Rabdomanti di parole nel centro storico dell'Aquila

21 Novembre 2010   22:53  

Un reportage pubblicato dal mensile Aam Terranuova sul centro storico dell'Aquila e sue parole perdute, e sulla bella iniziativa ''Una carriola di disegni'', nata nel giugno 2010 con l’intenzione di testimoniare la realtà del dopo terremoto dell’Aquila e del suo territorio attraverso la forza espressiva del disegno dal vero, con matita e taccuino, girando per le strade e disegnando quello che si vede.

Sul'ultimo numero di Aam Terranuova in edicola è possibile ammirare anche un inserto con le migliori opere dei disegnatori con il caschetto.

Rabdomanti di parole, disegnatori con il caschetto

di Filippo Tronca

E' comunque incantata, anche nel senso di inclinata e storta, L'Aquila, com'era e dov'era da quella strana alba del sei aprile e da sette secoli o giù di lì.

Le comitive di turisti fotografano i sontuosi puntellamenti, le magistrali imbragature, le ragnatele di tubi innocenti fino a prova contraria, i palazzi impacchettati con bianchi sudari che a qualcuno ricordano le provocazioni di Christo, si eccitano come Ruskin davanti ai ruderi e al romantico destino di disgregazione.

In pochi chiedono che ne sarà degli ettari di uno dei centri storici più estesi d'Italia, dove a regnare è l'ortica, i cani randagi e l'oblio. E delle sue biblioteche, teatri ed atenei, delle botteghe artigiane, caffè e musei, delle fontane e delle corti, delle centinaia tra chiese, torri, castelli, antichi palazzi e monumenti, crepati e crollati.

E se mai torneranno a casa loro, o ritroveranno occhi che possano ammirarle oltre cinquemila opere d'arte terremotate. Le visioni policrome dei Cascella, i guizzi di luce di Marcello Mariani, i lignei zampognari, gli aurei reliquiari, broccati in raso di seta, oboli di Alba Fucens, follari bizantini, santi e madonne con bambino, adorazioni di magi e pastori, fuggiti dalla fortezza spagnola espugnata da un nemico invisibile. E le bestie da soma di Teofilo Patini, sfollate dal fragilissimo palazzo del Governo. Il misterioso e bianco elefante Annone, l'esodo di Mosè e del suo popolo senza patria, fissato nell'eterno dell'istante dalle mani di Raffaello, in quello scrigno di che era palazzo Branconio.

E gli aquilani in esilio si confondono oramai con i turisti. Nella loro città ci vengono in gita domenicale, spaesati e pensosi. L'Aquila reale gli pare ormai quasi abusiva, rispetto agli applauditi new-village con le molle, sparsi nelle estreme periferie, da cui la neve sui monti sembra polistirolo e i tramonti disegnati su cieli di cartongesso.

Al calar delle tenebre pochi sanno però che la città proibita si popola di gente assai curiosa. Fanno fessi i militi ignoti posti a presidio della zona rossa, che in tuta mimetica fissano lo sguardo assonnato sulle strade deserte. Sgaiattolano oltre le transenne, scivolano invisibili tra i vicoli e piazzette, schivando capitelli e rovi, bifore sbreccate e bidet in attesa di soccorsi.

Sono costoro appartenenti alla segretissima setta dei rabdomanti di parole. Hanno una missione da compiere: passeggiare con lentezza nella loro città con l'anarchia dolce, suggerisce Cassano, di chi inventa di momento in momento la strada, felice di avere in tasca soltanto le mani. Rischiano di buon grado una multa per divieto di sosta interiore, pur di ritrovare le parole che sono pietre, da rimettere al loro posto, una ad una, perché tutto riacquisti un senso.

Al chiassetto del campanaro, ad esempio, sotto la casa di Buccio da Ranallo, che le tanti morti e resurrezioni della città raccontò in sonetti, si ode ancora l'eco inascoltata del primo grande tremore della terra, annus domini 1349: ''De persone octocento che per lu taramuto fu morte e socterate, or che vedeo strillare, e fare pietate, chi piangea lu filio, chi mollie, chi lu frate, chi piangea la matre, chi padre, chi sorella, chi se graffiava in petto, chi la mascella; e giano scomeranno ogni via e rugitella, per retrovar le corpora, con amara favella''.

