Terremoti, tsunami, geologia e conoscenza del territorio

''...la gente non legge e non sa nulla''

31 Ottobre 2009   11:44  

Immagini da satellite e i rilevamenti della fitta rete Gps sugli Appennini, possono farci vedere movimenti del suolo in tempo reale. I risultati Ingv sono disponibili. La misura dei tassi di deformazione viene usata anche per definire la mappa di pericolosità.

Enzo Mantovani: "Queste informazioni non possono essere facilmente usate per fare previsioni sull'attività sismica futura: è necessario conoscere le caratteristiche  del reticolo di faglie presenti, il suo attuale caricamento e il quadro dinamico che le sollecita". La rete Gps ha messo in evidenza i movimenti crostali di origine non sismica, che avvengono a causa dei lenti movimenti delle placche terrestri. Warner Marzocchi (Ingv).

"La novità è che siamo riusciti a misurarli su brevi intervalli di tempo". Il geologo Antonio Moretti:"Come bagaglio culturale, capacità tecnica e preparazione dei ricercatori (in particolare l'Ingv) l'Italia non è inferiore a nessun'altra nazione, solo la complessità del nostro territorio è tale, almeno in relazione all'investimento economico disponibile ed al numero dei ricercatori, che non è fisicamente possibile coprire tutte le necessità".

Tre sono i concetti fondamentali per la diffusione in Italia di una corretta cultura del terremoto. L'Ingv scopre che il vulcano Panarea, classificato non attivo fino alla crisi sottomarina del Novembre 2002, si deforma. I nostri scienziati ritengono che la ricerca debba continuare a impegnarsi più a fondo propria sulla via della previsione e prevenzione dei terremoti. Ma occorre un chiaro ed inequivocabile indirizzo politico.

Oggi in Italia il problema principale è che la gente non legge e non sa nulla.

 

(di Nicola Facciolini)

 

I terremoti non sono ancora prevedibili in magnitudo, tempo e spazio ben definiti, pur tuttavia vale sempre la regola aurea, dedotta dall'esperienza di questi mesi:"dobbiamo aspettarci anche di peggio". Sotto i nostri piedi, infatti, regnano le leggi della fisica. Dopo il terremoto di L'Aquila (Mw=6.3) del 6 aprile 2009, gli scienziati (www.emsc-csem.org) non possono escludere il rischio di nuovi eventi sismici disastrosi in Italia e nel mondo (terremoti, tsunami ed eruzioni vulcaniche nel Mediterraneo, in primis) nonostante le previsioni siano impossibili.

Senza contare gli impatti cosmici da asteroidi e comete: la NASA conferma che l'8 ottobre 2009 alle 11 di mattina, senza alcun apparente preavviso, un meteorite di 10 metri di diametro si è abbattuto sui cieli di Bone, nel Sulawesi del Sud, in Indonesia, liberando un'energia pari a 50 chilotoni: l'esplosione (simile a quella di una testata nucleare) del corpo celeste è avvenuta nella stratosfera. Non è possibile escludere, dunque, un "Big One" mediterraneo, una tragedia gigantesca che potrebbe colpire prima o poi anche in Italia, come è accaduto in passato, conquistando le prime pagine "web" dei nostri giornali.

La necessità di evitare il panico, di scongiurare una fuga incontrollata di massa che possa provocare più vittime del sisma stesso, è l'altra regola aurea che dovrebbe "illuminare" tutti. Ma ai cittadini va sempre detta la verità. Tre sono i concetti fondamentali per la diffusione in Italia di una corretta cultura del terremoto: il difficile equilibrio tra messaggi di allarme e di rassicurazione; la necessità di discriminare fra terremoti di media intensità e terremoti distruttivi; e la consapevolezza che i terremoti non si possono ancora prevedere. Le relazioni scientifiche internazionali lo dichiarano espressamente.

