La new town di Cavallerizzo e il futuro dei paesi del cratere

30 Agosto 2010   13:43  

Cavallerizzo di Cerzeto, in provincia di Cosenza, è un paese colpito cinque anni fa da una frana. Protezione civile e Comune, protagoniste della ricostruzione, hanno deciso di realizzare un new village di villette a schiera, che sarà la nuova casa per gli sfollati. Ma i diretti interessanti, o almeno una parte di essi, rivogliono le vecchie case in paese, e nel nuovo villaggio, costato 60 milioni di euro, e che sarà pronto tra pochi mesi, non ci vogliono andare.

Una vicenda questa molto significativa per la ricostruzione aquilana. Il dilemma ''ricostruire altrove ed ex-novo, oppure com'era e dov'era'', si riproporrà senz'altro nel cratere sismico. Ed allora il caso-Cerzeto va analizzato ed anzi studiato con attenzione.

A tale scopo proponiamo  un articolo di www.newz.it che riferisce della manifestazione di protesta a cui ha partecipato in segno di solidarietà anche una delegazione del comitato 3e32 dell'Aquila. A seguire un reportage di Luigi Guido per Nuova agenzia radicale, che prende posizione contro la new town. Infine un articolo di Eva Bosco per l'Ansa, invece favorevole al progetto.

Cerzeto. I cittadini di Cavallerizzo tornano in piazza per dire no alla delocalizzazione (fonte www.newz.it)

Nuovamente in piazza gli abitanti di Cavallerizzo, frazione di Cerzeto, che mal sopportano l'idea di spostarsi nelle nuove residenze concepite dalla Protezione Civile e dalla Prefettura di Cosenza, che del progetto è l'Ente Attuatore. Ragioni affettive e non solo hanno indotto alcuni di loro a rifiutare le sistemazioni offerte ed a esprimere un dissenso che nella giornata di oggi si è concretizzato con una protesta organizzata dal comitato "Cavallerizzovive" ed alla quale hanno dato pieno sostegno la Cgil ed Italia Nostra. Significativa la presenza tra i manifestanti di alcune persone giunte fino a Cerzeto direttamente dall'Aquila, componenti dell'associazione "3.322 e che dopo il terremoto dello scorso anno sono state costrette a lasciare le loro abitazioni.

Schierati sulla posizione di un netto rifiuto rispetto alla delocalizzazione che li sposterà in modo definitivo dalle strade e dall'atmosfera del centro storico del capoluogo abruzzese, stanno sostenendo la battaglia dei cittadini di Cavallerizzo non ci stanno ad abbandonare le case per le quali hanno speso soldi e dove conservano momenti importanti delle loro esistenze.

Il 7 marzo di 5 anni fa uno smottamento franoso portò allo sgombero dell'intera area, ma oggi le diverse decine di persone presenti al sit-in dicono che la situazione è radicalmente mutata. A gran voce, infatti, affermano: "Che solo una parte della frazione è interessata alla frana, il resto del centro storico è intatto. Perchè non possiamo tornarci? E poi per tre giorni a settimana abbiamo il permesso di andarci. In quei giorni la frana si ferma? Non è ugualmente pericoloso?".

C'è stato qualcuno che ha deciso di compiere passi formali, rinunciando ufficialmente alla residenza assegnatagli e chiedendo in cambio un risarcimento che, tuttavia, non è stato accordato. Sono in tanti a battere il tasto dello sperpero di risorse pubbliche per la realizzazione della cosiddetta "new town", i cui lavori dovrebbero essere ultimati entro i prossimi quattro mesi. Nei cartelli esibiti dai manifestanti è ben visibile tutto il senso della protesta: "No alla New Town", "Sprecopoli" e "60 milioni di euro buttati al vento". Antonio Madotto, che del comitato "Cavallerizzovive" è il segretario, ha spiegato che "Anche la Soprintendenza calabrese ha imposto l'obbligo del recupero dell'antico abitato di cui si chiede l'attuazione del restauro per non fare scomparire le tradizioni etnico linguistiche arbereshe. Chiediamo di salvaguardare il vecchio paese senza togliere niente a nessuno".

