Seminari della Guardia di finanza: cos'è il pizzo?

03 Aprile 2009   13:17  

Si è parlato di pizzo, questa mattina nel seminario della Scuola ufficiali della Guardia di Finanza dell'Aquila. Ci doveva essere anche Tano Grasso, l'imprenditore in prima fila nella lotta al racket, ma problemi di salute glielo ha impedito. L'estorsione è una fattispecie criminale che alle mafie rende ogni anno 9 miliardi di euro, e che rappresenta il segno di dominio totale su un territorio da parte dei clan, di una presenza costante e minacciosa, che trasforma la vita delle persone oneste in un inferno quotidiano.
Il caso Alba d'Oro di Tagliacozzo ed altri fatti di cronaca creano preoccupazione,  a causa del coinvolgimento più o meno diretto di esponenti anche di spicco della criminalità organizzata. Ma nel contrastare il tentativo di infiltrazione mafiosa in Abruzzo la Guardia di Finanza, insieme a tutti gli altri corpi di polizia, è in prima linea e il livello di attenzione è massima.

 

Il pizzo tagliato

da Terre di mezzo

Mario abita in Sicilia, ma da anni ha smesso di viverci. Era titolare di una catena di concessionarie, con un centinaio di dipendenti e un fatturato a nove zeri. Aveva una moglie e una figlia. Era impegnato in politica e riteneva di avere molti amici. Tutto questo finché il racket, la mafia del 'pizzo', non lo ha preso di mira. "Dopo aver subito estorsioni per tredici anni, nel 2002 ho deciso di denunciare i miei estorsori, confidando nell'appoggio delle istituzioni, che avevano promesso di aiutarmi a rilanciare la mia attività". Mario è stato aiutato dal Comitato che gestisce il "Fondo di solidarietà per le vittime del racket e dell'usura". Lanciato nel 1999 con la legge 44, in quattro anni il Fondo ha elargito risarcimenti per 57,946 milioni di euro, di cui 36,048 milioni per le vittime del racket. Soldi utili per la lotta alla mafia, anche se non sufficienti: nel 2003 sono state oltre 160 mila le vittime del racket, secondo la Confesercenti.
Ma nello stesso anno, solo 8.492 commercianti hanno deciso di ribellarsi e denunciare. Anche perché ottenere un risarcimento può richiedere anni. Le vittime del pizzo, denunciati i propri estorsori, devono attendere il termine di un lungo iter che comprende le indagini dell'autorità giudiziaria e l'approvazione dell'istanza da parte del Prefetto e di una commissione locale. Poi l'istanza viene inoltrata al Comitato di solidarietà per le vittime dell'estorsione e dell'usura. Presieduto da un Commissario di nomina governativa, il Comitato è composto da nove membri, tra cui tre rappresentanti delle associazioni antiracket e antiusura. È proprio il Comitato che, finalmente, può aprire le casse del Fondo di solidarietà. Nel 2003 il Comitato ha esaminato 908 richieste, accogliendone 208. 361 richieste esaminate provenivano da vittime del racket; di queste ne sono state accolte 101, con un esborso di 9,582 milioni di euro. A suo tempo anche Mario ha avuto un risarcimento di 367 mila euro: "Una somma inadeguata alle dimensioni della mia attività, che tuttavia è potuta riprendere, anche se in scala molto ridotta".
Ma se il danno economico subito da Mario è impressionante, quello personale è incalcolabile: "Mia moglie aveva molta paura, anche per nostra figlia. Dopo la denuncia il nostro matrimonio è finito". In attesa che si concluda il processo in cui è figura come testimone di giustizia, Mario gira sotto scorta: anche quando esce per fare la spesa, ha un carabiniere che lo segue a un metro di distanza. Non può andare in vacanza, né avere una normale vita sociale: quando incontra gli amici per la strada, molti non lo salutano più. "Uno degli obiettivi della mafia è demolire le persone dal punto di vista psicologico -dice-. Io per ora resisto, ma mi sento come un fuscello contro un fiume in piena".
Il racket è un fenomeno diffuso ovunque in Italia. Ma gli imprenditori e i commercianti costretti a pagare il pizzo sono concentrati nelle grandi aree urbane del Mezzogiorno. Molti di loro vivono nella paura: secondo una ricerca del Censis e della Fondazione Bnc, nonostante l'anno scorso il 3,1 per cento del fatturato delle imprese del Sud sia stato speso in sistemi di sicurezza, il 24,3 per cento degli imprenditori meridionali ritiene 'molto insicuro' il proprio contesto territoriale. Una paura che dissuade molti dall'esporsi in prima persona, anche nel 2003 le denunce sono aumentate del 3 per cento rispetto all'anno precedente (8.492 contro 8.240). "In pochi si espongono perché molti si sono pentiti di aver denunciato, a causa della legislazione in vigore.- dice don Marcello Colzi, sacerdote potentino impegnato in prima linea come vicepresidente della Federazione italiana antiracket -. I meccanismi della giustizia sono lenti e la burocrazia non è solerte nel far arrivare i risarcimenti richiesti. Inoltre, la strategia delle mafie è cambiata: oggi si tende a far pagare poco a tutti. Si chiede un minimo, che garantisce la 'sicurezza' e che difficilmente porta all'emersione del problema".
Non solo: la legge n. 44/99 non prevede l'erogazione dei benefici per chi ha subito una dichiarazione di fallimento, una condizione che non di rado è la conseguenza diretta proprio dell'estorsione e dell'usura.
È il caso di Sara e Stefano, giovani fratelli brianzoli che si sono visti bloccare l'erogazione di un risarcimento dopo il recente fallimento della loro attività. "Quattro anni fa trovammo un bell'immobile in affitto, ideale per aprire un ristorante. Lo ristrutturammo di tasca nostra, investendo oltre 500mila euro. Ma poco prima dell'inaugurazione, i proprietari iniziarono a taglieggiarci". Dopo anni di vessazioni, i due fratelli stavano per ottenere un contributo di 168 mila euro, a titolo di risarcimento per essere stati coinvolti in un giro di cambiali false emesse dalla ditta che aveva ristrutturato il locale. "Mentre loro li abbiamo denunciati, con i proprietari abbiamo avuto paura - ammette Stefano -. Così ci siamo limitati a fare scrivere una lettera da un avvocato, chiedendo la restituzione della licenza e dei soldi spesi per i lavori. Per tutta risposta abbiamo ricevuto intimidazioni e minacce di morte, insieme ad atti di danneggiamento, vandalismo e sabotaggio, che ci hanno costretto a chiudere la nostra attività".
Oggi Sara e Stefano, oltre a cercarsi un lavoro, aspettano che la giustizia faccia il suo corso, ma senza troppe illusioni: "Quando vado in Procura e leggo i manifesti con la scritta 'Denunciare conviene sempre' mi cascano le braccia", confessa Stefano.
"Lo Stato fa molta propaganda ma in concreto la sua azione lascia a desiderare - dice Piero Milio, avvocato palermitano che ha difeso numerose vittime del racket, tra cui i famosi commercianti di Capo d'Orlando (vedi articolo a lato) -. La legislazione attuale è di difficilissima attuazione e i pochi che denunciano vengono abbandonati a sé stessi".

