Antonio Monestiroli: la casa ed il tempo

13 Dicembre 2011   11:25  

Dobbiamo domandarci se oggi è possibile costruire un edificio per l’intera comunità dei cittadini, per la nostra, moderna, cultura dell’abitare. Non un edificio come un altro fra le più ammirate opere contemporanee, ammirate senza essere importanti, per la loro immagine effimera e autoritaria insieme.

Un edificio che sappia misurarsi con i grandi edifici della storia, quegli edifici ai quali nessun architetto contemporaneo osa avvicinarsi con il suo lavoro. Io credo che ci si debba porre questo obiettivo, che ogni architetto si debba misurare con il tema della casa e del tempio, debba progettare una casa e un tempio, sfidando le convenzioni del proprio tempo.

Credo che porsi oggi questo obiettivo voglia dire porsi davanti al nuovo, spazzando via tutto ciò che viene proposto ogni giorno sulle riviste o giornali di architettura. Opere che si accontentano delle infinite variazioni di una forma ormai inespressiva, prive di quella qualità propria dell’architettura che è la durata nel tempo.

Nuovo deve essere il nostro rapporto con la natura, la nostra volontà di costruire luoghi e opere in cui riconoscere la nostra aspirazione a vivere secondo ragione. Quella ragione che rende riconoscibili i nostri sentimenti e i nostri affetti, che li rende riconoscibili nelle opere che costruiamo per alimentarli e custodirli. Il nuovo nascerà da questa antica e rinnovata volontà e solo dal nuovo nasceranno forme nuove.

Oggi l’ostacolo al nuovo è di tipo morale. Noi non possediamo un principio etico che ci spinga a progettare il nostro futuro. Come dice Umberto Galimberti: se non disponiamo di una morale capace di proteggere il nostro ambiente meno ancora saremo in grado di progettarlo. Una morale che prima di tutto ci faccia riconoscere la comunità a cui apparteniamo, che ci faccia riconoscere i suoi valori. Un fatto questo che va oltre l’architettura, che riguarda in generale la nostra cultura. Solo con questa premessa è possibile parlare di architettura. L’architettura per esistere deve essere espressione di civiltà. Deve essere espressiva di un insieme di valori propri di una società civile. Altrimenti non sarà architettura, sarà, nei casi migliori, una costruzione ben fatta che si limita ad esibire la sua qualità tecnica.

Dopo il tempo della tecnica deve venire il tempo della previsione di un mondo sperato da costruire con la tecnica. Il nostro saper fare deve essere guidato dal nostro saper prevedere. Lo stesso Prometeo, l’inventore di tutte le tecniche, è colui che vede in anticipo. Oggi, nel nostro lavoro, è venuta a mancare la nozione di utopia. Quella idealità che ci rende capaci di vedere in anticipo. È vero, come dicono in molti, che per costruire la casa e il tempio bisogna che ci sia la necessità della casa e del tempio e che questa necessità oggi non è riconosciuta.

Tuttavia io credo che sia una necessità sempre presente, che vada riscoperta e posta di nuovo alla base del nostro lavoro. La casa custodisce le nostre relazioni personali, i nostri affetti, i nostri sentimenti. Il tempio custodisce un valore collettivo, è l’edificio in cui la comunità dei cittadini si riconosce come corpo collettivo. Riconosce in esso un valore che è proprio della comunità stessa. Se nel tempio dell’antichità le colonne costruivano il recinto attorno alla cella della divinità alla quale tutti si rivolgevano, nel nostro tempio sono i cittadini stessi che abitano il luogo costruito per accoglierli. Una grande differenza fra chi guarda fuori da sè e chi riconosce una qualità della propria vita associata.

Questa è la modernità del tempio, è il principio che ci consente di cercare la sua forma nel presente. Il tempio greco è stato copiato e ricopiato fino alla fine dell’ottocento. Con le sue forme sono state costruite chiese, teatri, banche, musei, dissipando il valore di quelle forme originarie. Nel novecento qualcuno ha cercato di costruirlo di nuovo partendo dal suo significato profondo, cercando le forme che gli corrispondono nel nostro tempo. La costruzione del tempio è costruzione di un tetto e di un recinto. Un tetto sotto il quale radunare un’intera collettività, un recinto con il quale delimitare il luogo della riunione. Questo per le funzioni più diverse, accomunate dal fatto di essere funzioni della vita associata. Il progetto per la biblioteca di Pescara si pone questo obiettivo: la costruzione di un grande tetto che sappia accogliere sotto di sè l’intera comunità dei cittadini. Un obiettivo che si era posto Brunelleschi con la cupola di Firenze, Mies van der Rohe con il tetto della NationalGalerie a Berlino. Il tema dunque è il tetto. Un tetto così grande da contenere sotto di sè altri edifici destinati a funzioni specifiche. Usando una bella espressione di Corrado Alvaro potremmo dire: edifici contenuti in altri edifici, come in una custodia. Al tetto è affidata la funzione del custodire, nel nostro caso una biblioteca ma, insieme a questa, una intera comunità. Un tetto pressoché quadrato di 80 metri di lato; fra i 6 e i 7 mila metri quadrati di superficie, senza pilastri, se non sul perimetro. L’unico materiale possibile per una simile costruzione è l’acciaio. L’acciaio consente di affrontare grandi luci con una struttura leggera. Questo se si vuole costruire un tetto piano, una grande superficie perfettamente liscia senza interruzioni o sostegni. Una sorta di cielo artificiale sotto cui incontrarsi.

Per esaltare la qualità espressiva di questo cielo artificiale abbiamo deciso di farlo accogliere da un tetto ancora più grande che lo sovrasta e lo protegge. Il tetto più grande contiene quello più piccolo, il cielo artificiale, sotto il quale è costruito un edificio destinato alla biblioteca. Due piani sovrapposti ai quali corrispondono più recinti successivi. Un primo recinto di colonne d’acciaio a sezione circolare, sulle quali è appoggiato il tetto superiore, un secondo recinto di pilastri a sezione rettangolare sui quali poggia il tetto inferiore, un terzo recinto, rivestito in marmo, che delimita il corpo di fabbrica della biblioteca. Il quarto recinto è il cuore di tutto il sistema: la corte interna della biblioteca coperta dal gran tetto che la sovrasta. Per raggiungere il punto centrale, il luogo di riunione, che è il motivo per cui l’edificio è costruito, si attraversano dunque quattro recinti successivi.

Da qui si comprende il senso di tutto l’edificio, quello di costruire un luogo accogliente che sappia evocare l’idea di accoglienza. All’esterno l’edificio è costruito in modo da rendere evidente la sua finalità. Le forme svolgono solo questo compito e nessun altro. Tutti gli elementi sembrano impegnati a reggere il grande cielo azzurro, teso al di sopra della corte della biblioteca. Alla fine la composizione ricorda il tempio, un tempio in cui si celebra un rito civile: quello dell’incontro di un gran numero di persone intente a svolgere una attività che le accomuna.

Antonio Monestiroli


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