intendono un sistema costituito da tante faglie espressione in superficie di una sola faglia sismogenetica da considerarsi attiva. L’elaborazione di UnderSeis continua. Gli scienziati ci stanno lavorando. L’interpretazione dei dati è complessa. La metodologia è basata sull’ipotesi che la probabilità di forti terremoti (di magnitudo superiore ai 5.5° Richter) nella catena aumenti significativamente in risposta a scosse intense in zone connesse con l’Appennino. Per gli scienziati questa ipotesi è sostenuta dalle conoscenze finora acquisite sul quadro geodinamico e tettonico nell’area mediterranea centrale. Il fenomeno fisico è la diffusione dello sforzo associata al rilassamento post sismico dello strato viscoso accoppiato con lo strato elastico superficiale. Le conoscenze sulle montagne e le faglie nell’Appennino e sui possibili effetti del rilassamento indotto da forti terremoti lungo i bordi della placca adriatica, si rivelano essenziali. Gli scienziati, grazie a misure geodetiche e sismologiche, stanno cercando di definire in modo sempre più realistico i campi di spostamento e deformazione (perpendicolari all’orientamento della dorsale appenninica) che consentono di riconoscere in tempo utile eventuali perturbazioni future innescate da scosse intense nelle zone tettoniche interconnesse con quelle appenniniche. L’attività di monitoraggio viene effettuata mediante stazioni Gps permanenti, sfruttando la notevole densità della rete oggi disponibile, e da osservazioni anche dallo spazio, usando le informazioni fornite dalla rete sismica nazionale. I ricercatori dell’Università di Salerno hanno fornito negli ultimi anni un contributo importante per capire i processi sismici dell’Italia centro-meridionale, con l’analisi dettagliata del meccanismo dei terremoti avvenuti nel 1908, 1915, 1976 e del 1980, gli eventi più energetici lungo la penisola italiana, prima del terremoto di L’Aquila del 2009. Gli studi sulla microsismicità e l’analisi della deformazione in profondità, vanno potenziati. Nei Laboratori sotterranei del Gran Sasso sono in funzione dal 1999 due interferometri laser che “hanno già evidenziato la presenza di sciami cosismici di terremoti lenti, avvenuti nel corso del 1997 e legati ad una fratturazione superficiale del massiccio del Gran Sasso, con implicazioni ancora non del tutto chiarite sui processi deformativi e sismogenetici dell’area” (Luca Crescentini et altri, 1999; Amoruso et altri, 2002). Questi eventi avrebbero messo in evidenza “una legge di scala dei terremoti lenti legata ad un processo di diffusione”. Il gruppo ha gestito per un decennio una rete sismometrica digitale del Servizio Sismico Nazionale, ora trasferita all’Ingv, per analizzare in dettaglio alcune caratteristiche sismotettoniche della regione abruzzese (De Luca et al., 1998; 2000). Fenomeni dell’Appennino centrale, studiati grazie a un potente sistema investigativo: l’antenna sismica sotterranea Underseis (Scarpa et al., 2004) di Infn e Ingv. Il telescopio è in grado di “osservare” i principali parametri dei terremoti regionali, illuminando eventi in genere coperti da rumore alle singole stazioni sismiche (Saccorotti et al., 2006; Tronca et al., 2007). Con il vantaggio di mettere in evidenza l’eventuale presenza di segnali di origine tettonica, collegati a rilascio di “silent creeping”. La scelta dei siti nell’Appennino meridionale “è motivata dalla loro vicinanza alla zona di rottura del terremoto del 1980, che risulta ancora interessata da processi post-sismici di deformazione, come rilevato dalla microsismicità della regione”. I ricercatori italiani sono in stretta collaborazione scientifica con il Department of Terrestrial Magnetism della Carnegie Institution (A.Linde e S.Sacks) e con R. Bilham, dell’Università del Colorado. L’obiettivo di questi studi è, però, molto più ambizioso.