Di parere diametralmente opposto è l'Amministrazione comunale di Cerzeto che con un comunicato diffuso in giornata ha rivendicato che "la stragrande maggioranza è stretta intorno al progetto di ricostruzione difeso e sostenuto dall'attuale amministrazione in tutte le sedi e con ogni mezzo".

Il Sindaco Giuseppe Rizzo e l'assessore alla Ricostruzione Giuseppe Giunta rimarcano che la soluzione individuata rappresenta l'esito di un processo decisionale "condiviso dalla quasi totalità dei cittadini di Cavallerizzo, supportati e difesi sin da subito dal Comitato per Cavallerizzo che ha sostenuto e aiutato, con puntuali interventi, sia lo studio preliminare progettuale che la successiva fase esecutiva.

A supportare il progetto c'è stata una "raccolta formale e giuridicamente inoppugnabile di adesioni durante l'elaborazione progettuale e con la condivisione delle unità abitative mediante incontri, protrattisi per alcuni mesi, presso l'Ufficio del Soggetto attuatore alla Prefettura di Cosenza e che hanno coinvolto l'intera popolazione. Tutti gli enti locali hanno condiviso la scelta di delocalizzare l'abitato di Cavallerizzo con deliberazioni formali sin dalla conclusione degli studi sulla pericolosità del vecchio abitato, dall'Amministrazione comunale, alla Provincia di Cosenza ed alla Regione Calabria. Nulla è stato imposto dall'alto".

Così nascono le new town. Come annientare un popolo senza versare una goccia di sangue
di Luigi Guido - Nuova agenzia radicale

Sono le cinque del mattino quando Silvio Madotto apre le porte della chiesa e inizia a suonare le campane. Il parroco di paese in quei giorni non c'è. Le chiavi le ha Silvio, che per mestiere fa l'agente di polizia municipale e per destino l'eroe. Don don, dan dan, din don dan. La corrente elettrica è la prima vittima della frana che sta avanzando. Ora bisogna tirar le corde per farle suonare quelle campane. Ci pensano Aldo e Antonio, figli di Silvio, mentre papà corre come un forsennato per le case dei suoi compaesani.

"Sbrigatevi, il paese sta venendo giù. Correte, correte, correte". I rintocchi e la voce forte e rauca della sentinella danno gli ultimi strappi al silenzio di quella notte tagliente e umida: un silenzio che, da allora in poi, regnerà sovrano a Cavallerizzo di Cerzeto.

È ancora buio pesto all'alba del 7 marzo 2005. Le ultime frustate dell'inverno arrivano con la neve che imbianca l'appennino paolano, sino alle sue pendici: proprio dove sorge l'antico borgo italo-albanese che di lì a poco sta per patire una ferita attesa da secoli. Eppure scongiurata, sino ad allora. Dan dan, don don, din don dan. Aldo tira le corde del campanile fino a spellarsi le mani. Silvio tira urli tra i borghi della frazione dove incomincia il via vai ordinato della gente che già sapeva, lo ha visto il giorno prima che il momento era arrivato. Chi in pigiama, chi già vestito da sotto le coperte, arraffa quel che può e si fionda in macchina.

Ma il punto, drammatico, è che sapeva e vedeva pure qualcun altro, da dietro le quinte, nella stanza dei bottoni a trenta chilometri di distanza, ma anche a 130 e persino a 630. Nella sala operativa della Protezione civile di Cosenza, nella direzione regionale di Catanzaro, nell'olimpo di Guido Bertolaso a Roma: alle 12.30 del giorno prima, il 6 marzo, Ernesto Golemme da Cavallerizzo telefona agli uffici di Cosenza chiedendo informazioni "circa un mancato intervento" sulla frana in atto. Sapevano e non dal giorno prima ma già da due settimane. E sapendo restano fermi. Aspettando.

