Ritratto di Famiglia PD

Lezioni di comunicazione della crisi

26 Novembre 2008   07:34  

DALLO PSICODRAMMA ALLA CATARSI ALLA SFIDA.

Nel film "Il terzo uomo" lo sciagurato personaggio interpretato da Orson Welles, il cinico avventuriero Harry Lime, pronunciava a un certo punto queste parole: "In Italia, sotto i Borgia, ci furono guerra, terrore, omicidi, carneficine, ma vennero fuori Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento; in Svizzera non ci fu che amore fraterno, ma in cinquecento anni che ne e' venuto fuori? L' orologio a cucu' ".
Paradossalmente anni di pace e di armonia nel Partito Democratico abruzzese non avrebbero prodotto ciò che invece è scaturito dalle vicende del 14 luglio allorché parte della giunta Del Turco è finita sotto inchiesta. Qualcuno gridò al principio della fine ma, a tutt’oggi, non pochi pensano che quello sia stato l’inizio traumatico e drammatico di un nuovo corso: una catarsi politica dalla quale esce un Partito Democratico con più ferite ma con maggiori certezze. L’atto di autocognizione del dolore, per dirla in termini psicoanalitici, è stato vissuto e poi sublimato nell’incontro tenutosi al Cinema Massimo di Pescara  giovedì 20 novembre 2008. Avrebbe dovuto trattarsi della consacrazione di Costantini nella casa del Partito Democratico e nella sua investitura a leader della coalizione da parte del gruppo dirigente del PD, alla presenza del Ministro dello Sviluppo Economico del Governo ombra di Veltroni, Matteo Colaninno. Ma la sorte ha voluto, complici i temi affrontati e l’assenza di Costantini, che l’adunanza fosse l’atto finale dello psicodramma del PD: una sorta di seduta di coscienza collettiva dove molti hanno parlato più con la pancia che con la testa. Doveva essere la pista di decollo per Costantini ed è stato, invece, un salutare viaggio à rebours nella crisi e nella rinascita di un partito che sa di avere un dna di classe dirigente e che ha dinanzi la sua sfida elettorale più difficile. Nulla sarà più come prima. Lo si è detto per l’11 settembre in America. Lo si potrebbe dire per la storia del Partito Democratico abruzzese. Dal 14 luglio 2008 in poi è mutato le scenario: nelle stanze romane del Partito Democratico sanno che la scelta di Del Turco come governatore fu una decisione sbagliata che non teneva conto degli uomini e delle energie che il Partito Democratico abruzzese aveva già in seno e che “panchinare” D’Alfonso, in occasione di quelle elezioni, fu decisione funesta, tanto più alla luce degli avvenimenti posteriori. All’ intervento del Consigliere Comunale Fusilli, che ricorda come la riforma del titolo V della Costituzione, dando ampio potere alle regioni, responsabilizzi maggiormente le future classi dirigenti chiamate a confrontarsi in uno scenario globale, segue quello di Graziano Di Costanzo, direttore della CNA Abruzzo, che traccia, con numeri e dati alla mano, un quadro preoccupante e apocalittico della crisi industriale abruzzese che si sta tramutando in un crollo dell’occupazione. Molto interessante la sua critica al modo di fare campagna elettorale: troppi slogan e troppe promesse vaghe. Di Costanzo coglie un nodo fondamentale della comunicazione politica: quello della necessità che le campagne di comunicazione elettorali in questa travagliata stagione abruzzese siano improntate a un sano realismo e ad un pragmatismo credibile, indicando progetti da realizzare e modalità.

IL RITORNO DELLE CONVERGENZE PARALLELE. LA STRATEGIA COMUNICATIVA DEL CENTRO SINISTRA

Da uomo politico di lungo corso e da amministratore d’esperienza, Pino De Dominicis, Presidente della Provincia di Pescara, sa che per vincere una competizione elettorale occorre comunicare all’elettorato messaggi omogenei e presentarsi al voto con una coalizione compatta. Uniti e all’unisono si vince: è una lezione vecchia quanto il mondo ma sempre valida. Dal mio punto di vista De Dominicis lascia trapelare una preoccupazione che serpeggia nella coalizione: quella di non essere abbastanza coalizione. Talora si ha la sensazione che ciascuno degli alleati di centrosinistra faccia campagna elettorale a parte e che si viaggi su rette parallele. Il problema è complesso, anche dal punto di vista della comunicazione politica in senso stretto. Un Costantini percepito in modo autonomo rispetto al PD potrebbe catalizzare un voto indipendente che voglia premiare Costantini medesimo e non già il Partito Democratico: e questo sarebbe l’effetto virtuoso di una campagna elettorale a doppio binario. Il contraccolpo potrebbe, di converso, prodursi laddove il PDL apparisse come uno schieramento granitico e tetragono mentre il centrosinistra venisse percepito come un mosaico, un coacervo di forze non del tutto coese. La difficoltà tattica si pone solo perché purtroppo le vicende del 14 luglio hanno determinato un clima non favorevole al PD che, proprio in forza di questo, ha dovuto digerire e metabolizzare, obtorto collo, la candidatura Costantini. Salvo poi impegnarsi in un’operazione di riconsacrazione di Costantini medesimo. Ritorna sulla scena un vecchio adagio della politica: convergenti ma paralleli.

