Pasqua 2019, il messaggio pastorale del Cardinale Petrocchi alla comunità ecclesiale

11 Aprile 2019   11:54  

Cristo, nostra Pasqua, (cfr. 1Cor 5,7) è risorto! Questo annuncio esultante, che la Chiesa fa risuonare con gioia incontenibile fino ai confini dello spazio e alle frontiere del tempo, ha la forza di cambiare “dalle fondamenta” la nostra vita. Basta accoglierlo e viverlo. È una notizia che dovrebbe scuoterci dal nostro torpore esistenziale e metterci in atteggiamento di ascolto attento, ma rischiamo di rimanere avvolti in una indifferenza  apatica - refrattaria alla novità dell’annuncio -, perché colpiti “dalla sindrome da assuefazione” (causata dal “già noto”) e fortemente anestetizzati dalle massicce dosi di “mentalità-mondo” che ogni giorno assorbiamo. 

La Pasqua di Gesù è il trionfo della vita sulla morte; della grazia sul peccato: la Sua Pasqua diventa la nostra Pasqua, se ci apriamo allo Spirito del Crocifisso-Risorto.

Facendo Pasqua, il discepolo di Gesù impara a non rispondere al male con il male, ma diventa capace di vincere il male con il bene: anzi progressivamente esercita l’arte di ricavare il bene dal male.

Sappiamo, anche dalle Scienze umane, che il fattore capace di frantumare la nostra personalità, non è la sofferenza, ma la mancanza di senso. Così come non è solo l’esperienza dell’avversità che ci getta nell’ansia, ma la percezione di un pericolo più forte delle nostre difese, che può demolire le certezze e i valori su cui è edificata la nostra vita.

Dio è fedele e insieme alle prove ci dona la luce e la forza per affrontarle. Ma dobbiamo fare la nostra parte per cercare la verità, che lo Spirito depone nelle vicende che scandiscono la nostra esistenza.

            Talvolta Dio scrive una storia, che non è quella che noi avremmo voluto leggere, ma sapendoLo Padre, occorre chiedersi: quale è il dono che ha “nascosto” nell’evento doloroso?

Non dobbiamo “inventare” il significato, ma scoprirlo dentro gli avvenimenti. Il seme della risurrezione c’è già, in ogni situazione. Non sta a noi, dunque, piantarlo, ma riconoscerlo e farlo germinare.

Se un amico mi dicesse: “ho perso la pace e sono pieno di rabbia”, oppure “sprofondo sempre di più nell’avvilimento perché qualcuno o qualcosa mi ha fatto del male”, gli risponderei, con affetto fraterno: “secondo me, tu non stai male a causa del male che ti hanno fatto, ma perché hai vissuto male il male: cioè, hai gestito in modo inadeguato il problema doloroso che ti ha colpito. Il male ci fa star male perché è vissuto male. Di questa tristezza, alla quale noi stessi ci condanniamo, siamo responsabili. Infatti, niente e nessuno può scipparci la pace, senza la nostra complicità. Se tu avessi vissuto secondo il Vangelo la difficoltà, saresti stato visitato dalla sofferenza, anche intensa, ma avresti conservato la serenità. Anzi, ne avresti tratto un grande vantaggio”. San Paolo, infatti, ci assicura che tutto collabora al bene di coloro che amano Dio (Rm 8,28).

A chi ha perso una persona cara è offensivo invitarlo a “non soffrire più”; ma si può solo dirgli (con infinito rispetto): soffri “bene”, nel Signore crocifisso e risorto. E accompagnare le parole, con un amore che sa farsi “prossimo”, in senso evangelico. Infatti, c’è un dolore “buono” (pensate alla fatica di un allenamento) e un dolore “cattivo” (quello di una piaga purulenta). Proprio perché la Pasqua ci consente di trasformare il patire in amore, ci mette nelle condizioni di vincere, anche quando si perde e di mantenere la pace, anche in mezzo a tempeste emotive e in situazioni laceranti .

Occorre fare il passaggio dal “grido” di dolore (spesso cupo e disperato) al “sì” detto a Dio, con lo stile di Mariama proprio quel “sì” conduce al canto del “Magnificat”, poiché il Signore fa sempre grandi cose in coloro che si abbandonano fiduciosi al Suo Amore.

Dunque, lasciandosi sospingere dal soffio della grazia, si arriva a compiere un itinerario evangelico che va:

dall’ “Ahimé” all’ “Amen”; dall’ “Amen” all’ “Alleluja”! 