Alle ore otto del 7 marzo è ormai tardi. L'agente di polizia municipale Silvio Madotto smette di urlare ma non di lavorare: il paese è ormai vuoto ma la terra inizia a collassare. Sono tutti al sicuro mentre la montagna rumoreggia sempre più forte. Trecentouno esseri umani si ammassano duecento metri a valle, nella piazza centrale del comune capoluogo, a Cerzeto. Hanno di fronte tutto lo scenario che di lì a poco cambierà per sempre le loro esistenze.
Una gazzella dei carabinieri, gli unici - cinque uomini in tutto - ad essere lì in mezzo ai cavallerizzioti (non la traccia di una camionetta dei Vigili del Fuoco, nemmeno l'ombra di una macchina della Protezione Civile), si attardava sulla strada provinciale. Sono le 8.30 e Silvio avverte il militare: "Dovete spostarvi, andate via, qui sta venendo giù tutto". La vita del carabiniere è salva dieci minuti prima che la strada crollasse insieme a un costone di terra alto trentacinque metri con ciò che vi stava sopra: una trentina di case in tutto.

Gli sfollati assistono in diretta al crollo, dalla piazza del Municipio di Cerzeto. Un gran boato accompagna la colata di fango e il polverone bianco delle case che rotolano giù sbriciolandosi. Qualche costruzione è scivolata dritta, in piedi e sana. Silvio è ancora lì vicino, quando il disastro inizia a compiersi. Ma presto anche lui raggiunge gli altri della comunità. Insieme osservano disarmati il compiersi del cataclisma. Una cosa così non doveva accadere, perché è da sempre che non accadeva. È da trecento anni che le carte parlano chiaro e nessuno s'è mai sognato di sfidarle quelle carte.

Sembrava dovesse restare tutto una leggenda o uno spettro che c'è e che non deve essere evocato. E invece è divenuto tutto vero. Quasi tutto, e si vedrà. Si capirà perché poteva non succedere, si poteva evitare. Perché quelle trenta case erano quasi tutte di troppo, davvero. Più d'uno di quei fabbricati sono stati realizzati su vecchi torrenti. E un antico corso d'acqua, occupato da un mucchio di fondazioni in cemento armato, non perdona.

E poi l'acquedotto, che da trent'anni è segnalato come causa primaria di collassi di terreno, perché dove passa "lascia il segno". L'acquedotto che perde "copiose quantità di risorsa idrica" sino a gonfiare a dismisura la falda acquifera esistente proprio lì, sotto quei trentacinque metri di montagna. L'acquedotto colabrodo che fior di perizie tecniche indicano da sempre come "pericoloso" per la tenuta del territorio e l'incolumità dei suoi abitanti. Neppure questo la natura perdonerà, dopo aver riempito la falda sino a farla esplodere.

E infine, come perdonare la sordità della macchina burocratica regionale che da anni conosce bene i problemi che attanagliano quell'area e le soluzioni che si potevano, si dovevano adottare? E la Protezione civile italiana? Che tanto si adopera quando c'è da colare il cemento delle ricostruzioni e nulla fa quando s'ha da prevenire i disastri? A Cavallerizzo di Cerzeto l'allarme era forte e chiaro già da due settimane. Ma tant'è: meglio lasciare che il crollo si compia, meglio aspettare l'arrivo del disastro, meglio inventarsi una nuova città, una new town.

Ma il diavolo fa le pentole e non i coperchi, perché in realtà questa è la storia di un paese che non è mai franato. Meglio chiamarla frazione. Perché si tratta di 250 case e di 300 abitanti. Le case sono lì ferme sulla dura roccia da oltre quattro secoli, tutte quante, integre, perfettamente sane, neppure un graffio. I cittadini no. Perché a loro non è più consentito accedervi da quando, cinque anni or sono, un pezzo di terra a valle c'è finito davvero.

Eppure sono rimasti ormai in pochi quelli che non si rassegnano né al danno né alla beffa e che ogni anno, d'estate, col ritorno dei compaesani residenti all'estero, ripetono la loro protesta dicendo "u nga ktu ngë dua të iki, io da qui non me ne voglio andare". Parlano due madrelingue, l'italiano e l'albanese antico o arbëresh. Sono i discendenti di Giorgio Castrioca Skanerbeg, eroico e leggendario condottiero che li salvò dalla tirannide dell'impero turco-ottomano.

