Omicidio Rigante, Ciarelli agì per riaffermare sua caratura criminale

Il gup Sarandrea: "Volontà di uccidere"

06 Maggio 2014   10:11  

Nessuna fatalità, bensì la precisa volontà di uccidere il rivale: questo è quanto si legge nelle 32 pagine di motivazioni della sentenza che, lo scorso 3 febbraio, vide Massimo Ciarelli condannato in primo grado a 30 anni di carcere per l'omicidio di Domenico Rigante.

Secondo il gup Gianluca Sarandrea, il 1° maggio 2012 Ciarelli, nell'entrare nell'appartamento di via Polacchi "ha tenuto in minimo conto la vita delle persone, e per avere la certezza che la missione avrebbe avuto buon esito gli imputati non hanno utilizzato alcuna forma di cautela".

Dalle motivazioni, emerge dunque come il rom, nell'occasione affiancato dai parenti Angelo, Domenico, Antonio e Luigi Ciarelli (condannati a 19 anni e 4 mesi), sarebbe stato animato dal preciso intento di uccidere per vendicarsi dell'umiliazione che avrebbe subìto nella serata tra il 30 aprile ed il 1° maggio 2012, quando sarebbe stato aggredito e rapinato da una ventina di persone tra le quali Antonio Rigante, fratello gemello di Domenico.

Umiliazione che lo avrebbe quindi spinto a "pianificare un'azione platealmente ritorsiva anche per riaffermare la propria caratura criminale". Nel momento di compiere tale vendetta, inoltre, sempre secondo le motivazioni Ciarelli ed i compagni avrebbero brutalizzato il giovane ultras del Pescara, nonostante questi implorasse di avere una figlia di pochi mesi, e di seguito Ciarelli ha esploso un colpo di pistola sulla zona sopra glutea, "con una modalità che denota la piena coscienza e volontà dell'imputato di realizzare, quantomeno in termini alternativi, il decesso di Rigante".

Quanto ai motivi dell'aggressione precedentemente subìta, questi non sono ben chiari, così come secondo quanto riportato nelle motivazioni non c'è alcuna prova che, nell'atto di denunica dell'accaduto, Ciarelli sia stato trattato con sufficienza dal personale della questura.


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