Gli scienziati cercano di definire il contesto geodinamico responsabile del quadro deformativo nel sistema Tirreno-Appennino relativo al Pleistocene medio-superiore, mediante un’analisi sempre più approfondita e integrata delle evidenze geologiche, vulcanologiche e geofisiche oggi disponibili.

Particolare attenzione viene dedicata alla comprensione delle possibili implicazioni delle informazioni strutturali fornite dal Progetto Crop. Con indagini sulla connessione tra i terremoti della placca Adriatica, fortemente influenzata dalla distribuzione degli eventi sismici lungo le zone adiacenti, e l’attività sismotettonica della catena appenninica. I possibili effetti del rilassamento post-sismico innescato da forti terremoti nelle zone dell’Adriatico, vengono indagati mediante esperimenti numerici. Le informazioni ottenute da queste ricerche saranno usate per cercare possibili spiegazioni della distribuzione spazio-temporale delle scosse maggiori (di 5.5° Richter) avvenute negli ultimi 200 anni nella zona adriatica e nelle catene montuose circostanti.

Gli scienziati impiegano il criterio (giustificato dalle attuali conoscenze sulla meccanica delle faglie sismiche, e.g. Toda et al., 2002) per cui la massima probabilità di accadimento di terremoti indotti coincide con l’arrivo, nelle zone sismiche implicate, del picco del tasso di deformazione (e.g., Viti et al., 2003 e riferimenti). Vengono condotti studi sulla possibile connessione tra la probabilità di terremoti forti nella catena appenninica ed anomalie della sismicità minore, indagati con la rete sismica nazionale e con altre reti gestite dalle università. Mediante misure del rumore sismico ambientale viene anche studiata la propagazione delle onde sismiche durante la deformazione crostale. Gli scienziati da queste ricerche intendono definire una procedura per la stima deterministica della pericolosità sismica nella catena appenninica, fornendo una spiegazione plausibile per la distribuzione dei forti terremoti storici in alcune zone della catena. I terremoti attesi sono legati alla diffusione dello sforzo, indotta dai terremoti innescanti, cioè un fenomeno i cui effetti sono prevedibilmente rilevabili con osservazioni geodetiche e sismologiche sul campo.