Cosenza è la provincia con il più alto numero di Comuni albanofoni nel meridione d'Italia, nell'intera nazione e nel resto d'Europa. Sono i diretti pronipoti dei protagonisti del Risorgimento meridionale. Gli italo-albanesi sono comunità etnico-linguistiche gelosamente legate alle proprie tradizioni. La presenza più massiccia è in Calabria, sopratutto nel Cosentino, con 21 comuni e 6 frazioni: una di queste è Cavallerizzo, collocata 200 metri a monte del comune di Cerzeto, arroccata a nord di Cosenza, sul versante interno dell'appennino tirrenico: dove la natura geologica è quella tipica di una regione che da sempre convive pacificamente con faglie, frane, erosioni, rischi idrici.

Ma è anche una comunità in forte decremento demografico. La maggior parte delle persone sono ormai anziane. Quel fatidico giorno ha segnato soprattutto gli ultimi giorni di vita dei vecchi. Ne ha accelerato la morte. Dopo due mesi scompare Ines Ricioppo, ottantenne. Il mese dopo muore Sandro Roberto, sempre ottantenne, il cuore gli crepa mentre stava lavorando la terra. Ma dal 2005 ad oggi sono già una trentina i nonni e le nonne che in punto di morte sarebbero voluti tornare a Cavallerizzo.

Ma non tutti i cavallerizzioti si sono lasciati intimorire da quella frana. Non tutti hanno prestato ascolto ai pifferai della scalogna che, sin dal giorno dopo l'evento, hanno preso al balzo l'idea del quartierino da costruire. Lo zoccolo duro, come la pietra su cui posano le case del centro storico, sa d'esser stato beffato. E non si arrende.
Eppure guai a valicare i cancelli che isolano quella frazione dal resto del mondo: sul gesto incomberebbe la minaccia della legge, dopo il decreto di sgombero voluto a suo tempo da Guido Bertolaso. Ma loro vogliono tornare nel vecchio caro centro storico. E si vedrà. Si capirà come a Cavallerizzo di Cerzeto si possa tranquillamente continuare a viverci e come, invece, ciò diventi un'assurda chimera.

Che lì non si sia mosso nulla,  - prima, durante e ben dopo la frana - è provato da diversi fatti convergenti. Non bastasse il colpo d'occhio, si può anche scrutarlo da vicino quel sito: casa per casa, angolo ad angolo, pietra su pietra. È da quattro anni ormai che ogni anfratto di quei luoghi è monitorato da sonde "super tecnologiche" (il Cnr s'è inventato un progetto ad hoc, chiamato Amamir) che non registrano un solo micromillimetro di spostamento.

E se non fosse ancora sufficiente si ascolti pure il parere, tanto per fare alcuni nomi, dei geologi che conoscono bene Cavallerizzo: Antonio e Fabio Ietto (padre e figlio, entrambi docenti universitari presso l'Ateneo di Arcavacata), Vincenzo Rizzo, Eraldo Rizzuti, Alessandro Guerricchio. Quei luoghi, come il resto dei comuni sulla stessa fascia appenninica, sono abitabili.

Eppure la macchina, anzi la grande macchina della Protezione civile italiana, aveva già programmato tutto 48 ore dopo la frana. Celerissimi i suoi piani, a pensarci bene. L'olimpo di Guido Bertolaso non ha tardato di un istante nel fiutare il grosso affare: commissario della ricostruzione e podestà indiscusso e assoluto d'ogni pietruzza su quelle terre, non ha perso un colpo. Passo dopo passo ha vigilato su ogni linea di matita, ogni pezzo di gru, ogni colata di cemento, sui pilastri bell'e fatti e sui solai, sui piani e sulle metrature, sui solarium e sui terrazzini.

E sorveglia e tutela anche il proprio gran daffare - Abruzzo, Maddalena e vulcano d'Islanda compresi - da eventuali "seccatori" che si mettano in testa di allestire "giornate ecologiche" nel centro storico chiuso.
Bertolaso vieta qualsiasi attività ludica che serva a rivitalizzare un po' quei luoghi fantasma. E se non lo fa lui ci pensa il neoeletto sindaco Giuseppe Rizzo. Neppure i commissari prefettizi che si sono alternati prima delle elezioni sono stati tanto zelanti.

