Natale 2020 e pandemia... un Messaggio del Cardinale Petrocchi alla comunità

15 Dicembre 2020   10:42  

Il primo Natale avvenne mentre Betlemme era avvolta dal buio. Siamo sempre più consapevoli che, pure in diversi settori della nostra società, sembra scendere una “notte culturale”, resa ancora più oscura dalla pandemia da Coronavirus. Anche in queste tenebre, spirituali e relazionali, deve accendersi la luce del Signore-che-viene! Come gli angeli che, “allora” annunciarono ai pastori la nascita del Salvatore, così la Chiesa proclama, oggi, la venuta di Gesù, Salvezza di ogni uomo e di tutto l’uomo. In Lui, infatti, troviamo il riscatto dal male e la Vita nuova, che ci rende davvero “nuove creature” (cfr. 2Cor 5,17). Proprio l’incontro con il Signore ci consente di non essere sopraffatti dalle avversità e ci rende vincenti nelle sfide, anche gravi, a cui la storia ci sottopone. Da soli, non ce l’avremmo fatta. Ma la grazia, ricevuta dall’Alto, ci consente di crescere nel “bene-fatto-bene”, frutto della carità: ricevuta, praticata e donata. 

Come credenti siamo tenuti a registrare non solo ciò che questa calamità sanitaria ci toglie ma anche a chiederci quello che ci insegna. Dobbiamo anzitutto riconoscere che tale evento, a dimensioni planetarie, è stato una grave “umiliazione”, per una mentalità che si riteneva autosufficiente e ormai padrona esclusiva del proprio destino. Molte false certezze sono state clamorosamente smentite. Come rileva Papa Francesco, questo virus tremendo ha messo in ginocchio il mondo1. Siamo tutti piombati nella nebbia di una globale precarietà. Bisogna imparare a trarre da questa tragica “umiliazione” una grande umiltà: individuale e collettiva. Tale passaggio non è automatico: occorre che entri in campo la “conversione”, cioè la revisione dei modi di pensare e di agire contaminati dall’orgoglio, per sostituirli con stili allineati sulla volontà di Dio. Senza la conversione l’umiliazione non diventa umiltà, ma si trasforma in rabbia, che genera ostilità e comportamenti aggressivi, oppure si tramuta in pessimismo disfattista e perdente.
«La pandemia è una crisi e da una crisi non si esce uguali: o usciamo migliori o usciamo peggiori - continua Papa Francesco - Oggi abbiamo un’occasione per costruire qualcosa di diverso. Per esempio, possiamo far crescere un’economia di sviluppo integrale dei poveri e non di assistenzialismo». Per compiere questa “santa impresa” occorre «partire dall’amore di Dio, ponendo le periferie al centro e gli ultimi al primo posto» 2.
È importante invocare l’Avvento della Parola nella nostra storia, per avere una lettura sapienziale degli eventi e vedere le strade da percorrere. La risposta sta nel “fare la verità nella carità” (cfr. Ef 4,15). Questo “metodo evangelico” funziona sempre, anche nelle situazioni peggiori. Non si risorge dalle macerie della propria esistenza se non si accetta, serenamente, che da soli non andiamo lontano e restiamo intrappolati nelle nostre debolezze. Dobbiamo fare i conti con la nostra fragilità: costituita dal limite creaturale e dagli effetti del peccato, che si è infiltrato nelle nostre strutture cognitive e psichiche.
La difficoltà ad ammettere, davanti a sé stessi, la propria “vulnerabilità” nasce dalla paura di soccombere di fronte al negativo: come accade quando si ha timore di essere attaccati da una malattia incurabile. Ma se la medicina che risana è già pronta e facilmente accessibile, allora non è così pesante riconoscere le proprie “patologie” e combatterle con fiducia e determinazione. Gesù è già “dentro” le nostre difficoltà, perché le ha assunte su di sé facendosi uno di noi: sta a noi riconoscerLo e raggiungerLo, per trovare, in Lui, luce e pace.
Oggi, più che mai siamo chiamati, con la grazia del Natale, a costruire una società a misura d’uomo: più capace di tessere relazioni autentiche e maturanti. Dobbiamo sbarazzarci dalle pretese di essere i “demiurghi” di noi stessi (cioè, gli unici artefici della nostra sorte). Occorre maturare un “umanesimo integrale”, aperto alla Trascendenza, e capace di promuovere il bene autentico, a livello generale e individuale. Il passo decisivo è puntare sul Vangelo, sapendo che «quello che Dio ti fa trovare, è più di quanto cerchi; quello che Dio ti dona è più dì quanto desideri» (Raphael Hombach).
Un sacerdote iracheno mi ha mandato un messaggio da Bagdad - una comunità dilaniata da un conflitto sanguinoso - riaffermando che l’amore è l’arma più forte per sconfiggere l’odio: «Dio si è fatto uomo, perché l’uomo imparasse ad amare l’uomo fino in fondo. Dalla notte di Betlemme, il volto di Dio compare sempre nel volto di ogni uomo» (don Saadi). La carità, infatti, batte con un cuore universale, perché ama tutti: nessuno escluso.