La comunità scientifica sa che “la distribuzione dei terremoti nello spazio e nel tempo è strettamente controllata dallo sviluppo dei processi tettonici di medio e breve termine” (e.g., Anderson, 1975; Marsan and Bean, 2000, 2003). Questo può spiegare il fatto che in molte zone sismiche l’andamento temporale della sismicità è caratterizzato da periodi di maggiore attività separati da periodi relativamente lunghi, di attività minore. Le fasi di maggiore attività sono sistematicamente indotte dal verificarsi di condizioni favorevoli nelle regioni circostanti. Se tali condizioni fossero riconosciute la stima dell’andamento temporale della pericolosità sismica nella zona sarebbe notevolmente agevolata. Tuttavia, “la praticabilità di questa procedura è condizionata dal livello di conoscenza dei processi tettonici attuali e della loro connessione con l’attività sismica nella zona in esame”. Le informazioni finora acquisiste su questo argomento (Mantovani, Albarello, Viti et altri) suggeriscono che “per alcune zone sismiche della catena appenninica i periodi di intensa sismicità sono condizionati dal verificarsi di forti terremoti di disaccoppiamento tettonico in altre zone dell’area mediterranea centrale”. Il fenomeno fisico attraverso cui la sismicità di una zona può influenzare quelle delle zone circostanti, conosciuto con il nome di rilassamento post-sismico, consiste nella propagazione attraverso le zone circostanti della deformazione prodotta da un forte evento sismico in una zona del sistema in oggetto (Anderson, Rydeleck, Sacks, Pollitz, Hearn, Lorenzo-Martin, Feigl, Thatcher, Freed et altri, 1975-2007). “Quando gli effetti di tale propagazione, in particolare il picco del tasso di deformazione, raggiungono le zone sismiche circostanti dove esistono faglie orientate favorevolmente, la probabilità di terremoti aumenta significativamente” (Toda, Viti et altri, 2003). L’esistenza di variazioni nel campo di deformazione è stata messa in evidenza nell’area italiana dall’andamento temporale delle quote piezometriche di acquiferi profondi (Albarello e Martinelli, 1994) e da misure clinometriche (Rossi e Zadro, 1996). In particolare, “evidenze in questo senso sono fornite dalla significativa corrispondenza temporale riconosciuta tra le scosse più intense nell’Appennino Meridionale e quelle delle zone balcaniche antistanti” (Mantovani, Albarello et altri, 1991-97). Lo studio quantitativo dei possibili effetti del rilassamento post-sismico innescato da forti terremoti nelle regioni peri-adriatiche (Mantovani,  Cenni, Viti et altri, 2003) ha messo in evidenza che “l’ampiezza della perturbazione attesa del campo di spostamento (da centimetri a decine di centimetri, per terremoti intensi come quello del Montenegro del 15/4/1979, M=7) è significativamente più elevata del potere risolutivo (qualche millimetro) delle misure geodetiche effettuate con stazioni Gps permanenti”. Studi avvalorati dall’analisi sotto il Gran Sasso (esperimenti Underseis e Gigs) di fenomeni sismici poco noti quali i terremoti “lenti” e i fenomeni di “creep” associati al processo sismogenetico (Crescentini, Amoruso, Scarpa et altri, 1999-2004). La presenza di perturbazioni nella crosta appenninica può anche essere rivelata dallo studio di eventuali variazioni nella modalità di propagazione delle onde sismiche, eseguito con diverse tecniche, anche attraverso l’analisi del campo d’onda associato alla radiazione diffusa. Tecniche di indagine applicate in particolare alle due zone italiane (Appennino meridionale e centro-settentrionale) “dove sono state osservate le più significative regolarità del comportamento sismico”. L’ipotesi che la corrispondenza osservata tra terremoti appenninici e dinarici sia dovuta ad una stretta connessione tettonica tra le due zone, è discussa in molti lavori (Mantovani, Albarello, Viti et altri). “La tettonica distensionale nell’Appennino meridionale è favorita dall’attivazione sismica della zona di sottoscorrimento situata lungo il bordo occidentale della placca adriatica” (Viti et altri, 2006). Questo studio potrebbe spiegare perché “la forte scossa del Montenegro (M=7) avvenuta nell’Aprile 1979 è stata seguita dall’attivazione di una faglia distensiva nell’Appennino meridionale (Irpinia, 23/11/1980, M=6.5) e anche tutte le altre analoghe corrispondenze verificatesi dal 1850 in poi” (Mantovani, Albarello et altri). Ulteriore supporto all’interpretazione citata “proviene dalla modellazione numerica del rilassamento post-sismico innescato dal forte terremoto del Montenegro (Viti, Mantovani et altri), che ha mostrato che l’ampiezza massima del tasso di deformazione (cioè il parametro che maggiormente favorisce il comportamento fragile delle rocce) ha raggiunto l’Irpinia con un ritardo compatibile con quello della scossa del 1980”. Anche nell’Appennino settentrionale le notevoli conoscenze attuali, articolate in studi geologici (Piccardi et altri, 1999-2006), indagini sismotettoniche (Mantovani, Amoruso, Viti et altri), ricostruzione di profili geologici (Viti et altri, 1997), osservazioni geodetiche (Anzidei, Babbucci, Cenni et altri, 2007), ricostruzioni della storia evolutiva (Mantovani, Viti et altri, 2006) e modellazioni numeriche del quadro tettonico (Albarello, Mantovani, Viti et altri, 2007) “sembrano sufficienti per riconoscere le condizioni preparatorie di terremoti forti”. Questa ipotesi è per gli scienziati principalmente suffragata da alcune considerazioni. Esistono studi in grado di suggerire che “le deformazioni quaternarie dell’Appennino settentrionale sono state determinate dall’indentazione della parte orientale della piattaforma Laziale-Abruzzese (LA). Quando quest’ultimo blocco riesce a svincolarsi dalla parte occidentale di LA, per l’attivazione sismica della zona trans-tensiva che le separa, causa un significativo aumento dello stress nell’adiacente Appennino settentrionale” (Ibidem). “Nella zona dove la parte più mobile dell’Appennino settentrionale (Unità Umbro-Marchigiane-Romagnole) si separa dalla parte interna della catena, si sviluppa la tettonica distensiva che ha prodotto la formazione della sequenza di fosse dalla Val Tiberina fino alla Lunigiana”.