Perché tanto c'è poco da sperare, se qualcuno ci provasse. C'è il nuovo che avanza, quell'agglomerato di alloggi a schiera che dà corpo alle tasche della cricca (nella fatidica agendina di Anemone c'è anche Cavallerizzo!): è venuto alla luce e nessuno si sogna minimamente di sopprimerlo, visto che sono stati già spesi 70 milioni di euro e che almeno un'altra trentina ancora se ne spenderanno, proroga dopo proroga. I cavallerizzioti non sperino altro che il "nuovo".
Le casette a schiera ci sono già. Il "residence" - che a vederlo da lontano somiglia a un cimitero - è quasi ultimato ma è di questi giorni la notizia di una richiesta di proroga di altri 200 giorni prima della consegna delle chiavi. È già la quarta proroga chiesta e ottenuta dal costruttore in persona, il geometra Zinzi da Catanzaro, designato esecutore del progetto di ricostruzione, amico intimo dell'ex governatore calabrese Agazio Loiero nonché di Mario Tassone, sottosegretario ai Lavori Pubblici durante i giorni della frana: entrambi catanzaresi ed ex democristiani doc.

Nel frattempo gli sfollati continuino pure a restare tranquillamente sparpagliati dove sono. Qua e là per i comuni dell'intorno: un po' a Cerzeto, un po' a San Giacomo di Cerzeto, un po' a Torano Castello o nella vicina Sartano. Quasi tutti in affitto, tanto paga il Cas: sigla coniata da Bertolaso per indicare il "contributo per l'autonoma sistemazione" che il governo eroga ad ognuno dei 300 sfollati. Si tratta di mezzo milione di euro l'anno (per cinque già passati, più, forse, due a venire).

Un'altra cospicua somma a carico del contribuente. Senza contare i fondi a parte, destinati ai titolari di attività produttive. Ai quali lo Stato riconosce un bel mucchio di quattrini, se si considera che viene loro corrisposto, per tutta la "durata della sospensione dell'attività", fino a un massimo di 15mila euro l'anno a ciascun commerciate o artigiano o imprenditore.

E c'è che le attività sono ancora sospese, nonostante la "zona industriale" (situata nella frazione Colombra, più a valle del nuovo paese) sia già completamente ultimata. Perché i tremila metri quadrati di capannoni, prontissimi per la consegna, sono e restano nel frattempo sigillati. Perché? "Questioni di natura burocratica", è la risposta. E quindi Pantalone continui pure a pagare. Tanto non si lavora.

Quel che più è grave, però, è che non un solo centesimo è stato speso a favore della messa in sicurezza del sito franato. Eppure una decina di milioni erano già bell'e pronti per lo scopo, provenienti tutti da quell'otto per mille che la chiesa cattolica racimola ogni anno.

Niente da fare. L'unica cifra prelevata da quei fondi ammonta a poco oltre un milione e mezzo, interamente destinata alla new town, dove i piccioli sembrano non bastare mai. Eppure c'è la strada provinciale di Cerzeto ch'è franata e che isola ormai da cinque anni tutti i comuni limitrofi, costringendo i residenti a triplicare il chilometraggio per andare e venire da casa propria.

Ma c'è anche lo spettro delle cosche locali, se non bastasse, che sulla ricostruzione hanno posato gli occhi e le mani: il costruttore Zinzi ha denunciato più volte il ritrovamento di taniche di benzina sul cantiere. Guai anche per i residenti di Cavallerizzo che si ribellano allo sgombero e che di tanto in tanto trovano le proprie case saccheggiate o danneggiate a colpi di pietra. L'ultima azione in ordine di tempo è la sparizione di tutta la mobilia, ammassata dopo lo sgombero in un capannone non lontano dal paese.

Stando all'andazzo, pare difficile che si profili un lieto fine sulle vicende di questa antica comunità. Si vorrebbe di certo raccontarla una storia diversa. Ma qui, parlano i fatti. Sull'onda di una paura ancestrale torreggia il plagio di chi ha fiutato un grande affare. Suggestionati da un pifferaio di turno, un ingegnere originario di Reggio Calabria ma residente a Cerzeto, attratto dai tesori dei lavori pubblici (è rimasto implicato anche nell'operazione di polizia giudiziaria denominata "Tamburo", sugli appalti per l'ammodernamento della A3), ha "persuaso" i vecchietti ad abbandonare l'idea di tornare nella propria vecchia casa.