L'evacuazione preventiva nel timore di una possibile scossa distruttiva, in passato anche in Italia, è sempre stata fallimentare. Solo in due rarissimi casi al mondo (Cina e Turchia) fu possibile prevedere l'evento con grande precisione, ma fu un colpo di fortuna che in pochi ricordano come successo della scienza nonostante la tragedia. Perché quando falliscono, gli scienziati sono sommersi per sempre dalle polemiche per il panico e i disagi creati alla popolazione. Se in Italia ci dobbiamo aspettare di peggio, i politici "liberi" dovrebbero sforzarsi di aiutare i cittadini a riflettere sul da farsi per salvare le vite umane e i beni materiali. Se anche da noi si verificherà un Big One, cosa faremo? Così in California indicano il ritorno di un sisma tanto distruttivo quanto quello di San Francisco del 1906.

Sarà un evento peggiore di L'Aquila AD 2009, ossia simile a quello di Messina del 1908, con una magnitudo superiore a 7° della scala Richter, e cioè con un'intensità maggiore del decimo (X) grado Mercalli, presumibilmente con decine di migliaia di vittime. Sappiamo che colpirà in una delle tante zone a rischio nell'area mediterranea, ma purtroppo gli scienziati non sanno esattamente dove e quando. Sanno quali danni potrà provocare alle attuali costruzioni. Dopo un eccesso di ottimismo manifestato dalla scienza americana negli anni '70 e '80 del XX Secolo, e dopo i tentativi falliti di prevedere l'arrivo del Big One californiano, oggi si è sfortunatamente caduti nell'eccesso opposto. La rivista "Science" ha pubblicato in passato articoli in cui si affermava che i terremoti non si possono prevedere.

Ma i nostri scienziati non sono così pessimisti e ritengono che la ricerca debba continuare a impegnarsi più a fondo propria sulla via della previsione e prevenzione dei terremoti. Ma occorre un chiaro ed inequivocabile indirizzo politico, una svolta decisiva. Esistono diversi fenomeni precursori, di natura geochimica, geofisica, elettromagnetica ed ancora ignota, il cui studio potrà portare, in futuro, a prevedere l'arrivo di un terremoto distruttivo, così come oggi fanno le previsioni meteo grazie ai satelliti che non sono più fantascienza. Ma oggi in Italia il problema principale è un altro: la gente non legge e non sa nulla.

Il prof. Antonio Moretti, geologo dell'Università di L'Aquila, appena tornato da un'escursione in Sierra Nevada, fa notare che i primi dati italiani tra deformazioni del suolo e terremoti (cioè l'individuazione della traccia sul suolo del piano di faglia attivo) risalgono al 1908, "quando, subito dopo il terremoto di Reggio e Messina, fu rifatta la livellazione del piano ferroviario che circondava la penisola calabra, rilevando un abbassamento di circa un metro nel litorale reggino, mentre i settori settentrionali ed orientali corrispondenti risultavano rialzati di circa 60 cm". Da allora, molti progetti di ricerca sono stati realizzati, con le tecniche disponibili all'epoca.

"Per esempio, negli anni '80, la rete sismica regionale della Calabria, diretta dal prof. Ignazio Guerra, posizionò una serie di capisaldi altimetrici sui due margini dello stretto di Messina e dello stretto di Catanzaro, un'altra delle strutture tettoniche ritenute attive. Il lavoro richiese molti mesi di lavoro, con stadi, livelle, teodoliti laser e notevolissimi investimenti finanziari".

Poi venne l'epoca del Gps. "Gli stessi capisaldi (almeno quelli che erano sopravvissuti ai vandali) furono "ribattuti" con le nuove tecniche, che consistevano in sostanza nel posizionare uno strumento grande come una valigia ed un'antenna tipo televisione, nel montare una tenda vicino al caposaldo ed attendere 24 ore prima che la misura fosse completa". Oggi le immagini interferometriche da satellite fornite dall'Agenzia Spaziale Europea (Esa) possono farci vedere movimenti di pochi centimetri praticamente in tempo reale, e lo studio delle deformazioni del suolo sono una delle tecniche di previsione più promettenti.

"Come bagaglio culturale, capacità tecnica e preparazione dei ricercatori (in particolare l'Ingv) - afferma Moretti - l'Italia non è inferiore a nessun'altra nazione, solo la complessità del nostro territorio è tale, almeno in relazione all'investimento economico disponibile ed al numero dei ricercatori, che non è fisicamente possibile coprire tutte le necessità. Come se un ospedale avesse macchinari estremamente perfezionati per le analisi e la cura dei pazienti, ma un solo (anche se bravissimo) medico per usarli".