LA RABBIA E L’ORGOGLIO. DI MATTEO REVENGE

E finalmente si è consumato uno dei momenti più attesi dalla platea: il primo discorso ufficiale del grande escluso, Donato Di Matteo, che, dopo non aver fatto mistero in queste settimane della profonda delusione scaturita dal veto “costantiniano”, si è profuso in un discorso a tutto campo che sapeva di orgoglio ferito, rivincita, voglia di tornare in campo e, soprattutto, di malcelato desiderio di fare l’assessore ombra in un futuribile governo Costantini. Anche Di Matteo si scaglia contro la sloganistica della facile comunicazione elettorale e auspica programmi concreti. Successivamente si scalda sul tema a lui più caro: la sanità. Indica, a quel punto, quelle che saranno le sue battaglie sia in caso di vittoria elettorale del PD che di sconfitta:  riorganizzazione del sistema sanitario, difesa dell’ospedale di Pescara dall’ipotesi di un vassallaggio nei confronti di quello di Chieti, riforma della trasportistica e potenziamento dei collegamenti infrastrutturali. Il consenso quasi plebiscitario che giunge dalla platea lascia intendere che Di Matteo giocherà un ruolo determinate sia in caso di vittoria di Costantini (agendo da propulsore occulto di idee e progetti) sia in caso di sconfitta (in questa ipotesi la resa dei conti nel PD sarà inevitabile e lui reclamerà nuovi assetti e nuove geometrie per il PD regionale, fatta salva l’ipotesi di una sua candidatura alla provincia che possa blandire il suo desiderio di “vendetta”  da Conte di Montecristo). Ma il punto, ora come ora, è un altro: Di Matteo sembra, nel suo intervento, più preoccupato di saldare conti interni che di incitare alla competizione elettorale. Si rischia, come spesso è accaduto nella storia delle forze politiche che si sono fuse nel PD, un’insana propensione all’autolesionismo.


“CHE OGNUNO SI SENTA CANDIDATO”. IL TEMPO, LO SVILUPPO E LA SFIDA PER LUCIANO D’ALFONSO

“Il nostro destino non è spaventoso perché irreale; è spaventoso perché è irreversibile e di ferro. Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco. Il mondo, disgraziatamente, è reale; io, disgraziatamente, sono Borges”

J.L. Borges, Nuova confutazione del tempo



Luciano D’Alfonso inizia con una riflessione sul tempo in perfetto stile borgesiano. “In passato il tempo non passava”: D’Alfonso spiega che il ritmo con il quale mutavano le condizioni socio-economiche e politiche non era vorticoso come quello attuale. Mentre il tempo attuale è un tempo veloce, che divora se stesso e che, al di là delle implicazioni filosofiche, impone a chi lo vive la capacità di interpretarlo e di agire su di esso in modo rapido: e non esiste classe dirigente degna di questo nome che non debba fare i conti con il valore prezioso del fattore tempo. Occorre decidere rapidamente per rispondere ai cambiamenti e per non farsi travolgere dall’onda del mutamento. D’Alfonso ricorda che la Regione come istituzione ha a disposizione le risorse normative e finanziarie per generare crescita e sviluppo del territorio. E poi arriva la chiusa del discorso di D’Alfonso: una chiamata alle armi e la riproposizione della catarsi politica. “Noi non c’entriamo con Del Turco” dice con energia D’Alfonso. E’ il momento topico nel quale il Partito Democratico abruzzese, nella persona del suo segretario regionale, rivendica la sua purezza e prende le distanze dagli errori di alcuni: dal punto di vista di quella che gli esperti chiamano “crisis communication” (la disciplina che si occupa di insegnare come si comunica in un’azienda o in un’istituzione in momenti critici), D’Alfonso fa bene a non glissare sull’argomento e a riaffermare, malgrado tutto, il valore del Partito Democratico abruzzese.
D’Alfonso fa la sua chiamata alle armi, che è poi l’obiettivo vero di questo incontro: così facendo la mente dei partecipanti viene sottratta a questo lavacro purificatorio in casa PD e riemerge il tema del consesso: la sfida per la Regione.  Nella presentazione del candidato Costantini, avvenuta qualche giorno prima (14 novembre 2008) al Circus di Pescara, D’Alfonso aveva già compiuto una scelta comunicativa coraggiosa ma efficace allorché aveva posto l’accento sul fatto che Costantini rappresenta un candidato emerso da una dialettica dura tra PD e IDV, mettendo in rilievo come le scelte migliori possano nascere anche da situazioni conflittuali. Per dirlo alla Welles la guerra produce il genio più della pace.
Soffermandosi, invece, sul travaglio e sulle sofferenze maieutiche che avevano condotto alla scelta del candidato di coalizione, D’Alfonso aveva compiuto la catarsi, quella che, secondo Aristotele, i Greci sperimentavano a teatro provando pietà e terrore per le vicende della tragedia. Così facendo il segretario regionale del PD lasciava intendere, pur non facendone menzione, che è migliore, dal punto di vista darwiniano, la scelta controversa di un Costantini che quella di un Chiodi, avvenuta semplicemente con la designazione da parte di Berlusconi del suo presidente ideale in una terna di papabili. E’ inevitabile tornare con la mente alla citazione di Orson Welles: è meglio un candidato che venga fuori da una dura lotta (e quindi temprato e pronto alle sfide vere) oppure un candidato reso tale semplicemente dal tocco del sovrano? Nell’auditorium D’Alfonso fa risuonare un energico “Che ognuno si senta candidato e faccia la sua parte in questa compagna elettorale”. Questo avrebbe potuto essere uno slogan eccellente che nessuno ha però messo in campo, né da una parte  né dall’altra, Nell’agone comunicativo hanno, invece, trionfato, di regola, slogan e claim provenienti dal “Jurassic Park” della comunicazione politica. Unica assente: la creatività.