Oggi costui è assessore "Alla Ricostruzione" presso il comune di Cerzeto e, manco a farlo apposta, di cognome fa Giunta e di nome Giuseppe. Così, obbligati a credere di aver perso ogni cosa, i cavallerizzioti solo oggi si ridestano scoprendo che quella frana sì, c'è stata, ma non sulle loro case. Troppo tardi. Non si è fatto in tempo a riaversi da quel terrore.
Ma c'è pure chi, tra i pochi, una casa l'ha persa davvero, eppure tra questi non tutti vogliono credere a quella promessa "Eldorado" in via di ultimazione. "Case nuove per tutti", è stato lo slogan di Guido Bertolaso. Salvo poi a scoprire che lì, in quella contrada Pianette, stanno costruendo un vero e proprio "vespaio". Che nulla ha a che vedere con la gloria e il calore delle vecchie abitazioni, tutt'altro che pericolanti. Finirà che solo alcuni, forse, se ne andranno. Altri forse no. E altri ancora, magari, tenteranno di accaparrarsi il doppio quartierino.

Il problema, però, non sta tutto qui. E non certo nella "migrazione", visto che quello degli italo-albanesi è un popolo che da seicento anni migra. Dall'Albania verso la Calabria, sono otto i grandi flussi storici. I primi iniziano nel 1399. Gli ultimi risalgono al 1774: anzi i penultimi. Perché l'ultimo flusso, ma per ragioni storiche del tutto diverse dalle precedenti, è ripreso all'inizio degli anni Novanta e non si è ancora arrestato.
Si sono portati appresso tutto. Usi, costumi, lingua e architettura. Qui hanno ricreato le cellule sociali grazie alle quali sopravvissero prima e vivono oggi. È una formula semplicissima. Ed ha che fare con il vicinato: gruppi di quattro, cinque famiglie, spesso legate da vincoli di parentela, abitano vicini formando l'anello primordiale di tali comunità, ora come allora.

Ma non nel nuovo paese, dove quel vicinato gli è negato. In gergo sono le gjitonje, che anello dopo anello formano, qui come in Albania, la grande catena sociale dei paesi in cui vivono. Anzi, una vasta serie di catene, che s'è integrata a tal punto con l'Italia da farne la propria madre patria. E a difesa della quale hanno combattuto in prima linea, con apporti decisivi all'unità nazionale di 150 anni fa.

Hanno versato sangue per questo. Ma hanno pure conquistato primi piani nella storia. Sarebbe un lungo elenco di martiri e patrioti. Lo stesso che riempie già pagine e pagine di storia (non solo locale), ancora del tutto sconosciuta. Basti ricordare un De Rada di Macchia Albanese o un Rodotà (il giurista Stefano ne è un discendente) di San Benedetto Ullano, passando per i garibaldini Domenico e Raffaele Mauro di San Demetrio Corone, uno dei quali parlamentare. Sono tutti Comuni italo-albanesi.

Questa è la storia di un antico mosaico sociale, fittissimo, fatto di miliardi di tessere, meticolosamente composte con l'aiuto paziente e lento che i grandi tempi si danno. Ma è anche la storia delle conquiste selvagge, come quelle delle speculazioni edilizie, che vanno dritte a scomporre in un sol colpo tutta l'opera. Meglio, avrà pensato Bertolaso, assemblare tutto in maniera diversa.

Occorre, si sarà detto il capo della Protezione civile, un nuovo modello. È così che nasce il "modello Cavallerizzo", una nuova specie di ecomostro, impastata a tavolino e sfornata grazie a una solerte catena di montaggio che parte da Roma passando per la Liguria e la Toscana, dove hanno sede i centri del potere ingegneristico del nostro. È questo il progetto che scompagina tutto, distrugge la storia. Chi lo ha disegnato ha cinicamente ignorato ogni cosa. A partire dalle gjitonje.
Tutto ciò basta per dire, con una metafora, che sulle nostre comunità Arbëreshë è come se un padreterno qualunque fosse arrivato per decidere d'inventarsi un "essere umano" inedito, magari montando il cuore al posto dei piedi o il cervello come fondoschiena.