Vorrei che il Natale di quest’anno, lo vivessimo spalancando le porte del cuore a quanti abbiamo finora rifiutato o lasciato ai margini: questo “mettersi accanto” è motivato dalla fede che ci porta a onorare in loro la presenza del Signore-che-viene. Il Figlio di Dio, infatti, incarnandosi, ha preso su di sé la condizione di tutti e di ciascuno, specie degli ultimi e degli scartati. Stiamo attenti a non cadere nella “sindrome degli abitanti di Betlemme”, caratterizzata dalla “inospitalità interiore” che determina l’egoismo della “porta chiusa” («non c’era posto per loro nell’albergo»! Lc 2,7). E’ una malattia spirituale che colpisce sovente le “brave persone”, talmente piene di ragioni apparentemente convincenti per dichiararsi indisponibili, da non accorgersi che l’unica “ragione buona” da adottare è quella di “fare sempre posto” a Gesù, comunque e in chiunque Egli si presenti.
La forza che muove il Verbo a farsi “carne” e il fine della Sua missione è l’Amore: e ciò che vale nel Maestro diventa obbligante anche per i discepoli. È in tale logica evangelica che sant’Agostino scrive: «il compimento di tutte le nostre opere è l'amore. Qui è il punto d'arrivo, verso questa meta corriamo; lì, una volta arrivati, troveremo la pace»3.
Dalle pagine degli eventi epidemici, dobbiamo apprendere anche la lezione della solidarietà universale. Siamo creature in relazione: la nostra “struttura” profonda è segnata dal “noi”, cioè da rapporti interpersonali che sono costitutivi della nostra identità. Sul piano umano, l’altro è un mio simile. Ma nella prospettiva cristiana, il prossimo è mio fratello. Perciò, mi appartiene: ciò che gli accade mi riguarda. Il suo cammino mi coinvolge. Per questo, tutte le volte che la rete del “buon-noi” subisce smagliature o si strappa, è la nostra salute spirituale e psicologica che ne va di mezzo e si deteriora.

Non basta un amore generico e “standardizzato”, ma in ogni stagione della vita occorre mettere in cantiere forme di “amore appropriato”, cioè, rispondente alle circostanze che attraversiamo. Un amore che sa cambiare tonalità, proporzioni e stili per andare incontro alle esigenze effettive del prossimo.
In particolare, oggi, occorre aumentare le “dosi” della carità che sa “con-patire” - mirata a condividere la sofferenza altrui - e sa “co-ordinarsi”: cioè, capace di governarsi saggiamente, neutralizzando i rischi di “corto-circuiti” mentali ed emotivi, nella tensione a convergere verso obiettivi comuni positivi. Ciò comporta anche disciplina civica ed ecclesiale. Da queste disposizioni d’anima scaturisce la prontezza a mobilitarsi di fronte alle emergenze minacciose, in vista della salvaguardia di interessi generali.
La voce dello Spirito che si alza in questo periodo ci esorta a crescere nella capacità di “incontro comunionale”, specie se assume i tratti della “prossimità samaritana”. Infatti, «l'amore è la via più breve verso sé stessi e verso gli altri» (Joseph Hormitz). Insieme dobbiamo alimentare la virtù cristiana e sociale della speranza, che ci rende certi che la perseveranza nella dedizione evangelica ha sempre l’ultima parola. Ci conforta la consapevolezza che «colui che fa il bene non sa mai tutto il bene che ha fatto»4; purtroppo, vale anche la legge contraria: non si sa dove arriva l’onda nefasta del male compiuto.

Desidero raggiungere, con l'affetto e la preghiera, le persone colpite dal contagio e le loro famiglie: in particolare, affidiamo al Signore le vittime dell’epidemia e i loro cari. Una vicinanza speciale voglio assicurarla a tutti coloro che vedono compromesso il loro lavoro e quanti faticano a vivere per ristrettezze di ogni tipo.
Esprimo la mia commossa riconoscenza a quanti si prodigano, a vario titolo, per fronteggiare l’emergenza Covid-19, testimoniando generosità e abnegazione, spesso in grado eroico.
Il Figlio-fatto-uomo ha immesso il divino nell'umano, l'eternità nel tempo, l'assoluto nel limite, la luce nell'ombra. Così ha "deposto" nella esistenza di ciascuno di noi significati straordinari e potenzialità inaudite: poiché a coloro che Lo accolgono - cioè a quelli che corrispondono al Suo dono immenso - "ha dato potere di diventare figli di Dio" (Gv 1,12).

In Gesù ci è data la “Verità tutta intera” (Gv 16,13) e la grazia che fa pulsare il nostro cuore con gli stessi battiti del Cuore del Signore (cfr. Rm 5,5). Maria, Donna del Natale, ci aiuti a fare, ogni giorno di più, questa lieta “scoperta”. Nel Suo “si”, vissuto personalmente e insieme, siamo resi certi che niente e nessuno può toglierci la pace; anzi, se rimaniamo nella volontà di Dio, tutto può concorrere al nostro bene (cfr. Rm 8, 28) e farci costruttori di una “nuova umanità” (cfr. Ef 2,15).
Per questo auguro a tutti e a ciascuno un Natale carico di consolazione e di perseverante impegno, facendomi eco delle parole di Paolo VI: "Cristo è la gioia, ditelo al mondo! ".

Giuseppe Card. Petrocchi

Arcivescovo Metropolita Aquilano

 


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