La paura usura chi ce l'ha

Il vento di Capo d'Orlando fu il primo a spazzare via la paura.
Nel luglio 1991 un manipolo di sei commercianti della cittadina messinese, capitanati da Tano Grasso, decise di rispondere unito allo strapotere del racket, costituendosi parte civile nel processo contro 14 presunti taglieggiatori.
La sentenza, che portò alla loro condanna, segnò una svolta nella presa di coscienza dell'opinione pubblica. "La vicenda ebbe molto clamore - ricorda l'avvocato Piero Milio, che difese i commercianti - perché era la prima volta che succedeva una cosa del genere ed era la prima volta che, con grande fatica, si convincevano i Pubblici ministeri e i giudici che si poteva intervenire per combattere questo tipo di reato".
La risposta della mafia non si fece attendere. Il 29 agosto 1991 l'imprenditore palermitano Libero Grassi fu freddato a colpi di pistola per essersi esposto pubblicamente contro il racket.
L'estate successiva venivano trucidati i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con le loro scorte e, nel novembre 1992 tornava a colpire uccidendo l'imprenditore gelese Gaetano Giordano. Nonostante queste tragedie, il vento dei 'commercianti ribelli' non smise di soffiare.
In quegli anni nacquero numerose associazioni antiracket, impegnate nel sensibilizzare l'opinione pubblica e nell'assistere le vittime del pizzo in tutta Italia. Oggi se ne contano 70 e sono coordinate dalla Federazione italiana antiracket. Una presenza chiamata ad uno sforzo ulteriore: secondo la ricerca condotta nel 2003 dal Censis e dalla Fondazione Bnc, il 67 per cento degli imprenditori del Sud pensa che le associazioni per la lotta al taglieggiamento siano inutili e un'ulteriore quota del 21 per cento le ritiene una pericolosa esposizione a ritorsioni da parte delle organizzazioni criminali.

Sud ricco come il Nord, senza la mafia

Senza la criminalità organizzata non ci sarebbero differenze economiche tra Nord e Sud Italia. Lo rivela una ricerca condotta dal Censis e dalla Fondazione Bnc, che ha valutato in 7,5 miliardi annui (2,5 per cento del Prodotto interno lordo del Sud) la mancata crescita del valore aggiunto delle imprese meridionali per influenza dell'attività criminale. Senza lo zampino della mafia, dal 1981 ad oggi il Pil pro-capite del Mezzogiorno avrebbe raggiunto quello del Nord. Per capire il potere invasivo delle attività criminali sull'economia nazionale basti pensare che i reati di stampo mafioso fruttano ogni anno un giro d'affari di 63,7 miliardi di euro e sottraggono al sistema commerciale 24 miliardi, che finiscono direttamente nelle tasche della criminalità (dati forniti da Sos Impresa, 2003). Racket e usura sono forme di ricatto che puntano sull'intimidazione di commercianti e imprenditori, da un lato per 'estorcere' denaro in cambio di protezione, dall'altro per 'prestare' denaro a tassi d'interesse impossibili. Il 'Fondo di solidarietà' istituito nel 1999 cerca di andare incontro a quanti restano vittime di questi reati.

 


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