Di ciò e di altro se ne sono già accorti i giudici del Tar del Lazio, presso cui gli irriducibili di Cavallerizzo hanno presentato istanza contro la ricostruzione. Il Tar ha dato loro ragione, ma lo Stato (che già da troppo tempo processa sé stesso in una sorta di schizofrenica spirale involutiva) ha dato le carte ai giudici del Consiglio - appunto - di Stato.
In tal caso il quesito è almeno uno, ben noto ormai alle cronache italiane e concerne gli strapoteri attribuiti all'Ufficio di Bertolaso: che se ne infischia se il centro storico è intatto, peraltro autorevolmente difeso per tabulas dalla Soprintendenza dei Beni Architettonici, se ne infischia della cosiddetta Via (Valutazione di impatto ambientale) seguitando a costruire senza, se ne infischia della storia dei comuni italiani, se ne infischia dell'Italia.


New town in Calabria dopo la frana, con l'assenso della gente
Di Eva Bosco - Ansa

Il paese e' venuto giu' con una frana il 7 marzo 2005. Ricostruire Cavallerizzo, una frazione di Cerzeto, qualche centinaio di anime in provincia di Cosenza, li' dov'era sarebbe stato impossibile, per ragioni geologiche e di sicurezza. Si e' scelta un'altra strada: realizzare un nuovo paese in un sito diverso da quello originario. A tutti gli effetti, una new town, una citta' nuova. Sul modello, pero', di quella originaria.

Anche per quanto riguarda i rapporti di vicinato. Un caso unico, che riacquista forte attualita', dopo che, con il terremoto, il premier Berlusconi ha lanciato l'ipotesi di una new town all'Aquila, suscitando le reazioni di urbanisti e sociologi. Nella frazione, il cantiere e' aperto dall'ottobre del 2007, due quartieri sono finiti.

Nel 2010 la nuova Cavallerizzo, pochi chilometri in linea d'aria dalla vecchia, dovrebbe essere pronta. E la gente, che ha partecipato a tutte le scelte, potra' andare ad abitarci. L'aspetto davvero speciale e' che non e' stato riprogettato solo il paese fisico, ma anche quello sociale, ossia quello legato ai rapporti di vicinato, alle relazioni tra parenti, amici, nuclei familiari, che si ritroveranno a vivere esattamente come prima.

L'intervento e' totalmente pubblico e Guido Bertolaso, capo della Protezione civile, e' commissario delegato. Il ministero delle Infrastrutture ha accompagnato l'intera iniziativa. I fondi stanziati sono pari a 50 milioni di euro, il 90% gia' erogati.

''Con questa cifra - spiega l'architetto Annalaura Spalla che ha curato il progetto - sono in via di ricostruzione una scuola, una chiesa e 264 case per 560 abitanti, per lo piu' anziani, ma con un 35% di giovani. Cavallerizzo non aveva edifici di particolare pregio, ma la popolazione e' arbereshe, etnia di origine albanese, e il paese era diviso in cinque quartieri detti gjitonie. Li abbiamo riprogettati secondo la forme originaria, ognuno con la sua piazza''.

Le case, disposte a schiera e affacciate sulle piazze, valore al metro quadro 900 euro, ingresso indipendente e orto sul retro, non sono tutte uguali, perche' sono state accolte alcune richieste di personalizzazione degli edifici.

Rispetto alle dimensioni delle case andate distrutte, e' stata garantita ai futuri proprietari una metratura proporzionale, tagliando del 30% la superficie originaria, ma senza scendere mai sotto i 50 metri quadri e tenendo conto dei nuclei familiari piu' numerosi.

Il progetto complessivo e' stato steso una prima e poi una seconda volta, dopo aver ascoltato uno a uno gli abitanti. E' riproducibile quest'esperienza nell'Abruzzo colpito dal sisma? Una differenza di fondo c'e': a Cavallerizzo non ci furono morti: questo pesa su una ricostruzione. Quanto alla possibilita' di ''trasportare il modello, tutto dipende - osserva Spalla - dalla capacita' di adeguarlo al contesto. La cittadella ideale preconfezionata non funziona. Bisogna ricostruire la comunita', che e' fatta di oggetti fisici e di rapporti. Ed e' bene farlo a costi controllati e con regia pubblica''.

 


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