Dunque, i sismologi possono solo studiare il fenomeno ed insegnare ai giovani la complessa natura del nostro territorio. Le sorprese sono all'ordine del giorno. Ricercatori dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia hanno scoperto che il vulcano Panarea, classificato non attivo fino alla crisi sottomarina del Novembre 2002, si deforma.

"I dati mostrano che il vulcano, che include gli isolotti vicini, è sottoposto a deformazioni orizzontali e verticali". Lo dice una nuova pubblicazione in stampa sul Bullettin of Volcanology, intitolata: Modeling ground deformations of Panarea volcano hydrothermal/geothermal system (Aeolian Islands, Italy) from GPS data, di A. Esposito, M. Anzidei, S. Atzori, R. Devoti, G. Giordano e G. Pietrantonio. Questi risultati, sono stati ottenuti con due stazioni GPS continue e una fitta rete GPS che viene periodicamente misurata dal 2002.

"I risultati ottenuti suggeriscono la presenza di due aree a comportamento distinto, quella di Panarea e quella degli isolotti, caratterizzate da deformazione orizzontale e verticale anche di alcuni millimetri all'anno. Le deformazioni stimate sono riconducibili alle variazioni geofisiche e geochimiche del sistema geotermico/idrotermale che caratterizza questo vulcano.

Tali cambiamenti potrebbero essere influenzati da variazioni dello stress regionale, come nel 2002-2003, quando l'intero Tirreno meridionale è stato interessato da sismicità e attività eruttiva dei vulcani Etna e Stromboli". Ricordate quelle spettacolari manifestazioni di ribollimento del mare accanto a Panarea? Per il geologo Marco Anzidei, autore della pubblicazione, "continuano anche oggi, ma con intensità minore rispetto al 2002-2003. Le deformazioni sono piccole e non destano preoccupazioni particolari per la sicurezza dell'isola. Tuttavia, come per tutte le aree vulcaniche attive, non si può escludere che si possano verificare deformazioni del suolo di maggiore entità nei periodi vicini ad aumenti dell'attività esalativa".

Da milioni di anni l'Appennino si muove, si sposta, per effetto della cosiddetta "deriva dei continenti". In particolare, secondo l'Ingv, l'Appennino centrale - nella zona compresa tra Lazio, Umbria, Marche e Abruzzo - si sposta con un tasso medio di circa 1-3 mm all'anno con un movimento orientato Nord Est-Sud Ovest. I risultati relativi alla dinamica della crosta terrestre nell'Italia centrale, sono stati conseguiti grazie a una fitta rete Gps realizzata dall'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, consistente in alcune stazioni in monitoraggio continuo, integrate da altre 125 stazioni discontinue, distanti tra loro dai 3 ai 5 chilometri.

La rete geodetica è in grado di rilevare con precisioni millimetriche i movimenti della crosta terrestre sia durante la fase intersismica (nell'intervallo di tempo tra il verificarsi di due terremoti) sia durante la fase cosismica (durante il terremoto stesso). Poiché tra il 1999 e il 2003, non si sono avuti importanti fenomeni sismici nell'Appennino, la rete Gps ha però messo in evidenza i movimenti crostali di origine non sismica, che avvengono a causa dei lenti movimenti delle placche terrestri.

"La novità è che siamo riusciti a misurarli su brevi intervalli di tempo - spiega Warner Marzocchi (Ingv) - ma che l'Appennino si muoveva era ampiamente risaputo. Di solito le misure venivano fatte "geologicamente", quindi su scale temporali più grandi. Ora col Gps possiamo avere un dettaglio temporale maggiore, ma non ci sono novità da quanto osservato.

In altre zone del mondo, come Sumatra o l'anello circum-pacifico queste velocità sono 10 volte più grandi, cioè alcuni cm all'anno".

Secondo Gianluca Valensise (Ingv), "che l'Italia si deforma, che esiste la tettonica e che tutto il globo si deforma, lo sappiamo da molti decenni. Queste deformazioni non si traducono necessariamente in terremoti, e se lo fanno seguono un meccanismo non semplice". L'Appennino si sposta ogni anno come tutti i margini di placca del pianeta. "Questo dovrebbe essere noto ai cittadini - fa notare Massimo Cocco (Ingv) - ed è stato chiarito che la Terra è un pianeta caratterizzato da un sua dinamica. Le placche si spostano a velocità che possono superare i 20 cm all'anno come nelle zone di subduzione (Samoa, Sumatra, la costa pacifica dell'America del sud)".