Il soffrire passa, ma l’aver sofferto resta: nell’amore che ha contribuito a sviluppare. Vorrei ricorrere ad una metafora. Quando viene il tempo della mietitura, la neve, che ha coperto la semente, non c’è più; ma rimane custodita nella spiga di grano, che ha contribuito a far crescere e a maturare. Così, se la neve della sofferenza, calata abbondante, si è sciolta al sole della carità di Cristo, lì sono da aspettarsi messi copiose e ricche di frutti evangelici. Ciò che poteva essere interpretato come una avversità, si è trasformata in benedizione

Il segreto sta nel credere all’Amore (cfr. 1Gv 4,16) e nel mettere in movimento il cuore, amando! Infatti, come recita un proverbio popolare, «l’amore è come la luna: se non cresce, cala». E dove si sparge amore, fiorisce la gioia.

Per questo, le ragioni per non-amare non sono mai buone. La cosa peggiore che ci possa capitare è smettere di amare. Giustamente è stato scritto che «sapere, senza saper amare, è nulla. E a volte, peggio di niente» 

Come discepoli di Gesù, il primo compito che ci è assegnato nella vita è quello di salire – gradino dopo gradino – sulla scala della santità, fino a raggiungere il vertice, che consiste nella perfezione della carità. E la carità - che «tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor 13,7) - è un amore che affonda le sue radici nella Pasqua. Questa ascesa evangelica non si acquisisce con il semplice scorrere del tempo. Infatti, si può camminare per chilometri, su un terreno piano, senza innalzarsi di un centimetro; mentre, se si avanza su un pendio, ogni passo segna una crescita di livello. In modo analogo, si può procedere nella storia, macinando anni dopo anni fino alla vecchiaia, rimanendo però “fermi” ad uno stadio di maturità spirituale tipico della fase adolescenziale. La carta di identità anagrafica dovrebbe coincidere con un corrispondente livello di maturità cristiana e umana: purtroppo, non è sempre così!

Fare Pasqua significa cambiare dentro: questo evento non mancherà di avere riflessi fuori. E ogni conquista nel bene arricchisce l’intera umanità, così come ogni cedimento al male impoverisce tutta la storia. Scrive Papa Francesco: la «risurrezione non è una cosa del passato; contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo. …Ci saranno molte cose brutte, tuttavia il bene tende sempre a ritornare a sbocciare ed a diffondersi. Ogni giorno nel mondo rinasce la bellezza, che risuscita trasformata attraverso i drammi della storia. I valori tendono sempre a riapparire in nuove forme, e di fatto l’essere umano è rinato molte volte da situazioni che sembravano irreversibili. Questa è la forza della risurrezione e ogni evangelizzatore è uno strumento di tale dinamismo» (EG, n. 276).

La Pasqua è la porta che immette nella comunione con Dio, ma anche la porta che Dio attraversa per entrare in comunione con noi e - attraverso noi - con gli altri, cambiando i cuori con la Sua grazia.

Come ci ha promesso Gesù, in ogni gesto di comunione è presente Dio-Trinità (cfr. Gv 14,23), così come «la goccia d’acqua contiene tutti i segreti dell’oceano» (Kalhil Gibran). 

Ricorre, in questo periodo, il 10° anniversario del sisma. Inevitabilmente, nel pensiero e nelle emozioni, compaiono le immagini delle devastazioni provocate dalla furia del terremoto. Ma nell’anima appare, ancora più nitido e coinvolgente, il volto delle vittime, non solo in chi le ha conosciute direttamente, ma anche in coloro che (come me) le ha “incontrate” nelle foto o attraverso i racconti.

È tempo non solo del ricordo, ma della memoria. Il ricordo, infatti, è rievocazione di un passato che, però, rimane lontano e non è più collegato con l’oggi. Mentre la memoria è custodia di ciò che è già avvenuto, ma che resta presente: implica, pertanto, un’attiva “contemporaneità”.

Le vittime del terremoto abitano stabilmente nella nostra memoria: non sono dunque persone “scomparse” e i loro volti non sono destinati a dissolversi con il passare degli anni. Non ci hanno “lasciato”, ma restano con noi: come preziosi compagni di viaggio. Tra loro e noi si conserva, più forte della morte, il vincolo della reciproca preghiera e della comunione, che essendo vissuta in Dio, è eterna. Ogni atto di amore, infatti, se vissuto nel Signore, è timbrato indelebilmente dal “per sempre”!

            Maria, che ha vissuto la desolazione di vedere il Figlio morire sulla croce, è stata anche la prima testimone della Risurrezione. È la “Donna dei dolori”, la cui anima è stata trafitta da una sofferenza straziante, ma anche la “Donna dell’esultanza evangelica”, che, nella sfolgorante vittoria della Vita sulla morte, vede attuate le promesse di Dio, oltre ogni immaginazione e speranza (cfr. Ef 3,21).

             Ci aiuti Lei a vivere la Pasqua - anzitutto nell’ascolto della Parola, nella celebrazione Eucaristica e nella testimonianza della carità - per renderci riflessi vivi del Risorto, che cammina con noi tutti i giorni e ci rende - se lo vogliamo - costruttori di comunione, di giustizia e di pace!


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