ARCHETIPI DI CAMPAGNA ELETTORALE. PROVE TECNICHE DI PERSUASIONE

Il limite di un incontro, pur così  denso di spunti e di percorsi, è quello forse di non essere stato divulgato con strategie innovative. E’ arrivato il momento nella comunicazione di non trattare più l’elettore come un imbelle al quale rifilare solo slogan e spot, ma come un cittadino-pensante che vuole anche ascoltare ragionamenti. All’elettore si arriva in due modi: con la pancia e con la testa. Esistono due archetipi di campagna comunicativa: la campagna emotiva e la campagna razionale. Che naturalmente possono anche evolvere in forme ibride. L’evento svoltosi al Massimo, come tutte le sedute di coscienza, è stato un modo intelligente di fare campagna razionale e io credo che se anche l’elettore comune, non simpatizzante del PD, avesse potuto seguire tale dibattito in radio, in tv o su internet (o, persino, su qualche maxischermo), avrebbe sperimentato una forma nuova di marketing elettorale: un reality fatto di passioni e idee, di persone in carne ed ossa che si confrontano, più penetrante di qualsiasi slogan o santino.
D’altro canto l’intera campagna elettorale del centrosinistra si svolge sul filo del rasoio di una comunicazione che, da un lato, deve mostrare il basso livello di contaminazione politica (determinato dall’esclusione di candidati indagati, ancorché elettoralmente forti, e dall’inserimento nel listino di candidati non politici) e, dall’altro, deve persuadere gli elettori che la Regione Abruzzo può essere governata solo da una classe politica che abbia già una significativa esperienza di governance dei territori locali. Una strategia “cerchiobottista” che appare inevitabile in uno scenario dove il dilemma amletico dell’elettore potrebbe essere: meglio farsi governare da persone non contaminate politicamente ma prive di esperienza amministrativa o affidarsi a politici di professione capaci di gestire i problemi del territorio? Del resto le sorti elettorali saranno decise dall’ordine di priorità che i cittadini stabiliranno indirettamente nell’urna: l’Abruzzo ha più bisogno di onestà e trasparenza oppure di sviluppo e lavoro? Non che onestà e capacità politica siano termini in contraddizione, ma la storia politica dell’Italia pre-tangentopoli ha mostrato che una classe dirigente tetragona come quella pentapartitica, pur corrotta e poco trasparente, è stata, in molti frangenti, capace di costruire sviluppo. Ciò rappresenta una verità scomoda da accettare e rifiutata dai benpensanti: eppure una tale contraddizione storica meriterebbe una riflessione scevra di moralismi e qualunquismi. Ma, per quanto riguarda l’Abruzzo, il problema della bonifica dell’agone politico dai politici di professione non appartiene solo al centrosinistra, ma investe anche la coalizione del PDL. Si tratta, da entrambe le parti, di strategie di rimodulazione del consenso elettorale reso più precario dal clima di qualunquismo e antipolitica che serpeggia da anni nel paese. Sia PD che PDL devono muoversi in equilibrio, elogiandosi come classe politica efficiente e, al contempo, rivendicando la loro natura angelica e poco “politica”. Ma la politica, intesa appunto come l’arte di governare la città, era una scienza gloriosa nell’antichità: e se Platone sognava una repubblica perfetta, Aristotele immaginava uno stato meno perfetto ma più realistico. La comunicazione elettorale prescrive di cavalcare il senso di antipolitica che attraversa il paese per intercettare il voto dell’elettorato disilluso. Ma la comunicazione elettorale non è la Bibbia. Sopra essa c’è la democrazia e tutti sanno (ma a volte lo dimenticano) che dove cessa la politica come scienza del buon governo iniziano fenomeni forieri di sventura: il qualunquismo e il populismo.
Parafrasando il titolo una nota opera filosofica, molti si augurano che l’eclissi della Ragione non conduca all’eclissi  della Regione..


Prof. Franco Forchetti
Docente di Comunicazione
Esperto di Comunicazione politica
forchetti@inwind.it
blog: http://abruzzopolitica.digitlearning.com
sito web: www.digitlearning.com

 


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