Questi spostamenti delle placche provocano deformazioni della crosta terrestre. "Le Ande ad esempio si sono formate dalla collisione di due placche. Fortunatamente la deformazione in Appennino è minore, dell'ordine di pochi millimetri l'anno, e quindi per misurarla occorrono reti di monitoraggio moderne e dense ed un intervallo di osservazione più lungo. Tali reti in Italia esistono ed i risultati sono disponibili.

La misura dei tassi di deformazione viene usata anche per definire la mappa di pericolosità. Concordo che la disseminazione e l'informazione sono essenziali e purtroppo deboli nel nostro Paese, ma noi scienziati da soli possiamo fare poco".

"Che la terra sia un sistema in continua evoluzione - fa notare il prof. Enzo Mantovani dell'Università di Siena - è noto da molto tempo (teoria della tettonica a placche). Ovviamente l'Appennino non può sfuggire a questo comportamento globale; studiando le deformazioni geologiche e geofisiche è possibile farsi un'idea di come il sistema che interessa sta muovendosi nel lungo termine (da decine a centinaia di migliaia di anni).

Le caratteristiche della sismicità forniscono informazioni su come il sistema si è deformato e fratturato in tempi più ravvicinati (secoli)". Le misure geodetiche permettono di stimare i movimenti attuali degli ultimi anni. "Tutte queste informazioni suggeriscono che la catena appenninica è soggetta a movimenti orizzontali e verticali di pochi mm/anno distribuiti non in modo omogeneo".

E' comunque opportuno considerare che queste informazioni non possono essere facilmente usate per fare previsioni sull'attività sismica futura, soprattutto per quanto riguarda il breve termine. "Ritengo che  per il momento non ci siano possibilità concrete di fare tali previsioni né sulla base di misure geodetiche né sulla base di altri presunti precursori e tanto meno mediante analisi statistiche della storia sismica.

Noi abbiamo fondate speranze di ottenere informazioni interessanti sulla distribuzione dei futuri terremoti forti in Italia utilizzando un'enorme quantità di informazioni (comprese quelle geodetiche) ma questa procedura non permetterà di fare previsioni a breve termine sul luogo e il tempo delle scosse attese. Non sono a conoscenza di metodi che sulla base di misure geodetiche permettano di capire quanto una o più faglie siano vicine alla rottura.

Per tentare questo esercizio, sarebbe necessario avere tante altre informazioni sulle caratteristiche  della struttura in oggetto (reticolo di faglie presenti, in particolare), sul suo attuale caricamento e sul quadro dinamico che la sollecita".

"Il potenziato sistema Gps dell'Ingv - rivela il prof. Roberto Scarpa dell'Università di Salerno - permette di quantificare ulteriormente il lento movimento del sistema appenninico che è in ultima analisi la causa dei terremoti. Di per sé ciò non costituisce una scoperta originale nel senso che dati disponibili fin dai primi anni '90 mostravano ciò, unitamente alla modellistica sismotettonica mediante l'analisi dei meccanismi dei terremoti di cui credo di essere tra i pionieri nel nostro Paese.

Il mio lavoro è stato ed è quello, oltre alla didattica ed lla ricerca scientifica, di cercare di divulgare l'entità dei fenomeni naturali che avvengono in Italia, attraverso la partecipazione e l'organizzazione di convegni scientifici aperti al pubblico ed ai media. Nella mia permanenza presso l'Università dell'Aquila credo di essermi prodigato in tale direzione con non poche difficoltà e resistenze, e riscontro con amarezza che il lavoro da fare in tale direzione è ancora enorme".

Uno studio dell'Ingv, pubblicato in un articolo del Corsera, Domenica 12 settembre 1999 (Corriere Scienza), presenta le quattro zone a più alto rischio sismico in Italia, proponendo l'unica arma di difesa oggi possibile: la prevenzione.

 

Nicola Facciolini

 


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