Poco lontano, dove lo sguardo si apre su una delle piazze con l'assenza intorno e in mezzo una fontana muta, sono invece coriandoli dentro pozzanghere sporche, le pennellate di Carlo Emilio Gadda, che tanto amava il sole freddo di questa polis di montagna, e che il pasticciaccio brutto a venire non immaginava e chiedeva di esser lasciato dove la piazza chiara si apre declive ai gradini all'arco e alle torri, piena di tende, di gabbie di polli, fruttifera e insigne di peperoni, di bretelle, di padelle, di pantofole, di paralumi e piatti mal cotti, che il lucchese uno dopo l'altro li lancia verso il cielo e poi come un giocoliere li riprende....Calze e giocattoli, pettini, sapone verde, limoni, compatte maglie di lana, contro i gelidi ululati dell'inverno.''

Molte poi le devote imprecazioni al cielo che sgocciolano nei pressi delle antiche bettole e le osterie barcollanti, dove la polvere ammanta i banconi consumati dal gomito dei tavernicoli e dei fernettiani, dagli sguardi di fuoco delle veneri del montepulciano.

E c'è poi una casina diruta lungo via Paganica, a pochi passi dalla cattedrale sventrata, dove la muffa evoca ancora l'odore caldo del pane e dove tornò a morire Gilberto Centi, visionario poeta d'anagrafe incerta, che almeno ci provò a trattenere nel pugno il vento e isole d'immaginazione e freddo, mentre i sistemi tecnologici sollevano l'azzurro spalancando la notte, gli allestitori lucidavano il cielo, spolveravano l'orizzonte e accendevano il sole.

Cigolano invece i pensieri di Guido Ceronetti, lungo via Sassa, sotto il monastero dove la grata vibra come un arpa per il coro d'ombre delle monache, e un'onda di calma si diffonde. E sono passi smarriti i versi di Giuseppe Porto, sotto i portici impolverati e bui, dove si strusciava la gioventù aquilana, e dal traffico dei cuori esplodevano fiori, e la gioia gettava semi tra le albe e i tramonti.

C'è un insolito vociare a piazza san Pietro, in un mite mattino d'autunno. Il silenzio è rotto dal graffiare di grafite su ruvidi fogli. Bisogna continuare a cercare, la città è memoria stratificata. Disegniamo per non dimenticare, spiega uno di loro, un disegnatore col caschetto, che passeggia per le vie smarrite dell'Aquila, seguiti dallo sguardo curioso degli operai migranti dai sud e dalle Padanie.

Sono tornati più volte in città, i disegnatori con il caschetto, portando doni preziosi: il loro sguardo attento alle cose che hanno valore, e con carriole piene di disegni che viaggiano più veloci delle parole, non hanno bisogno di traduzioni, e arrivano immediatamente al cuore.

Fondare una città, o ricostruirla, in fondo significa disegnarla. Quando Cadmo immaginò la mitica Tebe, al centro pose Armonia, e intorno tutto si modellò sulla geometria dei cieli. L'Aquila vista dal cielo, come la vide il matematico Pico Fonticulano, ha la forma di un cuore, con dentro i ritmi tra i pieni e i vuoti, i labirinti che scrivono arcani ideogrammi. La stella Altair corrisponde alla basilica di San Bernardino, la stella Deneb con il Duomo che è il centro, il fiume Aterno è il Cedron che lambisce la città, per qualcuno specchio della Gerusalemme celeste.

Per i torvi pizzicagnoli di mattoni, per gli spacciatori di cemento, per i politicanti dalla dentiera vorace, la pianta magica della città è invece solo una torta da dividere a fette, una greppia dove porci in doppiopetto potranno ingozzarsi a sazietà. Il terremoto per loro è una variabile di mercato che ha fatto crollare il prezzo degli antichi palazzi di cui si potrà fare incetta, prendendo alla gola i terremotati stremati.

Se a vincere saranno loro, le parole dei rabdomanti, le forme segrete dei disegnatori con il caschetto, rimarranno per sempre appesi alle transenne arrugginite, al fianco delle mille chiavi che gli aquilani forti e gentili appesero per protesta, sulle reti che racchiudono la loro città proibita e perduta.

Filippo Tronca

 

Filippo Tronca


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