Nel breve termine, il processo sopra citato non avviene in modo continuo, ma per accelerazioni successive durante i periodi che seguono i forti terremoti di disaccoppiamento nell’Appennino centrale. L’interpretazione descritta può spiegare il comportamento molto peculiare dell’Appennino settentrionale, caratterizzato da una concentrazione eccezionale di scosse intense (M=5.5) nel periodo 1915-1920, che ha seguito il forte terremoto di Avezzano del 1915, avvenuto lungo la zona di disaccoppiamento tra la parte orientale e quella occidentale della piattaforma Laziale-Abruzzese. “Il meccanismo focale del terremoto di Avezzano, una trans-tensione sinistra lungo una faglia orientata NO-SE (Amoruso et altri, 1998), è in accordo con il meccanismo di disaccoppiamento ipotizzato tra le due parti della piattaforma LA”. La presenza di “un tale regime tettonico nella parte assiale di questa piattaforma è confermata dall’analisi delle evidenze neotettoniche” (Galadini, Piccardi et altri, 1999, 2006), consistenti con l’ipotesi che “dopo il disaccoppiamento sismico di Avezzano (1915), la parte orientale della piattaforma LA ha accelerato, inducendo un forte aumento della deformazione nell’Appennino settentrionale e quindi della probabilità di terremoti in quel settore”. La “quantificazione degli effetti del rilassamento post-sismico indotto dal terremoto di Avezzano (Cenni, Mantovani et altri) ha permesso di verificare che i tempi di ritardo delle scosse nell’Appennino settentrionale, attesi come effetti di tale rilassamento, sono compatibili con quelli osservati (da uno a cinque anni, procedendo da SE verso NW lungo l’arco della catena)”.

Questi studi dimostrano che da anni la “corsa contro il tempo” interessa soprattutto il mondo della scienza. Le tredici Raccomandazioni incise a caratteri cubitali, a L’Aquila lo scorso 2 ottobre, nel documento redatto dal G10 internazionale dei geoscienziati, devono necessariamente trovare al più presto una via protocollare di Protezione civile, per non rimanere lettera morta, in attesa della prossima tragedia. “Quake forecasting” probabilistico e via deterministica sperimentale, devono armonicamente convolare a giuste “nozze” in Italia, sia per la previsione degli eventi sismici di grande magnitudo sia dei loro effetti sul territorio. Bisogna studiare le faglie superficiali e profonde, con ogni mezzo tecnologicamente disponibile, senza badare a spese. Che poi costi non sono, semmai investimenti finalizzati alla ricerca di una “via di mezzo” per la previsione dei terremoti e per la totale messa in sicurezza di tutti gli edifici pubblici e privati nel nostro Bel Paese.

Un vivo, cordiale e caloroso ringraziamento al Capo della Protezione civile italiana, il dott. Guido Bertolaso, che in questi anni ha saputo, come universalmente riconosciuto, coniugare il suo ruolo istituzionale a quello di responsabile in primissima persona di un settore strategico dello Stato attraverso scelte operative di grande efficacia, inaugurando una nuova stagione “europea” nel rapporto tra ricerca scientifica, prevenzione delle calamità naturali e organizzazione delle risorse umane e dei soccorsi sul territorio. I cittadini sentono di essere pronti alla creazione di una “FEMA” made in Europe, un’Agenzia di grande prestigio e di ampi poteri istituzionali ed operativi sul territorio degli Stati dell’Unione, prima, durante e dopo le calamità naturali. Ma sentono, soprattutto, di avere ancora bisogno del loro Capo della Protezione civile italiana, il dott. Guido Bertolaso.

Nicola Facciolini

 


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